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Quando le celebrità credono al paranormale: una recensione “scettica” del libro di Paola Giovetti

Celebrità e misteri. Quando Kafka parlava con gli angeli e Einstein studiava la telepatia,
Paola Giovetti,
Edizioni Mediterranee,
Roma, 2024

Recensione di Paolo Cortesi

Paola Giovetti è produttiva autrice «specializzata» – leggiamo nelle note biografiche che accompagnano il suo ultimo libro – «nelle tematiche di frontiera e della ricerca psichica». Il libro si intitola Celebrità e misteri, edito da Mediterranee nell’ottobre del 2024.

Raccoglie numerosi casi di «coinvolgimento di personaggi celebri con il mondo dei Misteri»: interesse verso lo spiritismo, la telepatia, le apparizioni. Il criterio di scelta dei casi è molto ampio: si va da studiosi sistematici che avevano notoriamente dato credito alla parapsicologia, come Lombroso, Camille Flammarion, Arthur Conan Doyle, a personaggi che casualmente e marginalmente si interessarono alla dimensione occulta, come Mark Twain, Abramo Lincoln e Benedetto Croce.

L’intento dell’autrice è molto chiaro: se personalità così eccezionali si sono accostate al mistero, questo dev’essere qualcosa di più che delirio o fantasia. «Tutti visionari?», ci chiede Paola Giovetti nella premessa al volume: 

«Tutti all’ingenuo inseguimento di sogni senza consistenza? Ipotizzarlo sembra francamente azzardato: le eccellenti prestazioni di questi personaggi nei loro specifici terreni di competenza dicono il contrario. Non è infatti né giusto né logico ammirare Kant quando discute della ragion pura o della ragion pratica e accusarlo poi di creduloneria perché si occupa di un veggente – peraltro non meno serio e rigoroso di lui».

Il veggente di cui si parla è Emanuel Swedenborg (1668-1772) il quale, dopo una carriera un po’ caotica di scienziato, divenne visionario: gli apparivano angeli che gli dettavano libri nei quali erano rivelati tutti i misteri celesti e terreni; parlava con gli abitanti di Giove, Marte e Luna. Nel 1756, avrebbe visto con l’occhio della mente l’incendio scoppiato a Stoccolma mentre lui se ne stava a Göteborg, a cinquanta miglia di distanza, descrivendo esattamente tutto il percorso delle fiamme, fino alla loro estinzione.

Secondo la Giovetti, questa narrazione colpì molto Kant, e ne fu così conquistato da volerla studiare con cura. In verità, lo studio, che divenne poi un breve saggio dal titolo che è tutto un programma – I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (1766) -, fu richiesto a Kant dalla signorina Charlotte von Knobloch.

In un’epoca in cui la parola di un gentiluomo non si poteva mettere in dubbio, il filosofo si trovava davanti ad una testimonianza che doveva accettare per convenzione sociale, ma che non metteva affatto in crisi le sue cognizioni più solide. Per Kant, l’esperienza vissuta da Swedenborg è personale (Privaterscheinungen), non ha alcuna Einstimmung, unanimità; non appartiene alle esperienze comuni a tutti gli uomini e le donne; è insomma una faccenda solo sua, non condivisa con nessun altro né da nessun altro verificata.

Kant è chiarissimo su cosa pensi delle visioni di Swedenborg: 

«Quando certe pretese esperienze non possono essere sottomesse ad alcuna legge del sentire comune alla maggior parte degli uomini e quindi non provano che una irregolarità nelle testimonianze dei sensi (come è in realtà il caso dei racconti di spiriti riportati sopra) allora è prudente sbarazzarsene; perché la mancanza di accordo e di uniformità toglie in questo caso ogni valore probante alla conoscenza storica e la rende impropria a servire di fondamento a una legge qualsiasi dell’esperienza, su cui possa giudicare l’intelletto». 

Come a dire: sulle allucinazioni non si può fondare alcuna filosofia.

Dunque, è vero che – come scrive Giovetti – Kant ebbe «grande rispetto» per Swedenborg, ma fu il rispetto che Kant avrebbe usato (e infatti usò) per ogni altra persona con cui si fosse relazionato, per qualunque motivo. Così funzionava la società borghese nel XVIII secolo, soprattutto fra intellettuali.

Giovetti sembra dare a tutti i casi che raccoglie la medesima importanza, così che quella che fu una semplice curiosità, diventa un’esperienza fondamentale.

Prendiamo l’esempio di Kafka. Giovetti riporta una breve pagina del suo diario in cui lo scrittore racconta la visione di un angelo che gli appare nella camera. Ma come possiamo essere certi che questa fu un’esperienza reale e non una delle tante, straordinarie visioni che rendono eccezionale questo scrittore? Come possiamo escludere che Kafka scriva un abbozzo di racconto di cui lui è il protagonista? O che l’angelo sia una lucente allegoria?

Nel suo diario, Kafka scriveva tanto della realtà quanto del suo universo interiore, della sua anima. In data 4 ottobre 1911, leggiamo: 

«Ieri prima di addormentarmi ebbi nella testa, in alto a sinistra, una fiammella fredda e sfiaccolante». 

Dobbiamo credere che veramente una fiamma si sprigionò dalla fronte dello scrittore e bruciò senza ustionarlo? Certo che no. Il diario di Kafka non è il taccuino di un esploratore o di un medico, ma lo zibaldone della sua vita interiore d’uomo e d’artista.

Questo sembra il punto più debole del libro della Giovetti; tutte le esperienze narrate sono considerate come resoconti di studi o scoperte sbalorditive, mentre spesso, molto spesso, sono episodi ai quali i protagonisti non dettero un’importanza speciale, considerandoli curiosità o stranezze, non rivelazioni. Mark Twain, apprendiamo dal libro di Giovetti, visse un’esperienza di telepatia: un suo amico gli fece leggere il manoscritto di un saggio sulle miniere argentifere del Nevada che era praticamente identico al saggio dello stesso argomento che lo scrittore pensava di scrivere. Fu, secondo la Giovetti, un’esperienza straordinaria, ma alla quale tuttavia Twain non dette troppa importanza, tant’è che non ricordava esattamente l’anno in cui era avvenuta: 

«era il 1874 o il 1875».

Questo è un dato comune a tantissimi casi a cui, nel libro, non viene fatta attenzione: il «coinvolgimento con il mondo del mistero» non segnò le vite delle celebrità di cui si scrive, non li trasformò in sostenitori della parapsicologia. Per gli artisti, si trattò di episodi più intensi della loro sensibilità creatrice. A parte rari casi, l’esperienza paranormale restò un momento circoscritto, certo suggestivo ma non stravolgente, nell’esistenza dei personaggi. Del resto, ciascuno di noi ha provato, almeno una volta, qualche “stranezza misteriosa”: deja-vu, sogni simbolici, coincidenze significative, previsioni azzeccate. Tutto ciò è affascinante, ma basterebbe notare quante volte non si verifica l’evento cosiddetto paranormale per capire che siamo nel mondo fisico oggetto di verifica statistica, e non nel mondo del mistero.

L’appassionata adesione dell’autrice alla causa parapsicologica pare spingerla a conclusioni un po’ affrettate. Giovetti scrive: 

«Albert Einstein era tanto incuriosito dalla telepatia e dalla chiaroveggenza che volle scrivere la prefazione all’edizione inglese del libro di Upton Sinclair “Mental Radio”, che tratta appunto di esperimenti telepatici».

La prefazione è una breve lettera, datata 23 maggio 1930, nella quale Einstein, molto ragionevolmente e con grande prudenza, scrive che 

«anche se i fatti riportati non fossero attribuibili alla telepatia, a qualche inconscia influenza ipnotica da individuo a individuo, sarebbero ugualmente di un grandissimo interesse psicologico».

Upton Sinclair (1878-1968) era uno scrittore e giornalista, premio Pulitzer nel 1943, militante socialista, che nel libro Mental Radio pubblicò i risultati degli esperimenti di telepatia condotti con la moglie Mary. Sui test di Sinclair, Martin Gardner scrisse che sono 

«un resoconto gravemente insoddisfacente delle condizioni che organizzano le prove di chiaroveggenza».

L’amicizia fra il romanziere ed Einstein era in buona parte fondata sulla comune opinione politica.

Il libro di Giovetti, scritto con piacevole chiarezza, dovrebbe «invogliare a seguire la strada della ricerca in un ambito ricco di intuizioni e promesse importanti per il mondo in cui viviamo, per una migliore conoscenza di noi stessi». Spero, piuttosto, che il libro induca i lettori a voler conoscere meglio, nei loro «specifici terreni di competenza», i personaggi di cui si parla. Victor Hugo, per citare un solo esempio, ha contribuito molto più e molto meglio alla evoluzione etica della società con il suo magnifico romanzo I miserabili che con le dozzine di pistolotti moraleggianti dettati dai tavolini parlanti nell’opaco esilio di Guernesey.

Immagine di copertina: il manoscritto con cui Emanuel Swedenborg nel 1714 raccontava di emissari di altri pianeti che gli facevano visita su una “macchina volante”. Da Wikimedia Commons, pubblico dominio