11 Aprile 2024
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La grande catastrofe cosmica del 1960 e i suoi strani seguaci

di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo

Cosa accade quando una profezia non si realizza? Nel 1960 un gruppo di persone salì sul Monte Bianco per sfuggire a un secondo, imminente, Diluvio universale. Le loro idee e la loro reazione alla mancata catastrofe possono dirci parecchio sulla psicologia dei gruppi apocalittici.

La dissonanza cognitiva: un caso classico

Quando siamo convinti di una nostra idea e saltano fuori delle informazioni, nuovi dati che vanno contro quello che ci aveva convinti, facciamo di tutto per salvare il quadro che ci eravamo fatti. Insomma, cerchiamo di rimediare, tenendo in piedi un qualcosa che per l’essere umano è molto importante: la coerenza cognitiva. Questo, in due parole, è l’assunto generale della teoria psicologica della dissonanza cognitiva, che fa notare come l’arrivo di informazioni contraddittorie con quanto credevamo può comportare costi mentali che, in qualche caso, possono diventare molto elevati.

Come fare a ridurre questi costi mentali? Cioè, come si fa a ridurre la dissonanza cognitiva? Gli studi su questo argomento presero l’avvio in modo curioso – un modo che per molti versi ricorda la nostra storia.

Nel 1954, lo psicologo sociale americano Leon Festinger e due suoi colleghi si unirono a un gruppo di contattisti UFO di Chicago; la leader di questo movimento, Dorothy Martin (1900-1992), aveva ricevuto dagli esseri del pianeta Clarion l’avvertimento che il 21 dicembre l’Europa e buona parte dell’America settentrionale sarebbero state sommerse da inondazioni mostruose. I membri del gruppo, però, sarebbero stati portati via da un disco volante e “salvati dalle acque”. Quando naturalmente nulla del genere accadde, il movimento si divise in due parti: chi si era impegnato di più nel gruppo diventò ancora più convinto dei contatti interplanetari di Dorothy Martin, che si faceva chiamare “sorella Thedra”; chi, invece, era in posizioni più marginali, se ne andò. Qualche tempo dopo Martin andò in Bolivia e in Perù, dove trovò nuova linfa per il suo sistema di credenze entrando in contatto con George Hunt Williamson, di cui ci eravamo occupati qui. Poi rientrò negli Stati Uniti, si stabilì in Arizona e creò l’Associazione di Sananda e Sanat Kumara (dai nomi di due entità della dottrina teosofica), che continuò le sue attività per decenni. 

Nel 1956, Festinger e colleghi trasformarono le ricerche sul gruppo di Martin in un classico della psicologia sociale, When Prophecy Fails, ancora oggi lettissimo. 

Ebbene, sembra che qualcosa di simile a ciò che accadde ai contattisti di Chicago sia capitato a un piccolo movimento di occultisti italiani che ebbe un momento di fama nei giorni in cui, nell’estate del 1960, aveva annunciato la distruzione quasi totale dell’umanità – ma anche la propria salvezza – per opera di un intervento soprannaturale mediato dall’azione dei dischi volanti.

Questo movimento era guidato da un medico milanese specializzato in pediatria, Elio Bianca, nato nel 1922, che al tempo dei fatti che ci interessano abitava con la sua famiglia di origine nel centro della città lombarda. Quella casa, posta in via Felice Casati, 4, fu quasi di certo il luogo in cui questa storia ebbe inizio. 

La nascita della Comunità del Monte Bianco

Non è chiaro quando Elio Bianca annunciò per la prima volta che la catastrofe era imminente. Una presentazione dei modi in cui il gruppo si era formato e si era strutturato si deve al giornalista Enrico Caprile (1901-1965), che se ne occupò su La Domenica del Corriere il 16 aprile 1957. Già a quel tempo il gruppo sorto a Milano, la Comunità del Massiccio Bianco, aveva assunto notorietà tale da interessare i media nazionali. Dopo aver parlato a lungo delle comunicazioni via radio che il già ricordato contattista George Williamson sosteneva di ricevere dai dischi volanti, Caprile presentava il gruppo del medico milanese.

Per il momento Bianca era menzionato solo con l’iniziale del cognome, ma quello che faceva nella città lombarda era descritto nei dettagli. Per conversare con l’imponderabile, in un primo periodo aveva usato vecchi sistemi come quello del bicchierino con il cartellone oppure la tavola ouija dello spiritismo classico; poi si era inventato un metodo più originale. Impiegava dei dischetti di metallo (rame, oro e platino) disposti a cerchi concentrici, con un foro al centro, che poi poneva sul cartellone con le lettere. In questo modo riceveva i messaggi di angeli e arcangeli. Nel 1954, dopo una prima fase di comunicazioni spiritiche ottenute con quegli strumenti, le entità gli avevano detto che quel sistema era diventato inutile; così, era passato alle comunicazioni mentali. Ogni notte, dunque, alle tre, si metteva in attesa e cominciava a parlare. Riceveva comunicazioni di ogni tipo da entità che lui definiva essenze (fra le altre, quelle di Leopardi e del filosofo cinese Lao Tsé, il presunto autore del Tao Te Ching). 

Intorno a Bianca ben presto si era radunato un gruppo di seguaci. Angeli, arcangeli e cherubini, in un linguaggio dallo stile arcaico, fra continue citazioni di versetti biblici, annunciavano un fatto tremendo e prossimo: la fine del mondo. Bianca per ora non rendeva pubblica la data della distruzione, ma sulle cause si dilungava: le continue esplosioni di bombe nucleari avrebbe fatto perdere il controllo delle bombe atomiche, cosa che avrebbe provocato una deflagrazione mostruosa dalle cui conseguenze sarebbe stato possibile salvarsi solo nel Tibet, oppure in una località ben definita del Monte Bianco. 

Per assicurarsi il futuro occorreva entrare nel gruppo passando attraverso un’iniziazione e partecipare alle riunioni – almeno due a settimana – che potevano protrarsi sino alle cinque o alle sei del mattino. In vista del mondo che sarebbe sorto dai pochi salvati, si riceveva anche un nuovo nome, visto che nella Comunità era previsto anche un battesimo. Fatto ancora più interessante, il nuovo nome era dato in una lingua che Bianca aveva appreso dalle entità: la olosemantica monotematica, la cui comparsa aveva preceduto il sanscrito e che era quella parlata dai primi uomini, vissuti nell’odierna Thailandia dopo la caduta biblica dall’Eden. Grammatica e vocabolario della olosemantica monotematica sarebbero stati resi pubblici a tempo debito, anche perché quella era la lingua che gli scampati alla catastrofe avrebbero parlato nel futuro. 

Il nome iniziatico del leader della Comunità era Emman: a volte vestito durante le adunanze di una tunica azzurra, guidava gli altri membri nello studio dei loro simboli, fra i quali primeggiava un “Emblema universale”. Insieme ascoltavano i nuovi messaggi e li incrociavano con i testi biblici (specie con quelli del libro di Daniele, spiegava il Corriere della Sera del 1° luglio 1960, uno dei testi biblici ricorrenti nelle nuove religioni a sfondo apocalittico). E poi facevano proselitismo. 

La Comunità al culmine del suo splendore

Nell’agosto del 1958, a Milano, la Comunità visse un momento di particolare splendore: accolse un importante esponente del buddhismo theravada, il maestro dello Sri Lanka Piyadassi Maha Thera (1914-1998), che non solo fu ricevuto dal presidente del gruppo, “Divus”, cioè il perito industriale Aldo Buraschi, ma pure da un artista milanese di una certa fama, Franco Sapi (i quotidiani gli attribuivano il nome iniziatico di “Kones”, cosa che ne indica la probabile appartenenza organica alla Comunità). In qualche modo – e ci pare curioso – è possibile che, tramite sue conoscenze, in quegli anni Sapi fosse pure in rapporti con ambienti del nascente “contattismo UFO” italiano.

Nei giorni successivi al suo arrivo Piyadassi fu ospitato al Rifugio Pavillon, un ex-albergo posto nella località omonima, a circa 2100 metri di quota, sul monte Fréty, nel territorio del comune di Courmayeur. Era lì che il gruppo stava già cominciando a prepararsi per la catastrofe, ed è lì che due anni dopo si giungerà al culmine mediatico di questa vicenda. Insieme a quelli della Comunità, a incontrare a Milano il maestro buddhista giunse pure il maggior orientalista italiano di quei tempi, Giuseppe Tucci (1894-1984), buddhista, esoterista, che era stato in rapporti con occultisti tedeschi di area nazista come Karl Haushofer e che fu un curioso esponente della politica culturale e di quella estera del fascismo. 

Intuendo la portata della vicenda, il 13 settembre, sulla terza pagina del Corriere della Sera, lo scrittore napoletano Giuseppe Marotta (1902-1963) ne diede una lettura satirica, facendo commentare a uno dei personaggi dei suoi libri, don Vito Cacace, la predizione catastrofica di Emman – inevitabilmente, in toni antijettatori. Lo scritto di Marotta sul gruppo di Bianca confluirà due anni dopo nel romanzo Gli alunni del tempo, facendo diventare così l’apocalisse imminente uno fra i tanti discorsi dell’umanità dei vicoli e dei bassi della sua città. 

Il 13 agosto 1958, su La Stampa, sotto la firma di Giovanni Giovannini erano intanto giunti maggiori dettagli sui preparativi in corso per il prossimo Diluvio, e su come si era arrivati alla decisione di isolarsi. Tanto per cominciare, lo scoop: per bocca del presidente del gruppo, il “fratello Divus”, il quotidiano torinese rivelava la data precisa della fine, che sarebbe avvenuta il 14 luglio del 1960, a metà giornata. Si apprendeva inoltre che era da due anni che, in maniera riservata, i seguaci di Bianca (in tutto settanta, stando a questa versione) si recavano nella zona di Courmayeur. Dai pochi che li conoscevano, in paese, erano considerate “brave persone, anche se un po’ strane”: avevano affittato i locali per un lungo periodo e sopra ci avevano messo il loro emblema, una bandiera azzurra con cinque punte e la scritta Gehovonise, che in olosemantica monotematica, per vostra conoscenza, significa “a gloria di Dio”.

Le radici in una tragedia

All’origine di tutto, raccontavano finalmente “Wamthar”, la “Referendaria del Detto” nonché madre del dottor Bianca, suo marito Giuseppe, segretario capo presso la Procura della Repubblica di Milano (lei si chiamava Adelaide) e “Divus”, il presidente del gruppo, c’era un’autentica tragedia vissuta dalla famiglia del medico. Era da quella che era iniziato il processo che si sarebbe concluso anni dopo sulle pendici del Monte Bianco.

Giuseppe Bianca e sua moglie Adelaide avevano quattro figli, ma una, Wilma, era deceduta nel 1954 facendo curiose dichiarazioni sul fatto che lei sarebbe morta “per l’umanità” e che, dopo il suo trapasso, sarebbe stata sempre con loro. Poco tempo dopo, i parenti avevano cominciato ad avere esperienze di tipo spiritico: sentivano in casa il profumo sempre usato dalla defunta, ne intravedevano l’immagine e ne sentivano la voce. Dopo l’intervento di alcuni medium, nel mese di aprile 1954 era stato il fratello della defunta, Elio, il pediatra e futuro fratello Emman, a cominciare a ricevere chiarimenti da vari tipi di entità misteriose, prima coi sistemi medianici tradizionali, poi col “dischetto” inventato da Bianca, poi in per via mentale. A lui si era subito associato uno dei seguaci della prima ora: il “fratello Korem” (“Colui che porta la voce di Dio”), al secolo Roberto Diotti, impiegato di banca.

Dopo un certo periodo, e dopo entità che comprendevano Demostene e Gabriele D’Annunzio, e dopo gli angeli e gli arcangeli, giunse la rivelazione finale, quella diretta dal Logos, cioè da Dio, la cui voce fu dunque udita dal dottor Bianca. Wamthar, la madre di Bianca, era stata nominata responsabile dello schedario dei messaggi, che al momento dell’articolo di Giovanni Giovannini comprendeva ormai almeno cento trascrizioni. Dal 1959, in maniera progressiva, gli eletti dovevano abbandonare proprietà e attività lavorative, e prepararsi all’avvento del Regno dello Spirito.

A Torino, invece, già nell’estate del 1958 a dirigere il gruppo locale che aderiva alla Comunità e che contava su una ventina di persone era l’impiegato Gianfranco Regaldo (1929-?). Due volte a settimana a Torino riceveva per posta le istruzioni per prepararsi alla catastrofe, e su come salvarsi. Nella primavera del 1959 La Stampa spiegò che il gruppo di Regaldo si riuniva due volte a settimana in un alloggio di via Madama Cristina per leggere e meditare le istruzioni in vista della catastrofe, quelle che il fratello Emman aveva appena ricevuto tramite le sue “intermediazioni”. L’asse terrestre si sarebbe spostato di 35 o 37 gradi e gli oceani avrebbero travolto tutto, facendo emergere dagli oceani nuove terre. Si sarebbero salvati due gruppi precisi: quello del monte Bianco (7000 persone) e quello del Tibet (5000). Nel resto del mondo, ma sparsi, l’avrebbe scampata però anche un altro nucleo di persone: una dozzina di milioni di individui, i “radioattivizzati” (qualsiasi cosa si volesse intendere con questa espressione). In più, il 1960, l’anno del nuovo diluvio annunciato… non corrispondeva al 1960, ma al 2000: nella riforma del calendario gregoriano, infatti, era stato commesso un errore di calcolo di quarant’anni – almeno secondo le comunicazioni ricevute da Bianca. 

I preparativi 

Nella seconda metà di giugno del 1960 gli aderenti alla Comunità cominciarono sul serio ad affluire al Pavillon in vista della fine. Rapidamente l’attenzione dei giornali assunse tratti ossessivi. 

Il 22 giugno, su Stampa Sera, quelli già presenti a Pavillon raccontarono che il globo si sarebbe inclinato di 45 gradi (non più di 35-37, dunque…) e che a causare la catastrofe sarebbe stata l’esplosione di una non meglio precisata e tremenda “bomba al mercurio”. La Valle d’Aosta, sopra i mille metri, sarebbe stata risparmiata L’inviato del giornale, che si siglava i. v., descriveva i membri del gruppo come “professionisti, impiegati, gente seria” – dunque, individui di ceto sociale medio – che, però, si erano volti alle credenze del fratello Emman, in sostanza un misto di buddhismo e di millenarismo. In apparenza sicuri di sé, a quanto pare stavano vendendo immobili e altri beni, ritenuti ormai inutili. 

Il 1° luglio, sempre da La Stampa, grazie a un primo di una serie di lunghi servizi di Gino Nebiolo (1924-2017) su questa storia, sappiamo che l’ora precisa della catastrofe era stata fissata alle 13.45. I membri del gruppo erano ormai diventati un centinaio, provenienti soprattutto da Torino e Milano, ma con l’apporto di alcuni bolognesi, perugini, romani e con un piccolo nucleo di belgi. Regaldo, il leader torinese (gli era stato assegnato il nome iniziatico di “fratello Polycalos”), chiarì a Nebiolo che il Pavillon era stato scelto a causa di quanto contenuto nel capitolo 4 del libro di Isaia: siccome al versetto 6 è descritta una tenda che proteggerà Israele nelle sciagure imminenti (le espressioni figurate usate da Isaia volevano indicare l’arrivo prossimo degli invasori babilonesi), i seguaci di Bianca avevano deciso che il Pavillon – padiglione, in francese, doveva corrispondere a quanto menzionato dal profeta biblico… 

L’accumulo di acqua, carburanti, stufe, viveri in scatola era impressionate. Alla domanda di Nebiolo sul fatto se fossero certi dell’imminenza della catastrofe, i suoi interlocutori avevano risposto con aria di sfida. A fronte di tanta sicumera, però, nell’edizione del 5 luglio, Nebiolo annunciava anche una prima delusione patita dal gruppo: un grande masso che, a primo monito di quanto aspettava il mondo, sarebbe dovuto rotolare dalla punta del vicino monte Chétif, non si era mosso di un centimetro. Tutti i membri del gruppo, comunque, per un recente ordine di Bianca ora si salutavano fra loro dicendo “Ave!” e allargando le braccia

Intanto, però qualcuno meno certo dell’imminenza della catastrofe si preoccupava delle conseguenze di quelle voci: quello stesso giorno, su La Stampa, una lettera lamentava che una ragazza con patologie psichiche importanti, a sentirle, era ricaduta in una delle sue crisi, mentre lo psicanalista e parapsicologo Emilio Servadio citava Freud e un lutto non elaborato per la perdita di un caro come spiegazioni per quanto stava accadendo. Il Corriere della Sera, nelle sue pagine di cronaca milanese del 6 luglio, era ancora più duro: sosteneva che in alcune case di cura si erano registrate crisi di ricoverati con patologie psichiatriche che avevano appreso la storia dai giornali.

L’ora X si avvicina

Nei giorni successivi, mentre vengono completate provviste e scorte di ogni tipo (con alimenti quasi tutti vegetariani), Bianca lancia un appello: servono ingegneri, chimici, geometri, perché dopo la catastrofe bisognerà ricostruire. A quanto pare, viene arruolato anche un giornalista, al quale il leader affida il compito di “cantore degli eventi del 14 luglio”, ossia, l’incarico di fare per i posteri da “reporter della fine del mondo” – e di essere, presumibilmente, il solo giornalista destinato a entrare nel nuovo Regno dello Spirito. 

Del resto, ormai Emman, con le “teletrasmissioni” ricevute da grandi anime di ogni genere, ha riempito 14.000 cartelle. Due anni prima della catastrofe, il settimanale Oggi aveva persino pubblicato una serie di poesie che gli erano state dettate da D’Annunzio . Nel frattempo, a Milano, il direttore di un rotocalco sporge denuncia alla Procura contro Bianca, chiedendo alle autorità di agire contro il capo della Comunità del Massiccio Bianco per diffusione di notizie false e tendenziose e per turbamento dell’ordine pubblico. Ha anche raccolto, come presunta prova, un grosso incartamento con tutti i numeri di un bollettino ciclostilato, Navigazione, che periodicamente Bianca inviava ai suoi seguaci da più di un anno (Corriere d’Informazione, 15-16 luglio).

Alla stazione di Pré Saint-Didier, invece, si attendono dieci barche, che serviranno ai sopravvissuti per esplorare le acque dopo il Diluvio. Stando ai reportage di Gino Nebiolo, mogli e figli dei membri del gruppo sembrano assai meno presi dal clima di fervore: sono gli uomini ad agitarsi, a pregare insieme, a dare istruzioni, a murare le finestre del rifugio per eliminare ogni rischio, mentre le donne appaiono quasi “rassegnate alle bizzarrie dei mariti”. 

Al rifugio La Palud, sito un po’ più in basso, ci sono i membri della branca di Torino: sembrano meno entusiasti degli altri e, soprattutto, rimangono lì ad aspettare il disastro, malgrado quelli del Pavillon, i “milanesi”, gli ripetano che lì sarà meno sicuro. Fra i torinesi c’è anche il decano della comunità, un ottantenne con la barba bianchissima, che passa il tempo ad arrotolare sigarette per il dopo-diluvio.

Elio Bianca, di spalle, alla vigilia della fine del mondo. (Da “La Domenica del Corriere”, 17/7/1960, cortesia Paolo Fiorino).

Infine, da San Fermo della Battaglia, nel Comasco, le agenzie di stampa rilanciano una notizia tragica: un diciannovenne, a quanto pare sofferente di disturbi psichici, si è tolto la vita per la paura della fine del mondo

Ma in tutta questa concitazione che sembra avere ormai risvolti drammatici, sta per arrivare un ulteriore sviluppo.

La salvezza dai dischi volanti

Finora, tutto induceva a pensare che Elio Bianca e i suoi attendessero che il mondo fosse sconvolto dalle catastrofi pensando di essere al sicuro per la posizione geografica del loro rifugio. Lì, oceani, maremoti e distruzioni non sarebbero arrivati. In più, crollando, due monti vicini avrebbero definitivamente sbarrato la via alle acque, salvando la zona. 

Ecco invece, a soli cinque giorni dalla data fatidica, fare capolino un elemento nuovo, e cioè i dischi volanti, il mito supertecnologico per eccellenza della seconda metà del Ventesimo secolo. 

Nella salvezza degli eletti e nella ricostruzione del nuovo mondo, infatti, secondo le indiscrezioni pubblicate da La Stampa il 9 luglio, avrebbero avuto un ruolo speciale gli esseri che pilotavano i “dischi”, ritenuti segni premonitori della catastrofe. Guidati da esseri ultrafanici – li chiamavano così, utilizzando un vecchio termine in voga nello spiritismo della prima metà del secolo scorso – erano emanazione diretta dell’aldilà. Ne aveva comunicato la venuta lo stesso arcangelo Gabriele.

In questo modo la storia della Comunità del Massiccio Bianco sembra imparentarsi strettamente con quella del gruppo di Dorothy Martin, quello studiato nel 1954 da Festinger e dagli altri sociologi che lavoravano insieme a lui.

“Ci siamo!” (Mica tanto)

Siamo finalmente al pomeriggio della vigilia della fine del mondo, cioè a mercoledì 13 luglio 1960. Stampa Sera pubblica le ultime da Courmayeur. Se l’impressione è fedele alla realtà, l’umore dei membri della Comunità varia fra il teso e il vagamente depresso: in pochi parlano, mentre è evidente nella zona la presenza di uomini delle forze dell’ordine in borghese. Si apprende che fratello Emman inciderà su nastro magnetico gli ultimi messaggi in quelle ore; nella notte saranno fatti ascoltare a tutti gli adepti al gruppo. Da La Palud, invece, la località dove si è radunata la branca torinese, sembra delinearsi un solco ormai più evidente con la branca milanese: siccome l’affitto del rifugio è scaduto e non ci sono soldi sufficienti, il gruppo guidato da Gianfranco Regaldo sembra essere costretto a rientrare nella città della Mole, e dunque – presumibilmente – a perire nella catastrofe preannunciata! 

L’attesa, com’è facile intuire dalla ritrosia dei torinesi, sembra perdere di tensione. Nell’ennesima corrispondenza di Gino Nebiolo, quella comparsa su La Stampa la mattina dell’11 luglio, era arrivato un comunicato del gruppo, redatto dallo stesso leader, in cui, dopo tante attese, già si accennava a un ripiegamento dei vessilli. Si diceva, in sostanza: il giorno 14 l’apocalisse potrebbe anche non esserci, vogliamo soltanto prepararci spiritualmente, meditare e studiare e, soprattutto, essere lasciati in pace. Tre giorni dopo, a poche ore dal momento annunciato come decisivo per il pianeta, è chiaro che ormai un po’ tutti stanno cercando di parare il colpo prima che scocchi l’ora X. A dirla tutta, già sul Corriere della Sera del 9 luglio si accennava al fatto che Bianca aveva cominciato a esitare sulla possibilità che la fine fosse così imminente: “i giornali scrivono tante sciocchezze”, diceva a mezza voce.

Con altri, però, Bianca sembrava più risoluto, e fino alla vigilia si direbbe volesse rassicurare i suoi sul fatto che qualcosa di clamoroso sarebbe comunque accaduto: annunciò infatti un preludio dell’apocalisse per mercoledì 13. In pieno giorno, il cielo avrebbe dovuto diventare buio. Quando non successe nulla, sulla comunità, scriveva Nebiolo, scese “una dignitosa ansia”. Il padre di Bianca, pienamente coinvolto nel gruppo, stando a La Stampa del 14 e anche al Corriere della Sera di quel giorno, diceva che se il giorno dopo non ci fosse stato il cataclisma, avrebbe commesso un atto insano. Preoccupati, da Milano salirono a rassicurarlo due conoscenti, l’avvocato Antonio Fiscella, e un consigliere comunale milanese del Partito monarchico, Michele Maria Tumminelli. Interrogato da Nebiolo, fratello Emman a quel punto ammise che poteva aver interpretato male le comunicazioni del Logos, anche se i suoi calcoli numerologici dicevano davvero che il 14 luglio era la giornata più adatta per la fine del vecchio mondo. 

La cronaca della giornata del 14, quella del mancato crollo del mondo, è quasi banale. Niente scene isteriche, e si direbbe che gli eletti, pur prendendo misure precauzionali, fra bombole di ossigeno e tensione, dessero l’impressione di aspettare più che altro un grosso temporale. Nel pomeriggio, un po’ mogi si chiusero nel Pavillon per cercare di capire com’erano andate le cose.

La vita continua

A quanto pare entro sera, a parte i capi, quasi tutti i membri della comunità se ne andarono alla chetichella dal Pavillon, da La Palud e dagli alberghi in cui si erano raccolti, a volte lasciando recriminazioni tra albergatori e padroni dei luoghi in cui erano ospiti. I primi a involarsi erano stati i “torinesi” concentrati a La Palud, ma non mancava neppure la “fuga” di due coniugi arrivati per conto loro dalla città piemontese: erano lì perché, di notte, il marito aveva sentito qualcuno, forse il Logos in persona, che gli imponeva di raggiungere gli eletti. Se n’era andata pure un’intera famiglia genovese di undici persone e alcune donne olandesi e belghe, in corrispondenza da tempo con Emman e che fino a poche ore prima pendevano dalle sue labbra.

Scriveva con durezza Gino Nebiolo:

La storia della fine del mondo si conclude squallidamente in un clima di smobilitazione, di delusione e di tristezza. 

L’inviato del Corriere d’Informazione, Alberto Macchiavello, nel pomeriggio del 14 scrisse che a giustificazione del mancato disastro Emman aveva letto una poesia appena fattagli pervenire per via medianica da Garcia Lorca, morto ventiquattro anni prima, durante la guerra civile spagnola. Eccone il testo, per vostra conoscenza. Sembra che il trapassato volesse dare una mano fratello Emman a rimandare tutti a casa:

Non si uccidono gli uomini al mattino/ prima di aver veduto almeno un raggio/ almeno uno ancora/ del Sole che il attende. 

Quel mattino, peraltro, Dino Buzzati aveva dedicato un lungo elzeviro sul Corriere della Sera a Emman e alla sua comunità – inutile dirlo, in toni divertiti. Per lo stesso quotidiano, ma nell’edizione del 15, Enzo Grazzini scrisse che Emman aveva persino ringraziato Dio per l’errore. Eppure, solo il giorno prima, ironizzava, il fratello Korem gli aveva indicato un “segno” in cielo: due reattori che, incrociandosi, avevano tracciato una “V”, segno al quale Emman aveva risposto gravemente, ma in modo sibillino, sussurrando: “sta scritto”. Ora, in poche ore, tutto si era quasi completamente dissolto, in apparenza senza drammi eccessivi.

In termini più seri: forse in maniera collettiva e non soltanto per l’azione dei leader, il gruppo cercò in anticipo di ridurre la dissonanza cognitiva derivante dal mancato verificarsi della profezia. La nostra sensazione è che la branca torinese del gruppo fosse restia a imbarcarsi fino in fondo nell’avventura e magari a compromettersi in maniera grave dal punto di vista sociale. D’altro canto, per quel che sappiamo, in quelle settimane la Comunità si mantenne sempre ampiamente permeabile rispetto alla popolazione di Courmayeur, alle autorità locali e soprattutto nei confronti della stampa. In nessun modo si possono dedurre tentativi seri di isolarsi dal resto del mondo, e bisognerebbe anche capire in quanti davvero, prima della data fatidica, vendettero beni e proprietà; Nebiolo sosteneva che lo avevano fatto in parecchi. Comunque le cronache descrivono un gruppo non altamente coeso e che, tutto sommato, era disposto a tornare sui suoi passi – leader incluso. Quasi inevitabilmente il primo numero utile de La Domenica del Corriere dopo la mancata catastrofe, quello del 17 luglio 1960, dedicò la copertina all’episodio, naturalmente attraverso la mano di Walter Molino, allora illustratore popolarissimo, oltre che un lungo articolo ricco di fotografie e firmato da Vincenzo Gibelli, che si divertiva a fare una una cronaca oraria dei giorni precedenti al mancato annichilimento del mondo. 

Comunque, il vero problema di questa vicenda è che non sappiamo bene che cosa ne fu del gruppo. Abbiamo soltanto tracce labili, che si perdono a metà degli anni ‘70. La nostra impressione è che la compagine abbia vissuto un’esistenza assai più modesta e “privata”, dopo lo shock del luglio 1960. Uno dei personaggi di rilievo del piccolo movimento, il torinese Gianfranco Regaldo, tenne corsi di yoga, astrologia e altre materie legate all’occulto diventando uno dei tanti personaggi attivi in quell’ambito nella città piemontese, fino a dar vita a un “Centro studi nettuniano”. Degli altri non sappiamo nulla. È possibile che la nostra documentazione sia carente, ma c’è da supporre che con l’estate del 1960 i momenti migliori della Comunità del Massiccio Bianco fossero trascorsi per sempre.

Immagine in evidenza: il Monte Bianco visto da Courmayeur. Foto di Rémih, rilasciata in licenza CC BY-SA-4.0, via Wikimedia Commons.