10 Novembre 2024
Interviste

Quando la politica non ascolta la scienza: intervista alla senatrice a vita Elena Cattaneo

di Lorenzo Montali

Recentemente Sense about Science, un’organizzazione che promuove la scienza nel Regno Unito, ha organizzato nel parlamento inglese una Evidence-week. Una settimana speciale durante la quale parlamentari, esperti e cittadini hanno discusso dell’uso che viene fatto delle evidenze scientifiche per prendere decisioni politiche che impattano sulla vita della collettività. Si tratta di un tema caldo, che andrebbe affrontato con serietà anche in Italia. Ne abbiamo discusso con Elena Cattaneo, senatrice a vita, accademica dei Lincei, professore ordinario di Farmacologia e co-fondatrice e direttrice del centro di ricerca sulle cellule staminali “UniStem” all’Università degli Studi di Milano. 

Senatrice Cattaneo, sarebbe utile secondo lei proporre un’iniziativa del genere anche nel parlamento italiano?

Sarebbe un’esperienza conoscitiva importante, dalla quale avremmo tanto da guadagnare e nulla da perdere. Ma in Italia, purtroppo, mancano momenti e luoghi istituzionali stabili e strutturati dove scienza e politica possono parlarsi e confrontarsi. Luoghi e occasioni dove la scienza può mettere a disposizione, spiegandole, le evidenze di cui dispone affinché queste possano rappresentare le basi di politiche pubbliche responsabili, consapevoli e coerenti con la realtà dei fatti. Non c’è motivo per non avvalersene, anche se talvolta, per ragioni politiche, il legislatore dovesse poi agire in contrasto con le evidenze scientifiche. Ne ha comunque tutto il diritto, poiché ha l’onere della decisione, ma ne deve motivare le ragioni. L’Italia sembra avere, purtroppo, un atteggiamento schizofrenico per quanto riguarda ricerca e innovazione: è capace di imprese conoscitive incredibili e, nello stesso tempo, di chiusure miopi e insensate che ancora oggi negano ai nostri studiosi la possibilità di progredire nella conoscenza in campi che riguardano anche la nostra salute. Ritengo che questo atteggiamento irrazionale del nostro Paese nei confronti della scienza sia anche conseguenza del fatto che la politica ricerchi il dialogo con studiosi esperti soltanto nell’emergenza, e soltanto per ottenere certezze assolute che, però, non è nelle capacità della scienza dare, soprattutto quando si indagano fenomeni nuovi. Iniziative come questa della Gran Bretagna, Paese in cui, peraltro, il Parlamento può già avvantaggiarsi della presenza del POST (Parliamentary Office of Science & Technology), non sarebbero perciò solo benvenute ma urgenti e auspicabili. 

Pensa che sarebbe accolta con favore e partecipazione da parte dei suoi colleghi? 

Ricordo che durante la discussione in Senato del provvedimento che avrebbe voluto garantire un riconoscimento privilegiato, per legge, alla cosiddetta agricoltura “biodinamica”, tanti colleghi Senatori rimasero colpiti dai miei interventi contrari a mettere un “bollino dello Stato” su una pratica non razionale, basata su credenze esoteriche e priva di evidenze scientifiche. Alcuni mi confessarono di non aver capito di cosa si trattasse, di non conoscere i riti e le suggestioni pseudoscientifiche di quella pratica, di essersi affidati ai referenti del partito sul tema agricoltura. Altre volte, anche su richiesta di alcuni colleghi senatori, mi è capitato di preparare schede per meglio affrontare la discussione parlamentare su temi scientifici o di politica della ricerca. Credo quindi che molti parlamentari – anche se immagino non tutti – potrebbero, sì, apprezzare la possibilità di un confronto con specialisti di vari settori della ricerca e dell’innovazione, anche come occasione per comprendere meglio gli effetti a lungo termine delle decisioni che si prendono nelle aule parlamentari. Devo dire però, che non sono in grado di stimare l’ampiezza di questa partecipazione. Alcune variabili apparentemente minori, come il giorno della settimana o la settimana in cui si tiene l’iniziativa, possono impattare molto sulla effettiva possibilità di essere presenti. Quel che è importante è far notare a tutti gli interlocutori, politici e no, che le “evidenze” offerte della scienza non sono da brandire contro qualcuno, né hanno un connotato partitico proprio; sono l’esito del lavoro di persone che indagano l’ignoto per tutti noi, giungendo a ‘disegni’ empirici più o meno solidi. Evidenze che sono offerte alla conoscenza del decisore pubblico perché li utilizzi responsabilmente nella costruzione delle politiche pubbliche di cui ha l’onere e l’onore di essere il responsabile ultimo, in nome e per conto degli elettori. 

Su quali aree riterrebbe prioritario sollecitare l’attenzione e perché?

Gli esempi non mancano, ma stabilire una priorità non è facile. Il nostro Paese ha vissuto la triste esperienza della truffa Stamina, la cui promozione ha ingannato pazienti e deriso le straordinarie competenze che il nostro sistema pubblico della ricerca può vantare proprio su questo tema. Di fronte all’attacco della Xylella agli ulivi del Salento, invece di agire secondo metodo, eradicando poche decine di piante nel luogo iniziale dell’infezione, chi doveva decidere si è perso in teorie del complotto, poi rivelatesi totalmente infondate, secondo cui la malattia degli ulivi sarebbe stata provocata, per oscuri motivi di guadagno, proprio dagli scienziati. Il danno è sotto gli occhi di tutti. In pieno Covid abbiamo anche corso il rischio dell’approvazione parlamentare dell’equiparazione all’agricoltura biologica dell’esoterismo biodinamico, anche ai fini degli incentivi e della formazione. Alla difficoltà di dotarsi di ‘armi’ culturali e metodologiche per meglio comprendere gli eventi fisici e biologici che accadono intorno a noi e non cadere vittime della pseudoscienza, si sommano impostazioni politico-culturali che mirano a ostacolare ricerca e sviluppo scientifico. Nel recente passato, le nostre leggi hanno imposto paletti alla ricerca italiana sulle cellule staminali embrionali umane (oggi in sperimentazione per il Parkinson e altre malattie), sugli Ogm (che importiamo non potendoli studiare e produrre), sulla sperimentazione animale, ambito in cui abbiamo le regole più restrittive d’Europa, ma grazie alla quale il mondo ha potuto avere a disposizione il vaccino anti-Covid in meno di un anno dall’inizio della pandemia. L’ultimo divieto che mi viene in mente in ordine di tempo è quello sulla carne coltivata, difeso oltre ogni ragionevolezza dall’attuale esecutivo. Con questa vastità e frequenza di accadimenti, in effetti, direi che la priorità sarebbe quella di far precedere ogni iniziativa normativa e regolamentare, su temi che toccano scienza e innovazione, da una sistematica review complessiva delle evidenze scientifiche ad oggi disponibili rispetto ai singoli ambiti o oggetti di legge. Se all’analisi tecnico-normativa dei testi e al controllo sulla copertura economica delle misure, già previste, si accompagnasse un report di uffici specializzati nella descrizione dello stato dell’arte scientifico della materia su cui si vuole legiferare, credo che questi elementi arriverebbero in poco tempo ad essere valorizzati maggiormente dal Parlamento, rispetto all’esito dell’attività legislativa.  

Prendere decisioni informate e consapevoli su materie complesse è un compito difficile per un parlamentare. Quali sono le criticità che si possono osservare da questo punto di vista?

Quando ci si approccia a un tema poco conosciuto, come sono spesso i temi scientifici, si tende a seguire quello che si percepisce come “sentimento” o orientamento generale, o ad assecondare narrazioni che altri hanno già alimentato fuori dalle aule parlamentari, magari per interessi personali o economici di determinati portatori di interesse (di qualunque natura essi siano). Ripeto, l’unico approccio possibile è il confronto preliminare con gli esperti. Le commissioni parlamentari potrebbero rappresentare un luogo in cui, a partire dalle audizioni, ascoltare la voce di scienziati e studiosi. Purtroppo, si rinuncia spesso anche a questa opportunità o, quando non vi si rinuncia, si procede in modo burocratico senza fissare i temi e quesiti da porre preventivamente agli auditi, e selezionando questi ultimi in base a criteri decisamente poco omogenei, mettendo sullo stesso piano studiosi e portatori d’interesse. Per citare di nuovo la discussione della legge che vieterebbe produzione e commercializzazione della carne coltivata, ad esempio, nelle commissioni che hanno analizzato il testo della legge in Senato, agli esperti sono stati richiesti solo documenti, nessuno è stato convocato e ascoltato. Fortunatamente, nelle commissioni della Camera, alcuni degli studiosi sono stati invece chiamati in audizione, ma poi la maggioranza ha bocciato tutti gli emendamenti che erano stati presentati, quindi è probabile che arrivi in Aula senza modifiche.

Cosa sarebbe necessario fare per evitare che gruppi di pressione che promuovono iniziative pseudoscientifiche, per esempio la commercializzazione di pseudoterapie mancanti di prove di efficacia, trovino ascolto presso i parlamentari italiani?

I casi Di Bella, Stamina e altri che li hanno preceduti o che sono arrivati dopo seguono sempre lo stesso copione. Conoscerlo permette di evitare nuovi errori di valutazione e immaginare azioni per prevenirli. Nel 2014 un giudice del lavoro di Torino, Vincenzo Ciocchetti, in una sua articolata ordinanza ha ricostruito e presentato la figura del “ciarlatano” come colui che si afferma laddove manca la disponibilità di trattamenti della medicina basata su prove di sicurezza ed efficacia, vende l’illusione di saper vincere una malattia incurabile, ma non mostra i dati, si presenta come un martire messo alla gogna dalla comunità scientifica e respinto dalle case farmaceutiche, non comunica attraverso i canali ufficiali, non si presenta a congressi ma solo in piazza e sul web, non usa un linguaggio scientifico ma persuasivo ed emotivo. A queste caratteristiche si aggiunge un’abilità strategica a occupare gli spazi di dibattito lasciati liberi dalla scienza. Per troppo tempo studiosi ed esperti hanno rinunciato a comunicare, a partecipare al dibattito pubblico. Solo presidiando tutti gli spazi e i luoghi in cui cittadini e politica si informano potremo impedire al prossimo ciarlatano o al prossimo gruppo di interesse di raggirare i cittadini e capitalizzare sul loro dolore e sulle loro paure, promuovendo teorie e narrazioni pseudoscientifiche.

La consapevolezza di questi problemi è condivisa nella classe parlamentare italiana?

Purtroppo solo in parte. Spesso, anche dopo aver ascoltato i pareri degli studiosi basati su dati e prove, si lascia comunque che a prevalere siano le posizioni portate avanti da gruppi di interesse che, per ragioni di consenso, si ritiene particolarmente importante non scontentare. Altrimenti non si spiegherebbe come, a distanza di quasi dieci anni, il Parlamento non sia stato in grado di eliminare i divieti supplementari alla sperimentazione animale che come Paese ci siamo autoimposti – divieti, peraltro, in contrasto con la normativa europea – o come, oggi, si possa difendere con tanta energia e fermezza la necessità di vietare la produzione e commercializzazione di carne coltivata in Italia. Un divieto inutile, oltre che insensato: inutile perché questi prodotti non sono ancora commercializzati in Europa, in mancanza di richieste di autorizzazione, insensato perché – quando lo saranno – il nostro Paese, nel rispetto dei trattati europei sul libero scambio, non potrà bloccarli al confine. 

La politicizzazione di questioni scientifiche – penso negazionismo sul cambiamento climatico o alle battaglie novax – è un fenomeno relativamente recente, ma rilevante ed esteso. Per combatterlo è sufficiente dire “bisogna tenere la scienza fuori dalla discussione politica” oppure è necessario percorrere altre strade?

Io non penso che la scienza debba stare fuori dalla discussione politica. Fare scienza (come per molte altre attività e professioni umane) ha comunque a che fare con la vita pubblica del Paese: è sostenuta con risorse pubbliche, svolta (anche) da docenti e ricercatori assunti nelle Università e centri di ricerca pubblici, forma giovani e studia per tutti noi. Anche per questo credo che gli studiosi abbiano il dovere di difendere le conoscenze acquisite ogni qualvolta queste corrano il rischio di essere sottoposte ad un condizionamento politico. Deve essere chiara la differenza fra i due piani: la scienza può fornire metodo, dati, risultati, ma è sempre la politica ad avere la responsabilità dell’ultima parola, della scelta. Inoltre, scienza e politica vanno ben distinte anche sul piano della comunicazione. È scorretto il tentativo di riprodurre per i temi scientifici gli schemi comunicativi dei talk show in cui ci sono due voci che si contrappongono. Nel dibattito politico, dove tutte le opinioni contano, le proposte di risoluzione di un problema si basano su principi e visioni che, nel rappresentare parti politiche diverse, sono spesso opposti. Nella scienza, invece, parlano i fatti, i dati, che possono essere confrontati solo con altri fatti, con le prove, mai con le opinioni. Mettendo fatti e opinioni sullo stesso piano, il rischio è di confondere il cittadino. Ecco perché è impossibile applicare la par condicio nella scienza. Un errore in cui capita che cadano i media.

Quali sono le principali difficoltà che ha incontrato nella sua battaglia parlamentare contro la legittimazione dell’agricoltura biodinamica? 

Come per altre questioni già richiamate, da Stamina agli Ogm, dalla sperimentazione animale alla carne coltivata, la difficoltà maggiore che noto nella politica è di cambiare posizione, ammettere di aver fatto una valutazione sbagliata, accettare che dati ed evidenze possano contraddire un messaggio o una narrazione che si era deciso di sostenere. Piuttosto che ammettere l’errore, si rifiuta di prendere in considerazione i dati. Il caso della biodinamica è stato però esemplare di quanto la scienza possa influire sui lavori del Parlamento anche dall’esterno. Durante la discussione in Aula, su giornali, siti web e programmi televisivi ci sono stati decine di interventi pubblici di esperti, ricercatori, società scientifiche, che continuavano a far presente alla politica la gravità di una legge che avrebbe sostenuto e promosso corni magici e riti esoterici. Alla fine, all’ultimo istante parlamentare utile, è stato impossibile non tenerne conto. In questo devo dire che, come emerso anche nel dibattito alla Camera, l’attenzione del Quirinale sul tema è stata preziosa. 

Il rischio che si prendano decisioni politiche senza considerare le evidenze scientifiche è limitato al Parlamento o si estende ai consigli regionali che deliberano in ambito sanitario? Esistono sono casi rilevanti?

Il rischio è ovunque, sia perché la scienza e il suo metodo di lavoro nel nostro Paese sono poco conosciuti, sia perché molti studiosi non hanno onorato al meglio il proprio ruolo sociale, che comporta anche l’uscire dai laboratori per entrare in contatto con i cittadini. Eppure la scienza si realizza solo nella sua dimensione collettiva, dentro e fuori il laboratorio, perciò è importante che a ogni sforzo della comunità scientifica volto a migliorare le nostre condizioni di vita corrisponda l’impegno della politica, a tutti i livelli, nel rendere quei miglioramenti accessibili a tutti, ovunque, alle stesse condizioni e con gli stessi livelli di qualità ed efficacia. Invece la realtà, come documentano quasi quotidianamente le cronache dei giornali, è ben diversa. In ambito sanitario ci sono esempi palesi di disparità anche tra regioni confinanti: un approfondimento medico urgente o una esenzione possibile nel Lazio può non esserlo in Umbria o in Abruzzo. Insomma mi pare che purtroppo diverse parti d’Italia fatichino a tenere il passo dell’innovazione scientifica e marcino a velocità differenti. Il caso delle mutazioni dei geni denominati BRCA 1 e 2 è emblematico. Le donne che hanno ereditato una mutazione in uno o nell’altro gene presentano un aumentato rischio di sviluppo di tumori alla mammella o all’ovaio nel corso della loro vita. Conosciamo moltissimo di queste mutazioni e delle loro conseguenze. Con percorsi di prevenzione che tengano conto della storia familiare di ognuno, mirati a comprendere quali soggetti presentano queste mutazioni e a prenderli in carico precocemente, tanti tumori possono essere scoperti in tempo, tante vite salvate. Eppure questi percorsi sono previsti solamente in 8 regioni; quelle che prevedono l’esenzione per gli esami specifici che questi soggetti a rischio devono ripetere periodicamente sono solo 9-10. Metà delle regioni italiane sono totalmente scoperte, e solo in sette di esse al percorso di prevenzione è affiancata l’esenzione per le visite. La stessa difformità regionale la ritroviamo nei test neonatali per individuare alcune specifiche mutazioni genetiche causa di malattie che conosciamo e sappiamo come trattare e curare. Peraltro, contrariamente a quanto spesso si crede, il Nord non sempre è in vantaggio sulle regioni meridionali: ad esempio, sugli screening neonatali, la sanità pugliese offre molte prestazioni innovative. Differenziare le forme di tutela della salute in base alla regione di residenza è una stortura su cui dobbiamo riflettere e – possibilmente – intervenire.    

Finora abbiamo parlato del passato. Quali sono i temi politici su cui potremmo veder riemergere un problema di limitato o cattivo uso delle evidenze scientifiche?

Come accennavo, il divieto, che la Camera si appresta ad approvare, di produrre e commercializzare carne coltivata in Italia, rendendoci così dipendenti dagli altri Paesi dell’Unione quando i primi prodotti di questo tipo saranno autorizzati dalla Commissione europea è emblematico di questo atteggiamento. Il paradigma istituzionale di questa vicenda non è il cattivo uso delle evidenze scientifiche: è la totale indifferenza ad esse, con l’aggiunta di vere e proprie falsità di comunicazione per giustificare un divieto che non ha nessuna connessione con le prove disponibili. Addirittura due colleghe della Statale di Milano, le professoresse Carlotta Giromini e Federica Cheli, hanno fatto presente ai proponenti della legge l’errore commesso nel portare come prova della scarsa salubrità della carne colturale uno studio scientifico del 2019 uscito sul British Medical Journal, che indicava il consumo di “prodotti processati” come fattore di rischio cardiovascolare. Peccato che – hanno scritto le colleghe in una memoria depositata in commissione, rimasta completamente ignorata – lo studio in realtà facesse riferimento a salumi e insaccati, cioè carne ottenuta con metodo “tradizionale” (da macellazione) e successivamente processata (aggiungendo grassi saturi).

Che ruolo potrebbero avere associazioni come il CICAP per accrescere la consapevolezza dell’importanza delle evidenze scientifiche nella classe politica? Ci sono attività che potrebbero essere intraprese in tal senso? 

Chi conosce e pratica il metodo scientifico ha il dovere di difendere dati ed evidenze quando queste vengono disconosciute, ignorate o manipolate. Di fronte a decisioni che riguardano la comunità, ogni distorsione deve essere portata all’attenzione pubblica, nell’interesse e per il benessere di tutti. Questo dovere riguarda non solo i singoli studiosi ma anche realtà importanti e benemerite come il CICAP, che promuovono il metodo scientifico e lo spirito critico contro la diffusione delle pseudoscienze. Dobbiamo usare la nostra voce e rivolgerci alla politica chiedendo una correzione di rotta quando siamo testimoni di deragliamenti rispetto a prove e dati scientifici, o quando, a livello pubblico, vediamo che narrazioni pseudoscientifiche vengono assecondate a fini commerciali o di consenso. Una delle fonti preziose che fa da linfa vitale di una democrazia liberale avanzata è la capacità della cittadinanza, spesso la più avvertita e consapevole, di presidiare lo spazio pubblico e di essere rigorosa nel confronto delle idee, riconoscendo che le emozioni e le impressioni hanno anch’esse una parte importante nel processo conoscitivo, ma che da sole non bastano, e anzi rischiano di indurci in errore (ancor di più quando sono prese come base delle politiche pubbliche). Il metodo della scienza è stato messo a punto proprio per aiutarci ad acquisire nuove conoscenze, a ragionare e a prendere decisioni basandoci il più possibile sui dati di realtà, in modo da non lasciarci suggestionare da narrazioni semplici e seducenti, ma che possono diventare fuorvianti e addirittura pericolose.