26 Aprile 2024
Misteri vintage

“A ridere della loro soverchia credulità”. La cometa del 1899 e la mancata fine del mondo

di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

L’11 novembre 1899 un piccolo giornale piemontese, La Lanterna pinerolese, diede l’ultimo saluto ai suoi lettori prima della fine del mondo

Dunque, cari lettori ed amabili lettrici – scriveva – dobbiamo prendere congedo da voi essendo questo l’ultimo numero che avrete il piacere di leggere. Come sapete il 13 novembre la terra incontrandosi con la cometa cosiddetta di Biela, ne sarà arrostita come un pollo allo spiedo. La coda della cometa, che si dice lunga parecchie migliaia di chilometri, finirà di spazzare tutto quanto resta. Rosticcieria universale! 

Ci crediamo perciò in dovere di dare a’ nostri lettori alcuni consigli: 1. Non pagate più i debiti; 2. Godetevi in gran furia le vostre sostanze; 3. Lasciate libero sfogo ai vostri sentimenti amorosi, se ne avete; 4. Risparmiatevi la spesa del testamento; 5. Aspettate con serenità e tavola apparecchiata il momento in cui un bolide rovente vi sarà scaraventato sulla testa.

Dietro a quello scenario alla Don’t look up c’era una “profezia” che stava circolando ormai da parecchi anni, e che con l’avvicinarsi della data fatidica era diventato il principale argomento di conversazione tra la gente comune. Come sempre, c’erano gli scettici e quelli che ridevano all’idea di un’imminente apocalisse; altri, però, non avevano dubbi: il mondo sarebbe finito immancabilmente il 13 novembre 1899, nello scontro con la cometa di Biela. A garantirlo era un “illustre professore tedesco”, Rudolf Falb. Oggi vi raccontiamo chi era quest’uomo, e del “panico da cometa” che scoccò in tutto il mondo nel 1899 – proprio alle soglie del Ventesimo secolo, e che toccò parecchie parti del mondo, dagli Stati Uniti, al Brasile, alla Francia.

La paura della cometa non è un lascito dei tempi antichi, pre-scientifici. A parte il caso più celebre, quello del transito della cometa di Halley nel 1910, di cui abbiamo già raccontato qualcosa, proprio il secolo dei lumi per eccellenza, il Settecento, fu caratterizzato da un lungo dibattito scientifico, filosofico e fra le persone colte su che cosa significassero le comete anche dal punto di vista psicologico, e sul come mitigare le paure ricorrenti su questo tipo di fenomeni. Potrete trovare parecchio su quest’ultimo aspetto in una tesi di dottorato discussa presso l’Università di Trento da Ilaria Ampollini, poi ampliata nel suo libro Cronaca di una cometa non annunciata (Carocci, 2019). 

Poco prima che il dibattito sulle comete perdesse la sua connotazione religiosa, però, ancora pochi anni prima era stato prodotto in Gran Bretagna un lavoro che a suo tempo ebbe grande celebrità e che incontrò anche l’ammirazione di Newton: A New Theory of the Earth, pubblicato nel 1696 da William Whiston (1667-1752), in cui si cercava di dimostrare la storicità del racconto biblico della Creazione sostenendo che tutto era dovuto a un’inondazione globale dovuta al transito di una cometa, e che l’atmosfera di un’altra cometa era stata responsabile della formazione della Terra – il tutto, per volontà divina, non per caso. Anche gli altri grandi mutamenti storici del pianeta erano dovuti a cause analoghe.

Questa volta, però, con la fine del Diciannovesimo secolo, era la volta buona. Ad annunciarlo non era più la religione o qualche astrologo da strapazzo, ma uno scienziato teutonico, l’esimio professor Falb.

Così proseguiva La lanterna pinerolese. Rudolf Falb

 …si è preso il gradito incarico di annunziare al colto ed all’inclita dei due emisferi che una cometa si prepara a fare una visita alla Terra. Guardando attentamente fra le nubi, il professore ha già veduto i preparativi del viaggio. Il treno viaggierà colla velocità di un milione di leghe all’ora, e percorrerà la linea più breve, senza alcuna fermata nelle stazioni intermedie. Farà soltanto un po’ di sosta nella stazione della Luna, forse per fornire d’acqua la locomotiva. La luminosa viaggiatrice porterà con sé, aggiunge l’illustre meteorologo, una provvista di lampi, tuoni, fulmini, clic porterà in regalo all’ospite. Pare persino che il comm. Massa delle ferrovie intercelestiali abbia già persino redatto l’orario del viaggio, poiché il prof. Falb è già venuto a sapere persino il giorno preciso dell’arrivo, che è il 13 novembre del 1899, alle ore 7 del mattino, salvo imprevisti ritardi. Evidentemente dalla data si indovina che la sullodata cometa desidera di assistere all’inaugurazione dell’Esposizione parigina del 1900. La visita farà certo assai più rumore che quella di Faure [il presidente francese del tempo, NdR] allo tsar. Il nostro pianeta si spaccherà in due. come una noce e, se ciò non fosse ancora sufficiente, l’egregio Falb annunzia di supero che il cozzo tremendo farà sviluppare nell’aria dei gas deliziosi che manderanno tutti all’altro mondo senza bisogno di spese di viaggio. Il giornale da cui ho tolto quanto ho narrato, aggiunge che intanto l’egregio professore, ini grazia di tutte questo suo preziose scoperte, lui dovuto abbandonare Triplitz per non sentire il sapore dei bastoni dei suoi concittadini, ormai stufi di avere vicino un simile uccellacelo di malaugurio. 

Tutta colpa di Biela

La cometa di Biela prende il nome dall’astronomo tedesco che per primo la descrisse nel 1826, Wilhelm von Biela. Fu una specie di tormentone astronomico dell’Ottocento, perché per certi periodi non fu più osservata telescopicamente, dando luogo all’idea che fosse “scomparsa”. Solo più tardi, nel corso del secolo, ci si rese conto che le incredibili piogge meteoriche del novembre 1833 e del novembre 1866 e 1872 erano dovute al suo transito, e questo ne accrebbe la popolarità. D’altro canto, queste vere e proprie bufere di bolidi stavano a indicare che la cometa stava rapidamente consumando la sua scia, tanto che ormai da molto si ritiene che sia andata completamente distrutta. Di certo, manifestazioni di quel tipo sono rimaste nell’immaginazione collettiva a lungo: inducevano nella stessa misura meraviglia e terrore, e le loro rappresentazioni grafiche continuano ancora a testimoniare la portata di quegli eventi.

Forse anche per questo, soprattutto negli Stati Uniti, comparvero teorie secondo le quali alcuni dei più grandi disastri causati da incendi, come quello di Chicago del 1871, e quelli del Michigan dello stesso anno, fossero dovuti all’impatto di frammenti della cometa di Biela con la Terra. Una pseudoteoria sostenuta dapprima da uno dei padri del catastrofismo cosmico moderno e della rinascita del mito dei continenti perduti, l’americano Ignatius Donnelly e al suo libro del 1883, Ragnarok: The Age of Fire and Gravel, ma poi ripresa qua e là in tempi successivi persino da qualche ricercatore scientifico. Falb probabilmente deve molto alle idee di Donnelly.

In realtà, l’evidenza di incendi, anche di piccole dimensioni, provocati dall’impatto di meteoriti è scarsissima, e le meteoriti che raggiungono il suolo terrestre sono sassi freddi. La cosa di gran lunga più probabile, considerata la bassa resistenza alla trazione dei corpi cometari, è che giungendo nell’atmosfera superiore si sfascino, generando airburst meteorici e spettacoli luminosi, ma non molto di più.  

Un’apocalisse più che annunciata

Sebbene l’idea che la cometa di Biela avrebbe provocato la fine del mondo il 13 novembre del 1899 fosse stata avanzata da Falb almeno dalla fine del 1893, fu solo sei anni dopo che lo studioso pubblicò a Berlino, per la casa editrice Hugo Steinitz, il romanzo Der Weltuntergang (“Il tramonto del mondo”), in cui annunciava in forma narrativa ciò che stava per accadere. Il libro fu siglato insieme ad un altro autore, che si firmava con l’anglofono Charles Blunt, ma che in realtà era lo scrittore e giornalista tedesco Arthur Brehmer (1852-1923), uno dei padri della fantascienza e della letteratura d’anticipazione nel mondo di lingua tedesca. 

Questo connubio, e il clima in cui i due scrissero insieme è importante per capire che cosa c’era alle spalle della passione per la “fine del mondo” di fine Ottocento. In un suo lavoro, il teologo e storico della cultura tedesco Linus Hauser ha accostato il libro di Falb e Brehmer-Blunt alle idee che in Europa centrale stavano diventando prevalenti: le paure pessimistiche per l’imminente fine della civiltà. Il titolo stesso del volume presenta la parola magica Untergang (declino, tramonto, conclusione), e lo stesso fa la letteratura fantascientifica e catastrofista coeva al romanzo dei nostri due autori. Il disastro naturale e generale in realtà è molto di più che un “semplice” disastro naturale: è un modo per far finire la storia di una civiltà, e farne iniziare un’altra. 

Con Falb, dunque la scienza dei terremoti, dell’astronomia “catastrofica” e delle comete che generano sconquassi non è un modo per discutere della natura e del suo funzionamento: è un modo per discutere del destino dell’uomo e del suo destino, e, in particolare, del destino – tragico – dell’uomo occidentale, della fine del suo ciclo millenario.  

Con la Prima guerra mondiale questa idea del “tramonto” della civiltà, in Germania e nell’Europa centrale diventerà una vera e propria ossessione. Ben presto produrrà conseguenze psicologiche e politiche nefaste. 

Rudolf Falb, uno pseudoscienziato dell’Ottocento

Non si pensi che Falb fosse un personaggio marginale. Oggi, dimenticato, all’epoca dei fatti era decisamente popolare. Nato nel 1838 in Stiria, allora parte dell’Impero austro-ungarico, fu ordinato prete cattolico a soli ventiquattro anni, ma ben presto divenne critico verso la sua confessione religiosa, abbandonò il sacerdozio e, nel 1872, entrò a far parte di una chiesa protestante. Trasferitosi a Praga, fece da tutore per i rampolli di famiglie nobili, cosa che gli permise di seguire corsi universitari di fisica e astronomia a Praga e di geologia a Vienna. Per quanto se ne sa, tuttavia, non conseguì mai una laurea in quelle discipline. 

Nel frattempo, però, a partire dal 1868, aveva cominciato a sviluppare le teorie pseudoscientifiche che gli varranno per alcuni decenni una controversa popolarità. La principale di esse fu l’ipotesi lunisolare per i terremoti. Secondo lui, forze di marea causate dalla posizione reciproca di Luna e Sole rispetto alla Terra, sarebbero state responsabili sia delle eruzioni vulcaniche sia dei terremoti, perché la lava presente sotto la crosta terrestre si sarebbe agitata a causa di queste forze, provocando cataclismi di ogni genere. 

Il guaio principale di questa idea – a parte che la dinamica tettonica dei sismi a quel tempo non era nota – sta nel fatto che le attrazioni indotte dai movimenti della Luna, e, in misura assai minore, del Sole, non potrebbero mai generare i terremoti. Tuttavia, ogni tanto Falb azzeccava le sue predizioni sui sismi, e questo ogni tanto produceva un effetto a sensazione sulla stampa popolare e divulgativa del tempo – insieme alle proteste degli scienziati per l’attenzione che veniva dedicata al catastrofismo astronomico di Falb.

In realtà, Falb ragionava in maniera tale da mettersi al riparo da qualsiasi confutazione. Sosteneva che i terremoti e le eruzioni si verificavano in certi periodi, quelli che lui definiva “giorni critici”. Il piccolo dettaglio è che i “giorni critici” avevano due caratteristiche: la prima, è che nel corso dell’anno erano talmente tanti (comprendevano quelli di Luna piena e nuova, quelli in cui il satellite è in posizione nodale, gli equinozi, quelli in cui la Terra si trova in apside, e così via…); la seconda, è che i “giorni critici” esercitavano la loro influenza nefasta anche sui due o tre giorni che li precedevano o li seguivano. 

Insomma, il risultato era che un giorno su tre, nel corso di un anno, andava bene per le sue predizioni. Quando il 29 giugno del 1873 nel Bellunese si verificò una scossa d’intensità 6,3 gradi Richter che provocò gravi danni e almeno un’ottantina di morti, la coincidenza con il suo ennesimo annuncio ne accrebbe la fama fra i giornali. Naturalmente si trattava di una tragica coincidenza ma, come si sa, la statistica non è mai stata troppo popolare nelle redazioni degli organi di stampa. 

La fantarcheologia di Falb 

Falb fu uno pseudoscienziato a tutto tondo. Come abbiamo visto, lo affascinavano le grandi forze trasformatrici del mondo e delle civiltà: comete giustiziere, soli e lune che fanno eruttare lava e crollare le città e – aggiungiamo – anche scoppiare cicloni e tempeste devastatrici.

Forse anche per questo, voleva capire quali erano le origini remote della cultura. 

L’occasione giunse nel 1877. In quell’anno, affascinato dai fenomeni vulcanici di grande portata tipici delle Ande, compì un viaggio in America meridionale, ma in realtà quella volta fu un’altra cosa ad afferrarlo: le culture precolombiane. Si fece ricevere dal presidente boliviano del tempo, Hilarión Daza, convincendolo a finanziare le sue ricerche sulla linguistica delle popolazione native, ma appena due anni dopo, quando Daza fu rimosso dal potere a causa delle sconfitte subite nella guerra che insieme al Perù aveva condotto contro il Cile, dovette abbandonare il paese. 

Falb però era assolutamente galvanizzato da ciò che pensava di aver scoperto.  Rientrato in Europa, nel 1883 e nel 1888 pubblicò due volumi in cui sosteneva le lingue Aymara e Quechua che si parlano nelle Ande erano i resti della lingua originale parlata dall’umanità ai tempi del Diluvio universale, e che quelle lingue erano legate a quelle semitiche, in primo luogo all’ebraico. Era per quello che la Bibbia era stata scritta in quella lingua. 

In questo modo, Falb fu uno dei precursori delle teorie pseudoscientifiche fiorite nel Novecento circa l’esistenza di superciviltà andine. In tempi recenti, queste teorie serviranno da base a diverse varianti del mito degli Antichi Astronauti, secondo il quale il pianeta sarebbe stato colonizzato in tempi remoti da alieni di varia provenienza. 

Soltanto nell’ultima parte della sua vita (morì nel 1903) Falb rivolse la sua attenzione alla teoria delle catastrofi planetarie dovute alle comete, cioè, alle idee pseudoscientifiche che produssero la smania della fine del mondo di cui vi stiamo raccontando. Insieme a quelle, le tesi di Falb sulle “età dei ghiacci” e sui diluvi, in parte derivanti dall’influenza del vero reinventore moderno del mito di Atlantide, Ignatius Donnelly, annunciavano in qualche misura le idee “ariosofiche”, cioè l’esoterismo razzista, antimoderno e antiscientifico che prese forma in Austria e in Germania a partire dagli inizi del Ventesimo secolo.

L’irrisione degli scienziati

Come si è visto, all’avvicinarsi della data preannunciata da Falb, si sovrappose l’attesa per lo sciame delle Leonidi, che – si assicurava – avrebbe generato uno spettacolo paragonabile a quello delle vere tempeste meteoriche del novembre 1833 e 1866. Così non fu (Giove interferì sulla scia della cometa Tempel-Tuttle, che ne è causa), ma prima che la data del massimo previsto non passò, parecchi organi di stampa, temendo la coincidenza fra la predizione di Falb e il vero fenomeno, si affrettarono a interrogare astronomi e altri scienziati, perché rassicurassero un uditorio che si supponeva terrorizzato. In realtà – se paura ci fu – furono proprio i media del tempo a prepararne condizioni e a far sì che questa predizione, non la fine del mondo, almeno in parte si adempisse. 

Ad ogni modo, Falb sosteneva da parecchi anni che l’autunno del 1899 avrebbe visto una catastrofe di portata planetaria. Ed era già da tempo che gli astronomi si erano espressi al riguardo in termini categorici. 

Il 25 ottobre del 1899, su La Stampa, il matematico e astronomo Ottavio Zanotti-Bianco (1852-1932) aveva riesumato una lettera, datata da Milano, 31 dicembre 1893, che su richiesta di un giornale di Vienna aveva inviato l’astronomo Giovanni Schiaparelli (1835-1910), il popolarizzatore dell’idea che su Marte ci fosse una rete di “canali”. Schiaparelli argomentò con razionalità: tanto per cominciare, almeno a quel tempo era impossibile calcolare in quale momento la coda della cometa si sarebbe avvicinata alla Terra (e, infatti, la spinta di Giove fu sufficiente ad annullare quasi del tutto l’attesa super-pioggia meteorica). Dunque, era possibilissimo che non ci sarebbe stato nessun “incontro”. E, se anche le polveri fossero transitate in coincidenza con l’orbita del pianeta, non avrebbero prodotto nessun effetto devastante sul nostro mondo – al massimo, l’impressione per la quantità di bolidi e, magari, cadute di meteoriti, come nelle precedenti occasioni.    

Scetticismo totale, proseguiva Zanotti-Bianco, era stato espresso dall’astronomo austriaco Edmund Weiss e da quello tedesco Wilhelm Foerster. A metà ottobre 1899, del resto, cosa analoga era stata fatta sul periodico fiorentino Fieramosca dal matematico e geofisico Timoteo Bertelli (1832-1905).

Insomma, un vero e proprio coro di lamentazioni contro il profeta di sventure, il pessimista totale Rudolf Falb.

Tutta colpa di Ibsen?

Non siamo riusciti a capire se quanto riferito dalla Gazzetta di Mondovì qualche tempo dopo la mancata catastrofe abbia qualche fondamento, almeno parziale. Il 21 novembre del 1899, quel giornale scrisse che lo scrittore norvegese Henrik Ibsen, allora al massimo della fama come tragediografo, anni prima aveva scritto una “fiaba come quelle di Giulio Verne” che aveva al centro proprio il nostro professor Falb. L’uomo aveva capito che la cometa di Biela stava per abbattersi sulla Terra e, a fatica, era riuscito a convocare un grande congresso di scienziati a Bruxelles che, alla fine, aveva convinto della realtà della minaccia. Per sfuggire alla catastrofe, non restava che costruire un vascello aereo in grado di raggiungere Marte. Ma era troppo tardi: le nazioni erano paralizzate dal terrore e dall’inazione, ma – miracolo – quando tutto sembra perduto la cometa sfiora appena la Terra, e si allontana nello spazio. A rendere più improbabile il tutto, sta il fatto che la Gazzetta di Mondovì sosteneva che la storia di Ibsen, tradotta in sintesi da qualche giornale inglese, era all’origine della diceria corrente sulla fine del nostro globo.

A noi sembra più probabile che questa fosse essa stessa una diceria fra le mille che circolarono in quel periodo su Falb e le sue idee. Non soltanto non ci è ignoto questo racconto di Ibsen (e potremmo sbagliarci), ma Falb, come ben visto, sosteneva che il mondo sarebbe finito nel novembre del 1899 almeno dagli inizi del decennio, con articoli, libri, discorsi. 

Il panico dilaga – oppure no?

Ma che cosa accadde – o non accadde – in concreto, in Italia e altrove, nell’imminenza della data annunciata da Falb?

Su La Stampa, il 14 novembre, la rubrica “La vita che si vive”, che spesso si occupava di cronaca bizzarra e insolita, sotto la firma di un giornalista che si celava dietro lo pseudonimo “Io per tutti” ironizzava sul duello Terra-cometa: in sostanza, una cronaca satirica delle risate con le quali quasi tutti, a Torino, accoglievano il conto alla rovescia.

Non va però trascurato un fenomeno giornalistico che probabilmente esagerava l’impressione che mezzo mondo si stesse agitando. Per avere qualcosa di divertente da scrivere, le cronache da città e paesi distanti si concentravano sui probabilmente pochi episodi di colore, o che avevano comportato reazioni spropositate di paura. Per questo, sempre La Stampa del 14 novembre scriveva che il giorna prima La Gazzetta di Mantova aveva riferito che in vari paesi della provincia di Rovigo, alcuni predicavano che il mondo si sarebbe rovesciato, e che ad Ostiglia, presso il santuario della Beata Vergine della Comuna, il cappellano aveva parecchio da fare, visto l’afflusso di devoti con ceri, lumini, intenzioni di preghiera… 

Ogni cosa era buona per sostenere l’idea della paura dilagante: sempre il giorno 13, a Livorno, una banda militare che suonava grancasse e tamburi per beneficenza, accompagnata dallo strepito degli studenti che correvano, avrebbe indotto il panico in molti, con svenimenti e urla. Una venditrice ambulante era stata presa dalle convulsioni – e tutto, si diceva, a causa della storia propalata da Falb. 

Del resto, già l’11 novembre, sempre attraverso la rubrica “La vita che si vive”, era stato annunciato che a Ivrea un portalettere, che da tempo sosteneva di essere “il primo profeta del mondo”, certo che la fine fosse vicina si era fatto trasferire – chissà poi perché – a Torino, lasciando a casa la famiglia, per poi presentare le dimissioni volontarie dal lavoro. 

Del resto, sui giornali più le località diventavano esotiche più il clamore sembrava crescere – e, a quel tempo, l’esotismo lontano ma non troppo, era quello del mondo arabo della costa meridionale mediterranea, completamente dominata dagli europei. Ecco allora che, da Tunisi, La Stampa del 14 novembre usava un motivo narrativo caratteristico dei periodi precedenti le “fini del mondo”. Un tribunale indigeno aveva visto un arabo citare un ebreo per debiti, quello aveva chiesto una dilazione di quindici giorni, ma l’arabo non l’aveva accettata, visto che per quella scadenza il mondo sarebbe finito… Il tribunale avrebbe posto agli arresti il debitore, detenuto sino a che la data fatidica non fosse trascorsa… 

Cose analoghe, del resto, accadevano nella vicina Tripoli, stando a La Dépêche Tunisienne: i debitori si rifiutavano di pagare i debiti. Come abbiamo raccontato in maggior dettaglio descrivendo un altro timore della fine del mondo, quello italiano del maggio 1954, abbiamo motivo di dubitare che, almeno nella misura e nelle forme raccontate dai giornali, accadessero sul serio: come per altre occasioni, abbiamo motivo di pensare che si trattasse di un racconto comune, e, come si suol dire, troppo bello per essere vero.

Inutile aggiungerlo: anche a Tripoli, ebrei e musulmani, ognuno per conto proprio, aspettavano tra processioni e preghiere la fine imminente.     

A posteriori, Omnibus, un settimanale di Novi Ligure (Alessandria), il 26 novembre ne approfittò per elaborare sul filone “donne – religione – irrazionalità – panico”. Era da un anno che tutti i giornali strombazzavano “questa fiaba” della cometa di Biela, ma da quindici giorni non c’era più niente da fare. La storia era al centro

[…] di molte conversazioni nelle quali alla credulità femminile, ed allo spauracchio dei bambini si opponeva la sicura parola di qualche mente equilibrata ed illuminata… 

Come esempio di questo fenomeno, Omnibus sceglieva, a conferma dei suoi pregiudizi, un aneddoto tratto da un periodico locale, il Corriere di Val Stura

Domenica mattina, vigilia della data fatale la quieta chiesuola dei cappuccini era affollata di fedeli, specie del sesso gentile , che in previsione della fine del mondo, s’erano colà recate a far la comunione e presentarsi al giudizio, monde di ogni peccato, e colla coscienza più candida di quella del nostro cronista. La sacra funzione era appena terminata, ed il buon don Riva era intento a recitare le ultime preghiere, quando improvvisamente una donna colpita da epilessia cadde riversa al suolo emettendo il solito caratteristico grido. Volle disgrazia che cadesse proprio ai piedi d’ una signorina che non potè frenare essa pure un grido di spavento cui altre fecero eco: Come ê facile immaginare, ne nacque una grande confusione e quelle ch’erano più discoste e che nulla avevano visto, credendo davvero alla fine del mondo, furono colte da pazzo terrore, e gridando e urlando si gettavano le braccia al collo l’una dell’altra. Finalmente e quando Dio volle, visto che la volta non era caduta e che la terra non si era spalancata, cominciarono a farsi animo e qualcuno, anche a ridere della loro soverchia credulità. 

Un’altra cosa, comunque, è possibile. L’interesse suscitato dalle caratteristiche della cometa di Biela negli ultimi decenni dell’Ottocento era senz’altro giustificata dalle caratteristiche assolutamente stupefacenti che lo sciame meteorico connesso possedeva. D’altro canto, a rendere più appetibili al pubblico moderno quel genere di preoccupazioni avevano contribuito grandi letterati come Edgar Allan Poe, che nel 1839 aveva pubblicato il racconto The Conversation of Eiros and Charmion. Due trapassati a causa dell’arrivo della cometa che aveva ucciso l’intera umanità, spiegavano al lettore che la cometa conteneva azoto – una sostanza che prima aveva indotto euforia nell’intero genere umano e, poi, una dolce morte.

La paura dei gas venefici, in effetti, nel 1899 accompagnò parecchio la presentazione giornalistica della prossima fine del mondo. Una cosa interessante, visto che la visione di Falb non comportava una fine tutto sommato così lieve, ma una conflagrazione colossale, con conseguente cataclisma generale, terrestre, marino e celeste. Una “vera” apocalisse cinematografica, dunque.

Molti anni dopo, il 1° febbraio del 1910, il quotidiano torinese Gazzetta del Popolo, mentre era già in vista il più famoso dei “panici da cometa”, quello di Halley – davvero basato davvero in gran parte sulla paura dell’azoto velenoso – un medico piemontese che scriveva anche di psicologia collettiva, Francesco Stura, rievocò episodi precedenti di timori generalizzati per qualche catastrofe. Accennò anche al nostro episodio, che però collocava all’ottobre del 1900, sostenendo che a Livorno, per l’ansia estrema indotta da quella storia, una donna si era suicidata.  

Insomma, per quanto ne sappiamo, la teoria di Falb fu popolarissima, ed essa deve essere considerata parte delle idee cosmologiche catastrofiste imbevute di pessimismo sul mondo, di teorie fantarcheologiche sul passato remoto e di pseudoscienza che stavano diventando sempre più popolari.

La stampa del tempo non vedeva l’ora di eccitare aspettative e brividi a buon mercato, ben sapendo che quasi nessuno avrebbe preso sul serio quelle predizioni. La nostra impressione, sulla base di quanto ne sappiamo, è che non ci fu un vero “panico” – anche se alcuni episodi isolati furono presentati come esemplari dalla stampa, che qualcosa doveva pur dire, dopo tanta attesa.

In realtà, come per altre occasioni, è più probabile che anche questa fine del mondo, opportunamente fatta coincidere quasi a perfezione con la conclusione del secolo, sia stata occasione per manifestazioni ludiche, scherzi e divertimento collettivo. Ma anche questo è prova dell’importante funzione culturale e antropologica che tali episodi ricoprono.  

Immagine in evidenza: John Bull, personificazione del Regno Unito, in una stampa del 1807, durante le guerre napoleoniche osserva la cometa francese che cerca inutilmente di raggiungere il Sole, al cui centro c’è il volto del sovrano britannico del tempo, Giorgio III. Fonte della foto: stampa a colori di Thomas Rowlandson, rilasciata in licenza CC0, pubblico dominio, via Wikimedia Commons