Misteri vintage

La fine del mondo, quella attesa in Italia nel 1954

articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo

Ci siamo occupati diverse volte di profezie e annunci di catastrofi, predette e mai avvenute. A volte si tratta di voci su terremoti, maremoti e cataclismi assortiti, ma limitati a una città, o a una porzione geografica. A volte sono preannunciate da figure “soprannaturali”, come per il terremoto di Milano del febbraio 1977, raccontato da una vecchina fantasma con un’ossessione per i taxi. In altri casi, le voci vengono ricondotte a scienziati, programmi radiofonici, sismologi mai ben identificati (come a Catania, sempre nel 1977, oppure, pochi mesi dopo, nella Liguria di Levante).

Nei casi in cui la voce parla di una catastrofe che coinvolgerà tutto il mondo, invece, la lettura può facilmente assumere toni di carattere religioso, escatologico. Proprio di un evento di questa categoria abbiamo scritto, narrando i fatti verificatisi nel Kashmir indiano alla fine di marzo del 2020. 

Oggi vi vogliamo raccontare un altro caso di questo tipo: l’attesa dell’Apocalisse, vissuta in buona parte come un intervento divino, che ebbe per teatro il nostro paese. Quasi nessuno lo conosce, ma percorse gran parte dell’Italia nel maggio del 1954.

“Il Conero è un vulcano, e Ancona sarà distrutta!”

Per quanto ne sappiamo, la grande paura italiana della fine del mondo del 1954 si manifestò per la prima volta nelle Marche, e più esattamente nell’Anconetano. Non sappiamo esattamente quando e dove questa ondata prese forma, ma la prima fonte di cui disponiamo, la Gazzetta del Popolo di Torino di venerdì 14, è chiara: il panico nelle Marche era già in corso da parecchi giorni. 

L’inviato, il giornalista e scrittore emiliano Ferrante Azzali, riassumeva la voce in questi termini: nella notte fra il 24 e il 25 maggio un cataclisma generale, che avrebbe coinvolto “terra, mare e cielo”, avrebbe devastato Ancona e l’intera regione. Il Conero avrebbe eruttato (la leggenda del Conero come vulcano spento è ben nota), causando un terremoto e un maremoto, che avrebbero seppellito case e palazzi per migliaia di chilometri. 

Molti sorridevano della voce, ma ciò che sorprendeva Azzali era il fatto che il racconto non trovasse orecchio soltanto fra “le donnette che bazzicano i mercati”, ma che la storia circolasse pure “fra persone di medio ceto, gente che dovrebbe fare uso della ragione”. Per timore di essere derisi, tuttavia, costoro si giustificavano dicendo che le Marche erano note per la loro sismicità, e che il Conero, forse, in passato era stato davvero un vulcano. Qualcuno, a quanto pare, si era davvero allontanato dalla città.

Del resto, già tre anni prima in città si era diffusa la voce che – per motivi misteriosi – la città sarebbe rimasta al buio, tanto che parecchi si erano messi a far scorta di candele e di lampade. 

Azzali però tentava anche di capire perché e come era nata la voce. La data del 24 maggio probabilmente era dovuta al ricordo ancora vivo delle ore iniziali della Prima guerra mondiale, nel 1915. Nella notte del 24 maggio 1915, Ancona, il suo porto e l’intera costa furono bombardate dalla flotta austriaca, con sessantatré morti e ingenti distruzioni. La data, dunque, da quelle parti era davvero infausta.

Anche il luogo di nascita della diceria, per Azzali, era ricostruibile. La storia che girava da giorni era iniziata a Chiaravalle, grossa cittadina a due passi da Ancona. Da quel paese spesso partivano pellegrinaggi per Pietrelcina, per andare a vedere padre Pio, il veggente e futuro santo. Qualcuno (forse “una qualche donnetta superstiziosa”) aveva raccontato che da tre mesi padre Pio piangeva e “pregava per la grande disgrazia che dovrà colpire le Marche”.

Azzali, militante cattolico, si era rivolto all’arcivescovado e a vari parroci che – inutile dirlo – avevano bollato la vicenda come superstizione. La curia aveva emesso una nota scrivendo che “questa diceria” provava ancora una volta che gli uomini del nostro tempo erano “dei timidi e degli impotenti… disposti a cadere nel gioco di una suggestione morbosa”.

La redazione di un quotidiano locale aveva telefonato al poliambulatorio di Pietrelcina – precursore dell’ospedale del luogo – che già allora accoglieva i malati, e aveva ricevuto assicurazione dallo stesso direttore, dottor Guglielmo Sanguinetti (1894-1954), che in tutto quello padre Pio non c’entrava nulla: il frate stesso gli aveva dichiarato di non aver mai fatto affermazioni come quelle che circolavano nell’Anconetano. 

Sanguinetti aveva aggiunto però un altro dettaglio di grande interesse. L’ondata di panico del maggio 1954 sarebbe stata preceduta a febbraio da voci analoghe a Siracusa, secondo le quali a fine aprile la città sarebbe stata sconvolta.

Azzali era poi stato da una serie di veggenti e chiromanti di Ancona e dintorni: più o meno tutti – prudentemente – erano scettici sulla “profezia”. Ma lo erano non certo per motivi razionali, ma perché, a loro, carte e stelle non avevano rivelato un bel nulla. Anzi, qualcuno di loro si era assunto anche un ruolo interessante: quello di rassicuratore dei suoi clienti, spaventati dalle voci. Potevano stare tranquilli, garantiva il Mago di Ancona insieme a sua moglie, la Sibilla di Ancona: il 25 maggio non sarebbe successo niente.

Roma, capitale di ogni diceria 

Intorno a giovedì 20 maggio, la voce dell’imminente fine del mondo si estese alla capitale. Il giorno 22, Gazzetta del Popolo spiegava che la storia stava circolando in zone allora periferiche di Roma, da Montesacro alla Garbatella. La diffusione era tale che, stando ad alcune direzioni didattiche, persino bambini delle prime classi elementari avevano chiesto spiegazioni in merito ai loro insegnanti. 

Alcuni collocavano l’epicentro della catastrofe lontano da Roma: terremoti attesi sull’arco alpino, fra Ginevra e il Piemonte (zone a notevole stabilità geologica, peraltro…), alluvioni in arrivo in mezza Italia, l’esplosione di una bomba all’idrogeno sull’Europa. Quest’ultima voce testimoniava che ai tradizionali castighi divini meteorologici e tellurici si era da tempo affiancata la paura moderna della distruzione atomica. Chi credeva in queste dicerie avrebbe indicato due possibili giustificazioni: la prima, il fatto che lo scioglimento del sangue di San Gennaro a Napoli quell’anno era avvenuto in ritardo, segno di sventura; l’altra riguardava invece una visione non meglio precisata avuta da padre Pio – cosa che s’imparenta con quanto si raccontava nell’Anconetano. 

La Gazzetta del Popolo però ne approfittava per fare anche una considerazione diversa. Le voci potevano forse essere sfruttate da “attivisti” (c’è da pensare, di area comunista) per alimentare un qualche significato politico “fra i più creduli”, in modo da offrire “ancora stasera […] alimento a qualche circolo propagandistico mantenuto artificiosamente attivo”. 

Difficile dire che cosa intendeva la Gazzetta del Popolo. Forse le voci sulla fine del mondo erano lette come un’occasione per diffondere il malcontento fra gli strati più poveri da parte di qualche militante del PCI; ma stiamo solo speculando.

Stampa Sera del 22-23 maggio faceva l’elenco dei quartieri romani in cui la voce girava di più: tutti periferici, ma posti sia a est sia a ovest del cuore di Roma, in posizioni assai diverse (la prevalenza della storia, dunque, era generale). I racconti però erano piuttosto diversi fra loro.  A Montesacro si diceva che il papa, Pio XII, aveva avuto una visione, e che la Madonna gli aveva profetizzato la fine del mondo; alla Garbatella, padre Pio aveva avuto una visione mistica, nella quale gli era stato mostrato il pianeta avvolto da un nembo di fuoco; in quartieri a prevalenza meridionale il guaio era il ritardo nella liquefazione del sangue di san Gennaro. Come in altre occasioni, molti dicevano di aver sentito l’annuncio di imminenti catastrofi – bombe all’idrogeno e terremoti qua e là – in qualche programma radiofonico, senza che nessuno fosse mai in grado di indicare nome e orario della trasmissione. 

Alle letture di carattere religioso si alternavano quelle pseudoscientifiche: “reazioni a catena”, “disgregazioni a ciclo continuo” e simili. 

“Vogliamo vedere il papa!” 

Sul Corriere della Sera del 23 maggio, la notizia era ancora più clamorosa. Da Roma un giornalista importante, Ferdinando Chiarelli, scriveva che la sera prima un gruppo di postulanti si era presentato a un portone del Vaticano, capeggiato da popolane vestite di nero, con corone di spine in testa o con immagini della Madonna. I penitenti chiedevano di essere assolti dai loro peccati da Pio XII in persona, perché la fine del mondo era questione di pochissimo. Fermati dai guardiani e affrontati da “un vecchio prelato”, spiegarono di aver saputo che il papa era stato visitato in sogno notti prima dal suo predecessore Pio X, canonizzato da papa Pacelli poco tempo prima, che gli aveva annunciato l’imminente Apocalisse. In molte case, proseguiva Chiarelli, in quelle sere erano stati accesi lumi davanti alle immaginette del proprio santo protettore di fiducia. 

La fotografia perfetta di un’Italia remota, in cui la spiritualità, i timori e le superstizioni confluivano ancora nell’alveo del Cattolicesimo – un clima ormai estremamente remoto, ma che, comunque, non esauriva – come visto – il panorama delle interpretazioni dei motivi della fine alle porte. 

Sull’origine della voce, La Stampa del 23 si dava a considerazioni più improbabili. Forse tutto era dovuto al fatto che la statua di Marco Aurelio, un tempo ricoperta d’oro, era stata da poco lucidata, e quando pioveva sembrava risplendere. Secondo la credenza popolare, quando fosse tornata alla doratura originaria avrebbe annunciato la scomparsa di Roma. Ma non era questa l’unica leggenda tirata in ballo. Un’altra convinzione popolare affermava che la fine dell’Urbe sarebbe stata preannunciata dal crollo del Colosseo. E proprio in quei giorni erano iniziati lavori di consolidamento del monumento, e la struttura era in parte incastellata da tubolari di ogni genere… Difficile dire se queste dicerie circolassero sul serio, oppure, se – come ci sembra possibile – fossero esse stesse pseudo-voci, voci sulle voci, prodotte o, perlomeno, imbellettate dai giornali alla caccia di qualcosa che tenesse viva l’attenzione dei lettori sino al momento fatidico. 

“Una catastrofe cosmica!”

Nel pomeriggio di lunedì 24 maggio, con il disastro ormai alle porte, la smania raggiunse il culmine. Riferendo da Roma per Stampa Sera, un corrispondente che si firmava n.g. spiegava che nelle ultime ore erano circolate voci di tipo diverso – di tipo cosmico. La Terra stava per essere distrutta da una nube di gas venefici provenienti da altri pianeti e trasportati sino a noi da un’enorme cometa (un po’ sulla scia della paura per la cometa di Halley, quella del maggio 1910, che in questo articolo avevamo battezzato cometite) – senza trascurare scontri di pianeti e meteore incandescenti. Anche il direttore dell’osservatorio astronomico di Monte Mario, il professor Giuseppe Armellini, era intervenuto per bollare come sciocchezze quelle storie. 

Ma c’era ben altro. La paura si era estesa a Livorno, dove si temeva un imminente maremoto, tanto che diverse famiglie avevano lasciato la città per trasferirsi in collina. Altri avevano chiesto case in affitto per qualche giorno ai contadini dell’entroterra, addirittura sino a Riparbella, in provincia di Pisa, e a Collesalvetti, piuttosto distante dal porto labronico. Molti, invece, si erano rivolti ai tanti “maghi” attivi in città, procurandogli affari d’oro.   

“È giunta l’ora!”

Come è facile immaginare, la mattina di martedì 25 maggio (l’apocalisse era attesa per la mezzanotte fra il 24 e il 25) le edizioni del mattino dei quotidiani si riempirono di commenti fra il ridanciano e il moraleggiante. Su Gazzetta del Popolo, in prima pagina, Paolo Cesarini (1911-1985) rivendicava al suo giornale, con il pezzo di Ferrante Azzali del giorno 14, il fatto di aver raccontato per prima in maniera completo della mania che si stava diffondendo dalle Marche, ma spiegava in altro modo il fatto che avesse attecchito così bene nella capitale. 

Per lui non c’era stato bisogno di media moderni o di articoli di giornale. Erano stati i fornitori di formaggi e di salumi che ogni giorno dalle Marche raggiungevano i negozi romani a raccontare la storia a commercianti e clienti, e, dunque, a fungere da innesco. Probabilmente Cesarini raccontava l’esito di qualche suo tentativo di accertamento, oppure qualche deduzione derivante da esperienze di altri, ma il ragionamento era comunque degno di nota: affidava all’oralità e al traffico commerciale le “gambe” della paura collettiva, e agli spazi di negozi e magazzini di alimentari il luogo privilegiato per l’esplosione nazionale della storia. Ad ogni modo, la diceria era poi arrivata anche in Piemonte…

La Stampa usava toni leggeri. Individuava l’ennesima “vera” area di partenza della voce: il quartiere del Nomentano, a Roma, dove nei giorni precedenti c’era stata grande animazione per i preparativi della festa del rione. E aggiungeva che nel corso della giornata erano stati consumati tutti i botti avanzati da Capodanno. Sembra poi che al Colosseo, nel pomeriggio, la folla fosse accorsa per assistere al crollo dell’impalcatura del restauro – primo segno della fine – mentre venivano lanciati manifestini su cui qualcuno aveva scritto: 

“La fine del mondo stasera: finalmente morirete tutti, uomini maledetti”.

Insomma, l’articolo descriveva, più che situazioni di panico, una reazione goliardica da circo di provincia.

“Colpa dei marziani!”

Dopo aver riferito delle centinaia di telefonate giunte il giorno prima a osservatori astronomici e centri meteorologici della capitale e di predicatori agli angoli delle strade che annunciavano la fine citando passi apocalittici dei vangeli, in un secondo articolo del 25 maggio, ancora Gazzetta del Popolo faceva fare all’intera storia un salto di qualità destinato a collocare l’intera storia della fine del mondo in un contesto modernissimo, e di gran moda: quello dei dischi volanti. Se non inventata, la voce era stata abilmente sfruttata in vista della prima di un film di fantascienza a base di marziani, e cioè Destinazione… Terra!, diretto da Jack Arnold. La pellicola narrava l’arrivo degli extraterrestri, sbarcati sul nostro pianeta per un guasto al disco volante; era uno dei primissimi film che sfruttavano la visione in 3D – quella con gli occhialini di plastica, per intendersi – e quindi era attesissimo dal pubblico.  

Anche in questo caso, è difficile sfuggire alla sensazione che il film in uscita con le voci non c’entrasse un bel nulla, e che si trattasse di cercare a posteriori delle cause “razionali” per il fenomeno, più o meno plausibili. 

A dire il vero, anche La Stampa dello stesso giorno accennava alla cosa: nel concludere un lungo articolo sull’attesa dei romani fra il comico e il superstizioso, raccontava della prima, al cinema Capranica, di “Destinazione… Terra!”. Forse, 

“Roma si era prestata a una colossale montatura pubblicitaria”. 

Nella sua edizione del 26-27, riferendo ancora da Roma, Stampa Sera ostentava maggior sicurezza. Sosteneva che era stato confermato che le “le voci relative alla fine del mondo” erano state messe ad arte in circolazione “per creare lo sfondo reclamistico” al film. Poi, però, la cosa era sfuggita di mano ai pubblicitari. Il racconto di Stampa Sera, del resto, era esso stesso una storia nella storia: la voce era stata pensata a tavolino, la creatura aveva però preso vita propria e, alla fine, il film al botteghino si stava rivelando un flop.

Che la storia della “mossa pubblicitaria” fosse probabilmente essa stessa parte delle fantasie che circolavano, sembra confermato da un altro particolare. Nella sua edizione del 25-26 maggio, riferendo delle reazioni dei torinesi al panico, il giornale spiegava che molti avevano pensato alla pubblicità di un film come causa di quanto stava accadendo. La cosa interessante è che non si faceva menzione di “Destinazione… Terra!”, che almeno nei cinema stava uscendo sul serio, ma di una presunta pellicola in lavorazione in quei giorni a Cinecittà, “Astri contro la Terra” – un film che non risulta mai essere stato prodotto, e del quale non abbiamo trovato nessuna traccia, nemmeno in uno stadio progettuale.

D’altro canto, era già il momento dei commenti pensosi di giornalisti e intellettuali: in prima pagina, su La Stampa, sempre il 25 maggio Filippo Sacchi (1887-1971) deprecava la vicenda – o tempora, o mores! Il quotidiano era stato preso d’assalto dalle telefonate, e certo lo spazio dato dai quotidiani alla storia non era stato un’esagerazione, perché quel “soffio di follia collettiva” era stato 

“più grave e deplorevole di quanto forse non si sia resa conto quella vasta parte di pubblico che gli è rimasta estranea”.   

La fine a Torino

Il panico, come abbiamo accennato, raggiunse anche aree del tutto diverse rispetto all’Italia centrale. Ne abbiamo testimonianza in particolare per il Piemonte. Da lì, le cronache raccontano di controversie spiacevoli insorte fra chi credeva alla fine imminente, e chi la irrideva. Nelle sue pagine di cronaca torinese del 25 maggio, La Stampa raccontava che in corso Giulio Cesare un uomo, davanti alle continue affermazioni pro-apocalisse della moglie, la sera prima aveva perso il controllo di sé e aveva malmenato la donna, colpendola con due pugni al volto. 

Altri dettagli venivano dalla cronaca locale di Stampa Sera del 25-26: ambulanti che vendevano frutta e verdura scontata al grande mercato di Porta Palazzo, scolari che dicevano a scuola che il papà aveva letto l’annuncio della fine del mondo sul giornale, gente dei quartieri a Sud di Torino, allora ancora in campagna, che sciamava verso le rive del Po in attesa della “cometa infernale”. 

In una trattoria un gruppo di dodici persone si era rifiutato di pagare la cena – tanto, ormai, non ne valeva la pena. Una cosa simile, per Stampa Sera del 26-27, era avvenuta in una trattoria romana di Centocelle: forse anche questa storia era un’invenzione? Alcuni episodi, invece, sembrano più fondati. Per scampare alla catastrofe imminente una famigliola si era messa in auto e intendeva dirigersi verso Cuneo – forse sarebbe stata risparmiata dalla fine del mondo? – ma prima di Carignano la vettura si era ribaltata, e tutti erano rimasti feriti in modo lieve. Due giovani torinesi ubriachi, infine, si erano contesi una ragazza in vista della fine del mondo, e lei aveva finito per avere la peggio, ricoverata in Pronto soccorso. 

Passata la buriana, in provincia qualcuno continuava ancora a preoccuparsi. Il Chierese del 29 maggio scrisse che la mattina prima, in quella cittadina presso Torino, molti avevano creduto di nuovo che fosse giunta l’ora finale – questa volta sotto forma di bomba H, oppure dell’arrivo di “missili marziani”, o ancora per un terremoto – perché in cielo di colpo si era sentito un sibilo acuto. Si trattava però di tre aerei da caccia a reazione, che compivano passaggi a bassa quota sul centro. 

Poi, per quanto ne sappiamo, gli italiani tornarono alle loro consuete occupazioni. Del panico da fine del mondo del maggio del 1954, non se ne parlò quasi più. 

Un anno particolare: gli altri panici del 1954

C’è però qualcosa che si può dire, sul 1954: in quell’anno, la sensibilità collettiva verso le storie “strane” doveva essere particolarmente viva. Una cosa che fu notata già negli stessi giorni della paura della fine del mondo e in sostanza nelle stesse aree geografiche (Marche, prima metà di maggio) e che accanto alle voci sull’apocalisse aveva fatto la sua comparsa il panico da “cancro del parabrezza” – la convinzione, cioè, che i vetri dei veicoli esplodessero di colpo e senza motivo apparente. Questi episodi venivano di solito attribuiti a fantomatiche “radiazioni delle bombe atomiche”. La mania nel corso dell’estate si estese a tutta l’Italia settentrionale e centrale, per poi attenuarsi in autunno: ne abbiamo parlato in questo articolo

Al contrario delle voci di catastrofi imminenti, che in genere si concentrano intorno a una data più o meno precisa (superata la quale la tensione cede di colpo e la diceria scompare), in racconti come quelli del cancro del parabrezza il culmine può essere meno evidente. Dicerie e testimonianze visive volte a corroborarne la realtà possono risultare distese lungo un arco di tempo più esteso, come accadde appunto per la “parabrezzite”.

Una via di mezzo fu rappresentata dal terzo e più vistoso panico collettivo italiano del 1954, quello dei dischi volanti. Fra metà settembre e fine dicembre, in Italia si registrarono almeno 1200 avvistamenti, con racconti e incontri con “marziani” di ogni genere. Le linee generali di quel grande sussulto collettivo sono ricostruite in questo video di Massimo Polidoro. In quel caso, anche se non c’era da aspettare nessun giorno speciale per una “svolta” (per esempio, a nessuno, per quanto noto, venne in mente che in un certo giorno, in una certa data, i marziani sarebbero atterrati in massa), i “picchi” di panico da dischi volanti ci furono lo stesso. 

Le ondate UFO, infatti, non dipendono tanto da un’attesa specifica, ma dalla disponibilità concreta di stimoli visivi, presenti in cielo, che possano essere scambiati per qualcosa di misterioso. Succede sovente con pianeti come Venere, quando sono particolarmente luminosi, oppure in congiunzione (cioè apparentemente vicini) ad altri corpi celesti di notevole intensità, come Giove. Nel caso del panico UFO del 1954, invece, gli italiani si convinsero che stava davvero succedendo qualcosa di strano per una mera coincidenza. Mentre il numero dei casi quotidiani era già in salita, il 14 e il 25 ottobre i nostri cieli furono solcati da due grandi meteore, luminosissime, viste da un gran numero di persone. E così, per qualche settimana, si scatenò un’autentica sarabanda. 

Con le “fini del mondo” una dinamica del genere è improbabile. Passata la data fatidica, tutti rientrano nella propria routine. Per la stessa natura estrema della credenza – la fine di tutto – può darsi che la rimozione collettiva sia rapida e quasi totale. 

In fondo, aver pensato almeno per un attimo che l’annuncio dell’apocalisse fosse vero merita l’oblio, forse quasi una negazione psicologica vera e propria. Anche per questo, probabilmente, è relativamente facile che i cicli del panico si ripresentino – magari proprio nelle stesse persone che ci avevano già creduto una prima volta. 

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