Il pesce monaco di Varigotti
Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
L’Italia è ricca di laghi, specie lungo l’arco alpino. Eppure, non abbiamo nel folklore degli “animali misteriosi” tante storie di mostri lacustri (o fluviali). Alcune vicende le potete rintracciare qui, qui, qui e qui; però anche un capolavoro della ricerca folklorica su questo argomento, il volume Lake Monster Traditions: A Cross Cultural Analysis (1988) di Michel Meurger, il nostro Paese non lo prende nemmeno in considerazione.
Pochi anche i mostri marini. Abbiamo acque su tre lati del Paese, eppure da noi i serpentoni a bagnomaria sono rari: è più roba da oceano, che da Mediterraneo. Qualcosa figura nel bel volume dello zoologo francese Jean-Jacques Barloy Les survivants de l’ombre (1985, trad. it: Gli animali misteriosi: invenzione o realtà, Lucarini, Roma, 1987); ma, a parte alcune ricerche del savonese Umberto Cordier e del comasco Giorgio Castiglioni, non esistono molte indagini degne di nota sui “mostri” delle acque costiere italiane.
Un’interessante eccezione è rappresentata dal pesce monaco che nel 1709 venne catturato a Varigotti, paesino della costa ligure ora nel comune di Finale Ligure (Savona).
Sappiamo di lui grazie all’epistolario del conte Carlo Bartolomeo Molinari, residente cesareo (una carica diplomatica) dell’imperatore d’Austria presso la Repubblica di Genova, che ne parlò ai suoi corrispondenti.
Nativo dell’Alessandrino, Molinari aveva iniziato la sua carriera come semplice mercante di panni. Trasferitosi a Milano, era entrato in contatto con il principe Eugenio, che apparteneva a un ramo cadetto di casa Savoia e in quegli anni era uno dei comandanti militari più importanti dell’Impero austriaco. Sarebbe poi diventato una figura mitica con la vittoria sugli Ottomani conseguita nel 1717 con l’assedio di Belgrado. Nel frattempo, Molinari era entrato al servizio degli Asburgo e aveva svolto incarichi diplomatici di varia natura. A Genova, Molinari fu inviato straordinario dell’imperatore d’Austria, qualcosa a metà tra un ambasciatore e una spia: in particolare, il suo compito era quello di raccogliere e trasmettere ogni informazione che potesse essere utile a Vienna – incarico che svolgeva grazie a una fitta rete di contatti, anche “in tempo che l’inimico usa ogni studio per impedir la comunicazione”.
Tra queste notizie – in mezzo a movimenti di truppe, informazioni raccolte dai marinai e relazioni su ciò che veniva discusso al Senato di Genova – c’è anche il mostro che ci interessa.
L’episodio fu riscoperto, in tempi diversi, dapprima dal giornalista Luigi Pironti, che ne parlò su La Domenica del Corriere del 21-28 settembre 1919, e poi, nel 2018, da Tamara Decia, dottoranda presso il Laboratorio di Storia Marittima e Navale (NavLab) dell’Università di Genova. Dobbiamo a lei molte delle informazioni sul contesto storico in cui si sviluppò vicenda.
Molinari si occupa del mostro di Varigotti in alcune lettere indirizzate allo stesso principe Eugenio; le più interessanti sono quelle del 29 agosto del 10 dicembre 1709. Allo stesso episodio accenna in altre corrispondenze dirette al conte di Schönborn e al conte Galasso.
Ecco, quindi, come fu descritto l’animale nella lettera del 29 agosto:
Il pesce mostruoso, che fu preso nella vicinanza di Varigotti tra Finale, e Savona, era di colore caffè, della lunghezza di circa quattro ale di Francia, piccolo verso la coda, e successivamente s’ingrossava verso il capo, nel quale consisteva la maggiore grossezza, e la sua mostruosità, mentre aveva una pelle a guisa d’un cappuccio de’ padri domenicani; e però lo chiamarono pesce monaco. Stette esposto nel luogo, dove si vendono i pesci, poi gli fù tagliato il capo, portato in alto mare, et ivi gettato.
Difficile indovinare da questa descrizione di cosa potesse trattarsi. Il pesce monaco nel XVIII secolo era quasi un topos letterario. Il più celebre era stato catturato in Danimarca nel 1546 ed era diventato subito oggetto di dibattito filosofico: segno prodigioso, oppure testimonianza della simmetria della natura, che aveva dotato ogni creatura terrestre di un equivalente marino? Negli anni, naturalisti ed etologi di tutto il mondo hanno provato a darne un’identificazione zoologica: calamaro, manta, tricheco, dugongo, squalo angelo. È molto difficile, però, separare le descrizioni oggettive da quelle più simboliche, che sono particolarmente evidenti nel caso di mostri analoghi. Prendiamo ad esempio il pesce vescovo reso celebre nel 1558 dal quarto volume delle Historiae Animalium di Conrad Gessner (in cui diversi studiosi hanno letto un riferimento alle tensioni religiose di metà Cinquecento):
Nel mar Baltico, verso la costa di Polonia e di Prussia, fu preso nel 1433 un uomo marino il cui aspetto era in tutto quello di un vescovo: aveva in capo la mitria, la croce in mano, ed ogni altro paramento di cui sogliono rivestirsi i vescovi quando celebrano la santa Messa. La pianeta gli si sollevava facilmente fino al ginocchio, tanto davanti che di dietro. Permise che parecchie persone lo toccassero, e specialmente i vescovi di quelle contrade, verso i quali, come diede a intendere a gesti, nutriva un profondo rispetto. E benché non parlasse, capiva bene quanto gli si diceva. Volendo il re rinserrarlo in una torre, fece intendere che ciò non gli aggradava, e quando i vescovi pregarono il re di lasciarlo tornare al mare, egli a gesti ne ringraziò. Vi fu riaccompagnato dai due porporati camminando tra di loro e appoggiando le mani sulle loro spalle. Entrato in acqua salutò i vescovi e la moltitudine accorsa, e, impartita loro la benedizione con un segno di croce, si tuffò in mare e disparve alla vista.
Gessner era un protestante zurighese, e non è da escludere che la storia fosse stata inserita a fini polemici contro il papato: il suo lavoro, non a caso, fu inserito nell’Indice dei libri proibiti da Paolo IV.
Comunque sia al pesce monaco di Varigotti andò decisamente peggio rispetto al “vescovo” – forse perché di minor rango ecclesiastico. Nel suo caso, si potrebbe azzardare l’identificazione con una razza o uno squalo angelo: ma sono interpretazioni che lasciano un po’ il tempo che trovano; dopotutto, è improbabile che Molinari avesse visto il mostro con i suoi occhi. Plausibile, piuttosto, che la sua fosse una testimonianza di seconda o terza mano. Più interessante è capire perché la cattura dell’animale ebbe una così vasta risonanza a Genova e nel circondario…
Era tutta colpa di Nostradamus.
Nella quartina V, 88 della sue centurie, infatti, il profeta di Salon aveva affermato:
Sur le sablon par un hideux deluge,
des autres mers trouvé monstre marin:
Proche du lieu sera faict un refuge,
tenant Savonne esclave de Turin.
Traduzione:
Sulla sabbia per un orrendo diluvio
d’altri mari trovato un mostro marino:
vicino a quel luogo sarà fatto un rifugio,
tenendo Savona schiava di Torino.
La quartina, in sé, è tra le più chiare e lineari dell’opera nostradamiana. Paolo Cortesi, autore nel 2018 de L’officina di Nostradamus, ce lo conferma: la scelta dei vocaboli si basò probabilmente su rime e assonanze lessicali, come accade spesso nelle quartine del profeta di Salon. Anche la menzione di un mostro non è affatto anomala. Scrive sempre Cortesi:
I mostri, prima di diventare oggetto di studio naturalistico, erano considerati segni di provenienza divina, leggibili in una sorta di codice allegorico che avrebbe concesso rivelazioni sul futuro – ovviamente orrorifico – che ci attende. Inoltre, Nostradamus, ha utilizzato spesso una fonte che pullula di mostri, quel Liber prodigiorum di Giulio Ossequente che è un’antologia dell’insolito, del pauroso, dell’anormale. Ne scrivo nel mio libro L’officina di Nostradamus: ci sono alcuni versi del francese presi quasi alla lettera dal testo latino.
Se il pesce monaco di Varigotti fece tanto scalpore, però, non era solo per questo: quel mostro era arrivato in un momento delicatissimo dei rapporti internazionali. Savona era, all’inizio del Settecento, sotto potestà della Repubblica di Genova. Nel 1701 era morto senza eredi re Carlo II di Spagna, e questo aveva scatenando la guerra di successione spagnola (parte di una serie di conflitti analoghi svoltisi in Europa a inizio Settecento, veri incubi per qualsiasi studente di storia moderna).
A contendersi il trono erano da un lato Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV e campione della Francia, e dall’altra l’arciduca Carlo d’Asburgo, sostenuto da una coalizione di stati (tra cui, naturalmente, l’Austria, alla cui casa regnante apparteneva). Il Piemonte, inizialmente schierato con la Francia, passò poi al campo opposto, scatenando le ire degli ex alleati. Il Piemonte all’epoca disponeva di tre porti sul mare: Nizza, Villefranche-sur-Mer e Oneglia. L’invasione francese portò alla perdita di due di questi. Il duca di Savoia, alla ricerca di nuovi sbocchi marittimi, guardava al marchesato di Finale (ma il cui porto sarebbe stato tutto da costruire) o, in alternativa a Savona, che però era appunto sotto il dominio di Genova. Nella Guerra di successione spagnola la Repubblica si era mantenuta neutrale, ma temeva le mire espansionistiche piemontesi, e stava per questo rafforzando le sue difese.
Molinari lo spiegava al conte di Galasso, inviato cesareo a Londra:
Cresce vi è più la gelosia di questo governo, rispetto a Savona, ed è però tutto intento a metterla in istato della maggior diffesa, ove se ne presenti il caso. Il Notradamus ha fomentati i timori, con avere legata la perdita di quella città alla comparsa di un mostro marino: ed appunto poco fa se n’è ritrovato in queste vicinanze uno.
Non era solo un timore del popolino, una semplice voce che correva tra gli abitanti della Repubblica. La profezia fu presa dannatamente sul serio dal governo di Genova, che ne discusse in una seduta del Senato.
Così sempre Molinari, nella lettera del 29 agosto al principe Eugenio:
Furono allora rilevati in senato questi quattro versi dell’astrologo Nostradamus […]. Altri rifletterono che il termine di schiavitù doveva intendersi in senso di maggior soggezione. Altri, che non si poteva accertare che un tal pesce fosse quello a cui dovesse applicarsi il rimanente della predizione, tanto più che non era venuto per diluvio. Ma l’opinione più comune fu che conveniva far caso della predizione, sì perché si trattava di mettere al sicuro più che si può una città sì riguardevole per la repubblica, sì perché quel mostro era comparso in circostanze tanto adatte all’evento predetto. Vi fu chi addusse l’esempio di Giona, quando disse ai Niniviti, che dopo quaranta giorni Ninive sarebbe sovvertita: e pure ciò non avvenne. Si concluse pertanto di rinforzare il presidio di Savona, di accrescere le provvigioni, di usare maggior vigilanza nell’indagar la mente et i maneggi di S. A. Reale.
Il Senato di Genova, insomma, optò per una soluzione salomonica: forse il pesce non era quello profetizzato da Nostradamus, ma conveniva comunque proteggere meglio Savona. Quanto al pesce mostruoso, deliberò che venisse gettato e che i nobili non ne parlassero più, al fine di “non angustiare il popolo”. Si direbbe dunque che fra i maggiorenti vi fosse un certo timore per i possibili effetti politici delle dicerie e per le reazioni che il mostro avrebbe potuto generare, almeno tra gli strati più bassi della popolazione.
La missiva di Molinari suscitò la curiosità del principe Eugenio, che chiese al corrispondente maggiori dettagli sull’animale. Lui glieli inviò alla fine del 1709:
V. A. Ser.ma riceverà qui annesso uno schizzo del pesce mostruoso che fu preso verso Savona. Io aveva disegnato di farne formare uno su la tela e colla espressione più naturale che fosse possibile; ma non mi è riuscito, e suppongo che la difficoltà da me incontrata proceda dal Pubblico, il quale, avendo penetrato il mio disegno, vi si è opposto.
Le autorità di Genova non volevano che del mostro si parlasse troppo, figuriamoci lasciare che fosse immortalato in un dipinto. Nonostante questo, Molinari era riuscito a ottenere uno schizzo e una descrizione più particolareggiata:
Lo stesso mostro aveva il capo piatto, e largo due palmi, e mezzo. La bocca di larghezza, capace ad inghiottire un figlio d’età di otto anni. Il muso simile a quello del porco. I denti simili a quelli del cane. Gli occhi larghi come quelli del cavallo. Aveva tre cappucci, fatti a farabalà [variante piemontese per falpalà, NdA], e sotto di essi le orecchie larghe un palmo. Il corpo rotondo, e di giro dieci palmi. Sul filo della schiena nero, e sotto il ventre cinericio. La coda lunga cinque palmi. […] Pesava quarantasei rubbi, e la sola testa diciotto. Rendeva cattivo odore, e di otto libre, che se ne fecero bollire, si ridussero in una sol libra di materia viscosa, e quasi liquida. Si fece osservare da molti marinari di diverse nazioni, ma da alcuno non se n’era veduto un simile in altre parti.
Insieme alla descrizione, Molinari includeva un nastro della lunghezza di un palmo, per poter fare un confronto (la standardizzazione delle unità di misura non era ancora arrivata: il palmo genovese non coincideva, ad esempio, con quello di Reggio Calabria; ad ogni modo, il palmo di cui parla Molinari poteva corrispondere più o meno a 25 centimetri). Purtroppo lo schizzo dell’animale è probabilmente andato perduto.
Questo episodio minimo della storia è utile, non tanto per la sua natura “criptozoologica”, ma perché ci dà un quadro interessante di come gli uomini – e i governi – del tempo potevano interpretare l’arrivo di un mostro, quale rilievo pubblico potevano dare alla sua comparsa e alle profezie ad esso collegate. Gli anni a cavallo fra Seicento e Settecento sono cruciali per la storia della scienza: da un lato c’era ancora l’interesse per i “portenti”, a metà fra natura e soprannaturale; dall’altra, la rapida crescita delle conoscenze geografiche forniva a getto continuo nuove descrizioni di animali meravigliosi e mai visti. Come commenta Tamara Decia:
la storia del mostro marino rappresenta una piccola “nota di colore” […] ma non è solo e semplicemente questo poiché, di fatto, consente di accostarsi, almeno un poco, alla mentalità dell’epoca studiando il comportamento dell’organo di governo della Repubblica di Genova in questa particolare circostanza.
Forse un giorno qualcuno studierà meglio le notizie su mostri spiaggiati e strane carcasse che si rincorrono sui nostri quotidiani ogni estate (ma, come detto, in Italia c’è piuttosto poco), e ne trarrà simili considerazioni.
Si ringrazia Paolo Cortesi per i contributi all’articolo