4 Giugno 2024
Approfondimenti

Guarire dai traumi muovendo gli occhi? I problemi della terapia EMDR, in un’intervista al dottor Moreno Coco

L’EMDR (Eye movement desensitization and reprocessing) è una psicoterapia proposta dalla psicologa americana Francine Shapiro (1948-2019). Almeno agli inizi, era stata ideata per alleviare il disagio dovuto a memorie traumatiche, tipicamente quello da PTSD, il Disturbo da stress post-traumatico. Come altre psicoterapie, l’EMDR si basa su un richiamo del ricordo del trauma vissuto (dunque, in questo senso è simile alle tecniche di desensibilizzazione), ma usa un sistema peculiare: la richiesta del terapeuta al paziente di compiere una serie di movimenti oculari (o di essere sottoposto a altri tipi di stimolazione bilaterale) mentre si visualizza mentalmente il trauma. L’uso di questa tecnica è accettato da associazioni di categoria importanti come l’APA (American Psychological Association). Tuttavia è difficile misurarne con rigore gli effetti, e il suo status scientifico, al momento, rimane discusso.

Il dibattito sull’EMDR è una buona occasione per porsi una domanda importante: come si valida una terapia in un campo difficile come quello della psicologia?

Moreno Ignazio Coco , ricercatore presso l’Università La Sapienza di Roma si è occupato della validità dell’EMDR. Coco ha partecipato come relatore al convegno organizzato dal CICAP e dall’Istituto Mario Negri “Gli inganni sul cervello” tenutosi il 20 aprile 2024 a Milano. È in quell’ambito che Lorenzo Montali, vicepresidente CICAP e professore associato di Psicologia sociale presso l’Università Milano-Bicocca, lo ha intervistato sul suo lavoro al riguardo.

 

Moreno Coco, perché ha deciso di occuparsi di movimenti oculari? 

Ho iniziato mentre studiavo per la laurea specialistica: mi interessava, già allora, il legame tra il parlato e la visione. In altri termini, cercare di capire come codifichiamo il mondo attraverso i movimenti oculari, come lo rappresentiamo e come si arriva a pronunciare una frase, oppure, spiegare come ascoltiamo un linguaggio e poi lo mappiamo nel mondo attraverso i movimenti oculari.

Il dottor Moreno Coco

Partendo da lì ho fatto il dottorato con la scuola di informatica dell’Università di Edimburgo. Quello che la mia tesi ha mostrato è che la sequenza dei movimenti oculari su una scena predice quale frase una persona potrà dire. Ho condotto questa ricerca su persone che parlavano inglese, insieme al mio ex supervisore. Nel tempo abbiamo accumulato altri dati su persone di lingue diverse – sul portoghese e giapponese. Il giapponese ci interessava perché si tratta di una lingua che ha un ordine diverso rispetto al soggetto-oggetto-verbo. Volevamo dimostrare se quello che avevamo scoperto aveva una portata generale, e quindi, se potevamo descrivere una grammatica del percetto (cioè di quello che percepiamo) attraverso i movimenti oculari che fosse più universale della grammatica stessa. 

Adesso il mio collega, il professor Frank Keller, dell’Universita’ di Edimburgo, sta per presentare questi dati acquisiti di recente in una conferenza. Dimostriamo che – sì, un giapponese descrive una frase, ad esempio “l’uomo sta bevendo un bicchiere d’acqua” e nel farlo produce dei movimenti oculari che sono simili a quelli di un inglese che dice una frase simile, che a loro volta sono simili a quelli di un portoghese che dice una frase simile. 

Ed eccoci alla questione della tecnica EMDR, che mette al centro i movimenti oculari…

Si tratta di una pratica sviluppata a partire dalla fine degli anni ‘80 dalla psicologa clinica Francine Shapiro. Se si dà credito a un aneddoto, Shapiro era in un parco stava facendo una passeggiata, Muoveva gli occhi per distrarsi da un evento che la stava traumatizzando: in quel modo avrebbe notato che la portata del trauma si sarebbe attenuata. Da allora avrebbe iniziato a sviluppare la tecnica oggi nota com EMDR, impiegata soprattutto per il trattamento dei disturbi post traumatici (PTSD) e dello stress. Durante la fase di recupero dell’informazione amnestica dell’evento traumatico (cioè, rievocandolo), attraverso i movimenti oculari la persona trattata avvertirebbe una perdita di forza dell’informazione stessa, e in questo modo risolverebbe l’evento traumatico. 

Per misurarne l’efficacia, durante la seduta al soggetto vengono poste due domande. La prima è: quanto è vivida l’immagine dell’evento traumatico su una scala da 1 a 7? L’efficacia massima si avrebbe quando il soggetto risponde “uno”, indicando di aver sostanzialmente dimenticato l’evento e di non riuscirne più a recuperare i dettagli visivi.

L’altra domanda verte sulle strategie di coping: fino a che punto il soggetto si è distaccato emotivamente da quell’immagine? Anche in questo caso la scala va da uno a sette, però in senso contrario: dunque, la risposta “sette” indicherebbe un’ottima riuscita della terapia perché il paziente si è distaccato completamente dall’evento. Una sessione dovrebbe finire quando il paziente risponde sette nella seconda scala e uno nella prima. Dopo, si formulano nuovi obiettivi per la sessione successiva e si va avanti nella terapia.

Quindi, il terapeuta chiede al paziente di pensare a un’immagine specifica collegata al suo trauma.

Sì. La memoria visiva è quella che viene utilizzata per evocare il trauma.

E poi, nel paziente vengono indotti questi movimenti oculari. 

Viene indotto un movimento oculare che è una stimolazione bilaterale. All’inizio consisteva semplicemente nel seguire l’indice del terapeuta, poi si è passati all’uso dei computer, con la richiesta di seguire un pallino su uno schermo – un compito ben noto in psicologia sperimentale. Poi è arrivata la stimolazione bilaterale tattile, nella quale il paziente batte regolarmente il tavolo alla destra e alla sinistra con le due mani o gli vengono battuti dei colpetti sulle spalle. Un’altra possibilità è la stimolazione aurale, quella in cui viene emesso un segnale acustico a sinistra e a destra a intervalli regolari per alcuni secondi.

E in questa varietà di procedure il paziente deve sempre spostare gli occhi?

No: lo scopo è quello di tenere a mente l’immagine dell’evento traumatico mentre viene prodotta la stimolazione bilaterale – nel caso più comune, muovere gli occhi. Nel caso della stimolazione tattile, invece, si tratta di battere le mani o di ricevere dei colpetti sulle spalle. Nel caso della stimolazione orale il paziente deve solo sentire un suono. Lo scopo, comunque, è sempre quello di tenere a mente l’evento visivo della memoria traumatica. 

Dunque, il paziente tiene in mente l’immagine, mentre ad esempio sente un suono da una parte e poi dall’altra. Anche quando l’EMDR non riguarda gli occhi, quindi, questa stimolazione è considerata adeguata.

Esatto. Leggendo la letteratura sull’EMDR ci si rende conto che le procedure non sono esattamente standardizzate, sia all’interno della stessa tecnica di stimolazione, sia tra tecniche di stimolazione diverse. Insomma, non è chiaro quanti secondi o quanti minuti, per quante volte e in che modo queste tecniche di stimolazione differiscono l’una dall’altra nell’evocazione del ricordo della scena del trauma.

Sembrerebbe un problema, perché se la procedura varia di volta in volta per durata e tipologia di stimolazione è difficile mettere insieme gli studi per mostrarne l’efficacia. 

Sì. Da un punto di vista del metodo sperimentale si tratta di una notevole difficoltà procedurale. Di solito una procedura scientifica ha un protocollo definito e ben descritto. Nel caso in cui ci siano più protocolli, bisogna comparare i diversi protocolli per verificare l’efficacia relativa. Ora, visto che la procedura porta a una misurazione, se la procedura non è standardizzata, la misurazione sarà diversa. Questo significa che noi non sappiamo se un certo risultato, che sia 0 o 7 della scala, ha in effetti sempre lo stesso valore. E quindi, quando mettiamo insieme diversi studi per capire se nel loro complesso indicano o meno l’efficacia di questa terapia, non sappiamo se in effetti siano di pari valore e qualità.

Nella sua relazione, lei ha raccontato che nel corso della stessa seduta al paziente viene ripetutamente chiesto di valutare qual è l’impatto di quella traccia mnestica. Se ho ben capito, questa richiesta contiene un problema metodologico. 

Certo: se si chiede a una persona di svolgere un certo compito – e, tra l’altro, qui siamo in presenza di un doppio compito che molto probabilmente ha a che fare più con la memoria a breve termine che con l’esperienza del momento traumatico – allora si spinge la persona a “scendere” o a “salire” lungo una scala di valori. Si va a fare una terapia perché ci si vuole sentire meglio: se ci viene data l’occasione di dire che ci stiamo sentendo meglio, che si tratti o meno di un placebo, di fatto veniamo indotti artificialmente a far scendere o salire i valori delle scale. 

Come dire: un paziente, alla terza ripetizione della richiesta, sarà lui stesso o lei stessa a dire: “Beh, da qualche parte devo pur andare”… 

Sì. Se chiedo ogni due secondi: “come stai?”…

 …Ti dò un po’ d’acqua, come stai? E adesso, che te la ridò, come stai? Mettiamola così: da una parte o dall’altra devi andare, e tendenzialmente andrai di più nella direzione del terapeuta… 

Sì. E non dimentichiamolo: una terapia costa. L’intenzionalità di una persona che va in terapia è di avere un beneficio. Se te ne do l’opportunità, allora tenderai a dirmi che le cose vanno meglio. 

Quando il paziente si sottopone a questa terapia, gli viene somministrata solo la terapia EMDR oppure le si affiancano altre terapie per trattare lo stesso problema? 

Nella maggior parte dei casi a noi noti il paziente segue anche un’altra terapia. Di solito la EMDR è affiancata alla Cognitive behavioral therapy (CBT): L’EMDR non è quasi mai, per quello che ho visto io, scorporata da un’altra terapia. 

Quindi si pone un’altra questione. Se si stanno facendo due terapie in contemporanea, come si fa a determinare qual è quella che sta generando (sempre che la generi) la soluzione del problema? 

Infatti, questo è un problema. Manca possibilità di comprendere quale delle terapia che si sta applicando sia quella efficace. In maniera scherzosa, si parla di terapia del cappello viola. A una terapia aggiungiamo qualcosa che la rende più attrattiva, ad esempio un cappello viola; dagli studi non risulta chiaro se è il cappello viola ad aver portato il beneficio, oppure se è la terapia che già si stava seguendo a farlo, a prescindere dalla terapia aggiuntiva.

Ci sono pochi studi con comparazioni di questo tipo, e spesso questi lavori sono inconcludenti. Alcuni dicono che non c’è una differenza tra EMDR ed EMDR con CBT, altri che vedono alcune differenze. Manca una generale concordanza che consenta di sostenere l’esistenza di forti prove di efficacia, anche perché le procedure e le misure prese per dimostrare l’efficacia della terapia sono diverse. È come comparare mele e arance. E c’è anche un altro problema.

Quale?

Quello del lungo termine: se somministro un test per misurare il trauma di un paziente e poi, nella seduta successiva, sottopongo la persona allo stesso test, dunque ponendo le stesse domande, probabilmente si manifesterà un effetto di apprendimento, e la scala che seguirà non sarà credibile. In psicometria c’è un costrutto, per esempio, la depressione; possiamo misurarlo con un questionario “A”, o con un questionario “B”. Se con un paziente io uso la prima volta il questionario A e la volta successiva il questionario B, evito che le sue risposte dipendano dal fatto che ha appreso come rispondere. Se invece,  come avviene nell’EMDR, in diverse sedute io uso lo stesso test, allora è meno sicuro capire se l’eventuale miglioramento registrato dai punteggi dipende dal fatto che il paziente sta meglio, perché potrebbe dipendere anche dal fatto che ha sviluppato un apprendimento. Solo l’uso di questionari diversi potrebbe aiutare a capire se il punteggio scende davvero. Ebbene, questo procedimento, per quanto ho visto io negli articoli scientifici che ho esaminato, non è mai stato utilizzato.

Certo, d’altra parte lei prima ha detto: “Se nella terapia che propongo al mio paziente aggiungo qualcosa in più, come l’EMDR, la rendo più attrattiva”. Ma questa attrattività è tale per il terapeuta,  per il paziente, o per tutti e due? 

Questa è un’ottima domanda. Io credo che lo sia in primo luogo per il terapeuta. Gli dà credito, e infatti al momento c’è una grande diffusione dei corsi sull’EMDR per i terapeuti. Probabilmente però lo è anche per il cliente, che così dice: “ah, vabbè, vado a provare una terapia nuova”… Ma soprattutto questa cosa vale per il terapeuta.

Per avere una freccia in più al suo arco, in qualche modo? 

Esatto.

Altra questione: i gruppi di controllo. Negli studi in cui viene testata l’efficacia dell’EMDR,ci sono  gruppi di controllo oppure no? E se il gruppo di controllo non c’è, quali problemi ci sono?

Spesso i gruppi di controllo non ci sono, oppure i campioni sono piccoli e, come si sa, nei campioni piccoli c’è tanta fluttuazione, e dunque maggior probabilità di avere un errore. Quando si fanno comparazioni tra gruppi, bisogna tener presente che ogni gruppo è formato da diversi individui.

Esistono modelli statistici per tenere sotto controllo la variabilità individuale. Anzi, addirittura si può studiare la variabilità individuale. Ma, nel nostro caso, tutto questo non c’è: questa procedura, per quanto ho visto, non è fatta da nessuno che si occupa di EMDR, 

Problema analogo mi pare esserci anche rispetto alla numerosità del campione degli studi. 

Sì, spesso si parla di 15-20 soggetti. Se si ha bisogno di misurare l’efficacia di una terapia evidence based ci vogliono campioni di centinaia di persone, come minimo. Mi vengono in mente i test di personalità o anche quelli che verificano la depressione o il disturbo post traumatico: sono tarati su campionature di migliaia di soggetti. E poi, devono includere uomini e donne, bisogna stratificarli per età, per estrazione sociale, per livello di educazione, e così via. Solo in quelli è possibile dire che per un gruppo di ventenni una certa terapia ha un’efficacia “X”, per un gruppo di trentenni un’efficacia “Y”, oppure, se c’è un effetto minore o maggiore in base al genere, e così via. Serve un campione ampio, non si può applicare una terapia soltanto sui cinquantenni o sui sessantenni. Deve coprire tutto, per poter essere accreditata come metodo evidence based.

Certo, e d’altra parte alcuni di questi problemi legati alla mancanza di campioni grandi vengono risolti con le metanalisi, cioè mettendo insieme i risultati di tanti studi. Il guaio è che se la procedura con cui viene erogata la terapia cambia, anche le metanalisi diventano problematiche, perché si finisce per mettere insieme dati che arrivano da studi che hanno misurato cose diverse.

Esatto: si fa una metanalisi e tutti quelli considerati sono studi positivi, magari pubblicati sullo stesso giornale, e magari pubblicati con metriche diverse. E magari si prende uno studio  che ha indagato il lobo prefrontale, condotto su quindici soggetti, e lo si paragona con i risultati di uno studio  in cui è stata utilizzata la  risonanza magnetica funzionale su un’area cerebrale specifica: fra di loro non sono comparabili. E poi in questi lavori di metanalisi c’è un altro problema, quello che viene chiamato il i bias di pubblicazione, cioè il fatto che le riviste scientifiche sono interessate a pubblicare gli studi che presentano dati a supporto di una terapia, e sono meno interessate a pubblicare gli studi che mostrano la sua inefficacia

Sì, e il bias di pubblicazione si può addirittura misurare. 

Certo, come del resto si può misurare un fatto rilevante come il conflitto d’interesse degli autori. Se sono un terapeuta e pubblico dei lavori sulla EMDR, devo assolutamente dichiarare il mio potenziale conflitto d’interesse. Il guaio è che soltanto pochissimi fra gli studi sull’EMDR menzionano il fatto che gli autori degli studi sono attivi nella pratica, magari la insegnano, rilasciano certificati o tengono corsi sulla terapia stessa. Insomma, il conflitto d’interessi è davvero dietro l’angolo. 

Il fatto stesso che molti degli studi siano pubblicati su una rivista della società che promuove la tecnica è curioso. Non è già questo, di per sé, un conflitto d’interessi?

Certo, è un’assurdità. Se io per pubblicare un articolo sull’efficacia di una terapia mi rivolgo al giornale che promuove quella terapia, è inevitabile che qualunque cosa che dice che quella terapia funziona sarà pubblicata. Insomma, è un circolo vizioso.

Immagine in evidenza: credit Antonio_Diaz/iStock