29 Aprile 2024
Misteri vintage

Lo strano “Cristo leonardesco” del professor Pende

di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo

Nel pomeriggio del 13 aprile del 1950 un quotidiano di Roma pubblicò una notizia che, per vari motivi, era adatta a colpire l’opinione pubblica del tempo. Nella capitale, in casa di un noto scienziato italiano, era comparsa dal nulla una strana immagine, nel giro di una notte. Sembrava in tutto e per tutto il volto del Cristo, ben visibile su una parete, dipinto in uno stile che avrebbe richiamato da vicino quello di Leonardo da Vinci.

Nel giro di poche ore l’intera stampa nazionale s’impadronì della vicenda. L’abitazione – una villetta di recente costruzione sulla via Salaria, al civico 318 – era in realtà stata affittata qualche tempo prima come studio da Nicola Pende, un medico endocrinologo a quel tempo direttore dell’Istituto di Patologia medica dell’Università di Roma, che, con le sue complesse vicende, era assai noto e godeva di un curioso prestigio. Come vedremo, la personalità, le teorie e i ruoli pubblici di Pende sono fondamentali per capire come mai questa storia fece così tanto clamore, e come mai fu tenuta in grande considerazione. 

Un “Leonardo sconosciuto”

Un giornalista a cui era giunta l’eco di quella strana comparsa si fece ricevere da Pende con la scusa di essere uno studioso di Leonardo e della sua personalità. Sostenne di essere interessato in particolare “al lato psichico” dell’artista, a cercare di capire come mai possedesse “tante virtù in ognuna delle quali fu eccelso” (Corriere della Sera, 14 aprile 1950). Era facile, seguendo la retorica dello stupore per il genio di Leonardo, far aprire il professor Pende alle confidenze. Lui stesso, infatti, da anni, si dava da fare a modo suo – forse molto a modo suo – per cogliere i segreti del genio rinascimentale usando il suo approccio biopsichico.

Come vedremo, in realtà Pende aveva idee curiose, eterodosse – e anche del tutto antiscientifiche ed esecrabili, in parecchi ambiti. Per ora, ci basti sapere che al suo interlocutore spiegò imperturbabile che per capire bene lo stato d’animo, anzi, “il subcosciente di Leonardo” bisognava esaminare “gli sfondi delle sue opere, per coglierne la condizione e le intenzioni mentre dipingeva”. Per questo, ovunque si trovassero, in Italia e all’estero, cercava le opere dell’artista, e vi applicava “questa sua personale teoria.” 

Forte della sua interpretazione psicosfondista – chiamiamola così – preso forse dall’entusiasmo, mentre l’altro fingeva meraviglia, gli aveva spiegato che il suo amore per Leonardo doveva esser stato ricambiato, visto che quello gli aveva fatto “un regalo”. Lo condusse nella stanza, dove, su una parete nuda e bianca, si vedeva “una testa di Gesù” di color terra di Siena bruciata, ma schiarita, “alleggerita e sfumata dal tempo”, tanto da sembrare più “un’ombra ferma, un’apparizione” che un disegno vero e proprio. Prima di essere adibita da Pende a schedario clinico, in quella stanza c’era una cucina. Secondo “d. m.”, corrispondente romano de La Stampa, era andata così:

[Pende] Aveva dunque fatto rimuovere il fornello a gas e la soprastante cappa, il cui foro per lo scarico dei vapori fu murato dagli operai. La parete fu poi imbiancata, ma proprio in corrispondenza del foro otturato comparve qualche giorno dopo una macchia uniforme di color ruggine, che andò man mano estendendosi. Il prof. Pende pensò di far dare una seconda mano di calce, sennonché un mattino, appena messo piede nella stanzetta, che è attigua al suo studio, la figura del Redentore gli apparve al posto della macchia. Credendo di avere le traveggole, chiamò la segretaria privata e il suo autista personale per avere conferma del fenomeno.

Solo in alcuni punti l’immagine era più intensa: ne aveva fatto ricalcare il profilo da un esperto – “ma appena un poco”, rivelò Pende. 

Ad esser precisi, era ormai da più di due anni che era lì, e più esattamente dalla mattina del 14 ottobre 1947. Era stata esaminata, così precisava il Corriere insieme a Stampa Sera nell’edizione del 14-15 aprile, da artisti, studiosi, prelati (a testimonianza del modo in cui ragionava Pende, lo scienziato prima aveva avvertito i religiosi, ed erano stati loro, a quanto pare, a far esaminare l’immagine); inutile dirlo, nessuno era stato in grado di spiegarne l’origine, tanto più che resisteva a ogni raschiamento. Un miracolo? Un fatto medianico? – si chiedeva l’autore del pezzo.

Da quanto si capisce, comunque, a intervenire nel settembre 1949 era stato l’allora direttore della pinacoteca dei musei vaticani, lo storico brasiliano dell’arte Deoclecio Redig de Campos (1905-1989), sollecitato da un conterraneo di Pende, il religioso monsignor Lucio Leccisi (1887-1951), che godeva del titolo di “prelato domestico di Sua Santità Pio XII”, – questo era il mondo ovattato in cui si muoveva Pende. Con La Stampa del 15 aprile 1950, de Campos fu riservato: confermò che alcuni contorni dell’immagine erano stati seppiati su richiesta di Pende, per renderli più netti, ma che l’immagine stessa era persistente e del tutto diversa dal lavoro di contorno fatto dopo la sua scoperta. Non si esprimeva sulle cause, ma non escludeva del tutto un trasudamento da strati sottostanti di pittura, ma anche per lui la somiglianza con un volto di Gesù dipinto da Leonardo era innegabile. Ad ogni modo, ogni volta, Pende si preoccupò di ripetere che non avrebbe voluto pubblicizzare la cosa. Era stato il giornalista romano a svelare il “segreto” e, in sostanza, a carpirne la buona fede.

Il punto centrale di questa vicenda, in realtà, è ben preciso: la convinzione che, nello stile e nei tratti, il murale ricordasse l’Ultima cena di Leonardo conservata presso il museo dell’Università di Cambridge – a quanto pare, più di quella celeberrima che si trova in Santa Maria delle Grazie, a Milano. Stessa espressione triste del Cristo, stesso taglio degli occhi della Cena, e così via. 

La grande somiglianza, proseguiva deciso l’articolo del Corriere del giorno 14, risultava “fuor di dubbio” sia per ogni visitatore ammesso in casa Pende, sia per qualsiasi esperto d’arte avesse visto il disegno tratteggiato sul muro. Non potevano esserci dubbi nemmeno sull’origine del ritratto. Pende, scrivevano i giornalisti, non era certo un pittore. Per lui, come fosse comparso il disegno era impossibile da capire: se lo era trovato di fronte, una mattina, entrando nella stanza, lì dove la sera prima non c’era niente, e l’immagine resisteva ai tentativi di raschiamento. Teneva a dichiarare – a scanso di equivoci – che non era né uno spiritista e tanto meno un medium.

Chiusura a riccio

Rapidamente, le cose si misero nel verso sbagliato. Colpito dal clamore indesiderato, Pende rifiutò ogni ulteriore verifica sull’immagine. Forse fu spinto anche dall’intervento di un non meglio precisato “noto cultore di metapsichica” che, sulla Gazzetta del Popolo di Torino del giorno 15, s’impadronì della narrazione, definendo quanto accaduto “normalissimo dal punto di vista spiritistico”. Il metapsichista spiegava che, secondo lui, si trattava di un fatto analogo a quello che da tempo, con presunte essudazioni di sangue che andavano a formare scritte e immagini di tipo religioso, era protagonista una veggente calabrese – il nome non era menzionato, ma è del tutto plausibile il riferimento fosse a Natuzza Evolo (1924-2009). Ma non è tutto: costui dichiarava che lo stesso Pende – che aveva detto di non essere uno spiritista – poco tempo prima si fosse occupato della veggente, che per il metapsichista era protagonista di “trasposizioni dallo psichico al materiale”, un qualcosa che secondo lui adesso doveva essere accaduta con il “Cristo leonardesco”.

Pende non la prese per niente bene. Alla Gazzetta del Popolo, che lo descriveva “addolorato e irritatissimo” per la rivelazione giornalistica della presenza dell’immagine, che teneva “nella sua intima collezione di fatti spirituali”, dichiarò che non riteneva il disegno una prova di “un dono di Leonardo”, né di miracoli, fatti medianici e simili. Insomma, qualcosa di opposto a quanto attribuitogli dal Corriere della Sera soltanto il giorno prima.

Ma c’era anche altro. Qualcosa che lascia perplessi, in un uomo di scienza. Per il quotidiano torinese, Pende si era chiuso a riccio, e non appariva più disponibile a discutere con nessuno lo strano episodio.

 “Desidero che si sappia che voglio sia chiusa ogni inchiesta su questo episodio… Ho già tanto poco tempo per i miei studi e per i miei malati”. 

Non abbiamo elementi per valutare ulteriori sviluppi, ma sta di fatto che, nel giro di pochissimo, la faccenda del “Cristo leonardesco” in casa Pende ritornò nell’oblio. Che sorte abbia avuto il disegno, non è dato sapere.

L’ortogenesi di Pende (e molto altro…)

Sulla breve vicenda dell’immagine di Gesù, L’Unità, il quotidiano del Partito Comunista, fu sferzante. Con alcuni trafiletti nelle edizioni del 15, 16 e 18 aprile (uno era firmato “Asmodeo”, pseudonimo del critico cinematografico e sceneggiatore Tommaso Chiaretti), si chiedeva se il profilo ebraico del Cristo fosse apparso a Pende anche quando, come pieno aderente al fascismo, aveva firmato, dodici anni prima, l’osceno Manifesto della razza promosso dalla dittatura. Irrideva l’entusiasmo di un giornalista del quotidiano romano Momento-Sera, Umberto Lazotti, per il quale Leonardo, forse rievocato dalle ricerche condotte con il metodo biopsichico da Pende, gli aveva fatto dono del volto del Cristo, al quale lo scienziato era “assai devoto”. Sotto la dittatura, Lazotti, dapprima redattore del quotidiano romano L’Impero (espressione negli anni ‘20 del fascismo più estremo), era stato uno dei cantori dello sport italiano del regime e della salute fisica dell’uomo nuovo mussoliniano. 

Al di là del clima politico immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, che cosa stava dietro a parole di questo genere? Quale ruolo ha avuto lo scienziato Nicola Pende nella storia italiana del Novecento, quali teorie ha sostenuto, e in che modo è ragionevole inquadrare il suo entusiasmo per il “volto leonardesco” di cui la stampa si occupò nel 1950?

Su Pende ormai la letteratura scientifica è molto ampia: in fondo all’articolo trovate alcune indicazioni. 

Pugliese, nato nel 1880, come medico diventò ben presto uno degli esponenti di punta della cosiddetta scuola costituzionalistica, che, in sostanza, puntava a tenere insieme caratteristiche antropometriche, funzionali e intellettive degli individui, per costruire dei veri e propri “tipi” di essere umano, che sarebbe stato facile curare nel loro complesso, come “tipi integrali”. Insomma, un armamentario tipico di una parte della medicina dei primi decenni del secolo scorso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, per difendersi dalle accuse di connivenza con il fascismo e ottenere il reintegro nei suoi incarichi accademici, Pende provò ad argomentare a suo favore; tuttavia, la valutazione complessiva della sua figura da parte degli storici va in una direzione netta: l’evidenza documentaria mostra che, sia pure a modo suo, e perché erede di un positivismo malinteso, Pende sostenne idee intollerabili sulle “razze”, sulla necessità di evitare il meticciato, ossia che persone di origine etnica diversa si unissero fra loro, e teorie improbabili di vario genere. 

Fra il 1922 e la guerra, Pende propugnò la biotipologia, che, nella sua applicazione pratica, per lui doveva diventare ortogenesi. Di che cosa si trattava? Verificando la presenza dei “biotipi” della popolazione in modo costante (in sostanza, alcuni dati antropometrici, in primo luogo altezza e corporatura), e unendo questo monitoraggio di lunga durata con la programmazione dell’ambiente di vita e di lavoro e con adeguati regimi alimentari, si poteva ottenere il miglioramento della “razza”. Com’è stato fatto notare da storici come Carl Ipsen, Pende, insieme a demografi e statistici fascisti come Carlo Gini, propugnava una concezione dell’evoluzione e del progresso umano che, più che quello di un malinteso darwinismo, echeggiavano le idee di Lamarck sull’ereditarietà. 

Come altri scienziati della sua generazione, proiettava queste idee su progetti sociali rispetto ai quali il fascismo, salito al potere, ben presto si dimostrò interessato, tanto da sostenerne carriera, piani, iniziative concrete. In questo senso, Pende fu centrale per i piani razzisti e di politica familiare della dittatura. La mescolanza fra “biotipi” diversi per colore della pelle era a rischio di degenerazione dei caratteri nazionali. Quanto alla presenza di semiti in uno stato, scrisse nel 1940, anche se limitata numericamente era un guaio: rischiava di “inquinare tutta la vita spirituale di una nazione” – spirito era una specie di parola-mantra, usata da filosofi, scrittori e scienziati fascisti un po’ ovunque, anche se in accezioni diverse fra loro. 

Per capire il peso che ebbe, basti dire che fu lo stesso Mussolini, nel 1933, a spingere perché il re, Vittorio Emanuele III, lo nominasse senatore, e, nel 1935, a disporne la nomina a direttore dell’Istituto di patologia medica dell’Università di Roma. Se non fosse stato per lo scoppio della guerra, probabilmente si sarebbe compiuto il suo progetto più ambizioso – e il cui nome parla da solo: la nascita a Roma, presso l’EUR, di un grande Istituto di bonifica umana e di ortogenesi della razza, la cui creazione fu approvata dal governo quasi in coincidenza con la pubblicazione del “Manifesto degli scienziati razzisti”. Questa volta, Pende tergiversò, per poi firmarlo in un secondo momento.

Dopo la guerra, Pende si fece scudo del suo temporaneo rifiuto nel sottoscriverlo. Fu ascoltato benevolmente, e reintegrato negli incarichi, in particolare nella direzione dell’Istituto di patologia medica de La Sapienza, e negli incarichi universitari, che mantenne sino alla fine della carriera. 

Nel 1998, in Scienza e razza nell’Italia fascista (Il Mulino, Bologna), Giorgio Israel e Pietro Nastasi hanno dimostrato che il ritardo nell’aggiungere la sua firma non era dovuto a suoi ripensamenti o problemi etici: voleva fosse valorizzata la sua concezione delle razze e dello “sviluppo umano”, visto che in sostanza, così come aborriva gli odiati americani con la loro eugenetica, così detestava i fascisti italiani ai quali piaceva il razzismo biologico tedesco. Pende era per una versione “italiana” di quelle concezioni, radicate nella cultura nazionale, ovviamente giudicata sede di ogni sviluppo buono che l’umanità poteva desiderare, e in una versione ultraconservatrice del cattolicesimo.

A fronte delle comprensibili necessità di riacquistare le posizioni perse con la fine della dittatura, i ripetuti scritti di Pende e la richiesta di una legislazione discriminatoria antiebraica purtroppo parlano da sole.

Come molti altri endocrinologi del tempo, Pende era convinto che il sistema ghiandolare fosse origine e soluzione di gran parte dei guai, psichici e somatici, dell’essere umano. Anche per questo il chirurgo francese Serge Voronoff (1866-1951), convinto di poter ringiovanire gli uomini innestandogli testicoli di scimmia, ai primi del 1928 espresse tutta la sua gratitudine a Pende per esser diventato il maggior sostenitore e diffusore delle sue incredibili idee in Italia. Si potrebbe pensare che queste teorie sulla possibilità di fare mille cose trapiantando ghiandole siano state in seguito dimenticata, ma, anche in questo caso, l’evidenza ci dice altro. In un’intervista di G. Baldi per L’Europeo del 2 agosto 1964 (n. 31, p. 30), Pende dichiarava: 

“Ho scoperto con le mie osservazioni fatti importantissimi. Ho trovato ad esempio, che negli omosessuali, vera piaga della società moderna, la pineale risulta sempre calcificata: una piccola pietra. Operando su alcuni soggetti innesti di pineale di vitello sono riuscito a guarirli, a normalizzarli.”

Al di là del lato più strettamente endocrinologico delle teorie di Pende, al cuore delle sue posizioni in realtà c’era una convinzione di fondo: quella della necessità dell’approccio complessivo alla salute umana. Oggi, col termine abusato, si parlerebbe di approccio olistico. Anche per questo, ai “biotipi”, alle osservazioni sui tipi umani brevilinei e longilinei e ad altro che abbiamo visto, si unì l’attenzione per l’omeopatia. La Scuola di medicina omeopatica Hahnemanniana (SIMOH) fu fondata presso la facoltà di Medicina de La Sapienza da un assistente di Pende, Antonio Negro (1908-2010), che ne conservò sempre il ricordo e lo considerò suo maestro e ispiratore.

Come abbiamo visto in precedenza, quando la storia dell’immagine saltò fuori, Pende ebbe cura di dichiarare ai giornali di non essere uno “spiritista”. Può darsi non credesse che i presunti fenomeni medianici arrivassero dai trapassati, ma di sicuro era del tutto coinvolto nel mondo del paranormale. Come ci ha raccontato Paolo Cortesi in questo articolo, in realtà in piena Seconda guerra mondiale Pende diventò membro della Società Italiana di Metapsichica (SIM), associazione che a quel tempo aveva stretti rapporti con le autorità. 

Che cosa accadde, nella villetta sulla Salaria?

Impossibile dirlo. E se è impossibile dirlo, per quanto ne sappiamo, è anche perché sembra che, dopo il clamore suscitato, Pende abbia rifiutato qualsiasi verifica pubblica sulle caratteristiche dell’immagine. Eppure, sia anche col necessario riguardo per la sua tranquillità domestica, era proprio quello che uno scienziato avrebbe dovuto desiderare: controlli, dibattiti e prove fatte alla luce del sole, e non visite riservate di prelati, direttori di musei e artisti. In questo modo, la realtà dell’immagine comparsa sulla parete quasi di certo rimarrà per sempre una storia ambigua, priva di chiarezza. Magari si trattò di un caso di pareidolia, oppure del riaffiorare di una pittura sottostante, o anche di un profilo vago reso più netto dai ritocchi apportati. 

Qui accanto potete vedere una sua riproduzione dai quotidiani dell’aprile del 1950. Ora, al netto della mediocrità delle foto dei quotidiani del tempo, c’è da chiedersi come in questo disegnino si potesse vedere la mano di Leonardo da Vinci e non, magari, l’opera di un qualsiasi decoratore o artigiano che aveva lavorato alla costruzione della villetta sulla Salaria.  

Tutto comunque fu inquadrato alla luce dei peculiari interessi di Pende per l’artista rinascimentale, e, ancora più in generale, degli ambiti culturali nei quali il medico si muoveva. Pende è un esempio fra i mille della storia italiana del secondo dopoguerra: malgrado la sua diretta, importante compromissione con alcune fra le espressioni più atroci della dittatura, dopo un breve periodo di anticamera tornò a godere di ampio prestigio. La stampa del 1950 lo glorifica, ne conferma le virtù di studioso e di figura degna della massima stima anche perché, in parte notevole, quegli stessi che firmavano cronache e commenti sui quotidiani erano stati fascisti anche loro, a volte in maniera nefanda. Se non fosse stato perché Pende era un personaggio di potere col quale molti giornalisti sentivano consonanza, la storia del “Cristo leonardesco” probabilmente sarebbe rimasta confinata a qualche articoletto nelle pagine della cronaca romana.

Dopo la guerra, diventate più difficili da presentare le idee sulla ortogenesi umana, Pende volse le sue teorie in senso cattolico ultraconservatore. Cercò di applicare alla teologia morale della sua chiesa libriccini come Medicina e sacerdozio alleate per la bonifica morale della società (1962). Di che cosa si trattava? Semplice: il moderno “medico biotipologo”, cioè il “riparatore moderno delle fabbriche umane guaste” doveva affiancare il prete cattolico: in questo modo, la scienza avrebbe completato a perfezione la tradizione ultrasecolare della casuistica dei peccati; a ogni uomo il suo biotipo (magari, ortogeneticamente più o meno sano), a ogni peccato la sua collocazione in un casellario. Nella Spagna franchista e ultraclericale degli anni ‘50 le posizioni di Pende trovarono ancora particolare simpatia. 

Non si creda comunque che queste elucubrazioni fossero prive di ascolto nella cultura italiana mentre il fascismo si avviava al tracollo a causa della guerra. A cavallo tra la fine del 1942 e la metà del 1943, sulla rivista dei gesuiti, Civiltà cattolica, le pseudo-teorie di Pende erano ancora considerate geniali. Il modello dell’ortogenesi delle razze presentava anzi affinità con la dottrina della chiesa di Roma, si scriveva. 

Forse è proprio in questo ambito – la lettura “religiosa” delle sue teorie – che va letta la piccola vicenda della misteriosa testa del Cristo di Leonardo della villetta sulla Salaria. 

Insomma, forse – anche se i dettagli ormai sfuggono – la spiegazione più adeguata del clima in cui maturò lo scoop dell’aprile 1950 è quella della commistione fra conservatorismo cattolico e idee correnti sotto il fascismo, rilette sotto la lente dei quotidiani della sera che spopolavano dopo la guerra. Una commistione ben riassunta dal titolo di un libro famoso nel 1957, opera dell’antifascista e anticlericale Ernesto Rossi: Il manganello e l’aspersorio.

Sulla figura di Pende:

  • Carl Ipsen, voce: “Pende, Nicola”, in Dizionario del fascismo vol. II, L-Z, Einaudi, Torino, 2003, pp. 357-359.
  • Roberto Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma, 2004, pp. 146-154.
  • Emmanuel Betta, PENDE, Nicola, Dizionario biografico degli italiani – Volume 82, 2015
  • AA. VV. Razza fascista. Nicola Pende fra scienza e ideologia eugenetica, Bari, Radici Future, 2019.

Immagine in evidenza: Nicola Pende, da senato.it, rilasciata in licenza CC BY 3.0 IT, via Wikimedia Commons