9 Ottobre 2024
Approfondimenti

Oggetti misteriosi e inquinamento: il problema dei veicoli spaziali dismessi

Sabato 15 luglio, su una spiaggia dell’Australia occidentale, è stato trovato un oggetto misterioso a forma di cilindro, con un diametro di circa due metri.

Sono immediatamente cominciate le indagini e, qualche giorno dopo, l’agenzia spaziale australiana ha comunicato che si tratta probabilmente del guscio esterno di un motore a propellente solido, ma si è riservata più tempo per determinare da quale lanciatore provenga. Su Linkedin il vicepresidente dell’azienda ThinkOrbital, Sushil Karam, ha ipotizzato che si tratti del lanciatore indiano PSLV (Polar Satellite Launch Vehicle), ma i tempi non sembrano corrispondere, perché l’ultimo lancio di PSLV è avvenuto il 23 aprile scorso. (Aggiornamento del 2 agosto 2023: l’agenzia spaziale australiana ha identificato ufficialmente l’oggetto. Si tratta in effetti di un pezzo di PSLV.)

Quando l’oggetto è stato ritrovato, la polizia australiana è intervenuta immediatamente per impedire ai curiosi di avvicinarsi: una decisione saggia, perché i propellenti spaziali possono essere estremamente tossici.

Non è la prima volta che un pezzo di un veicolo spaziale viene ritrovato sulla spiaggia e suscita interrogativi sulla sua origine: un paio di anni fa abbiamo parlato di un caso simile avvenuto alle Bahamas.

La ragione è che i lanciatori sono progettati per far ricadere in mare i loro primi stadi e lo stesso vale per i satelliti che hanno terminato la loro vita operativa. Il rientro controllato in atmosfera dei satelliti giunti a fine vita è una prassi seguita da tempo, per limitare l’accumulo in orbita di detriti che possono rappresentare una minaccia per altri satelliti in servizio e per future missioni spaziali (ma anche così il numero di detriti sta aumentando a dismisura e richiederà in futuro interventi di “pulizia”). Durante il rientro atmosferico, l’attrito con l’atmosfera surriscalda il satellite e lo frammenta in tanti pezzi che finiscono per bruciare completamente.

Quando il veicolo spaziale è molto grande, come nel caso di una stazione spaziale, l’attrito con l’atmosfera non è sufficiente a bruciarlo del tutto e alcuni pezzi possono arrivare intatti fino a terra: per evitare pericoli per la popolazione le traiettorie del rientro vengono calcolate in modo da avvicinarsi il più possibile al “punto Nemo”, un punto dell’Oceano Pacifico circa a meetà strada tra Cile e Nuova Zelanda, che si trova a circa 2700 km dalla terraferma più vicina. Dal 1971 a oggi Russia, Stati Uniti, Europa e Giappone hanno scaricato nel punto Nemo almeno 263 resti di veicoli spaziali. Questo è anche il destino previsto per le 500 to*nnellate della Stazione Spaziale Internazionale intorno al 2031.

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Nel 1979 gli Stati Uniti tentarono di far precipitare la sfortunata stazione spaziale Skylab nell’Oceano Indiano, ma un errore di calcolo del 4 per cento fece sì che alcuni frammenti colpissero l’Australia occidentale una buona mezz’ora dopo che il NORAD aveva dichiarato che l’impatto era avvenuto nell’oceano. Non ci furono feriti.

Negli ultimi anni sono cresciute le preoccupazioni per l’impatto ambientale del rientro in atmosfera dei veicoli spaziali. Inizialmente questo non era considerato un problema, perché la quantità di massa che brucia in atmosfera è di gran lunga inferiore, per esempio, a quella provocata dai meteoriti (54 tonnellate al giorno). Ma il problema potrebbe essere la composizione chimica, fa notare Aaron Boley, astrofisico della University of British Columbia: a differenza dei meteoriti, i satelliti contengono molto alluminio che bruciando produce allumina (ossido di alluminio). Soprattutto con il lancio previsto per i prossimi anni di megacostellazioni come Starlink, composte da decine di migliaia di satelliti, grandi quantità di allumina potrebbero danneggiare lo strato di ozono o modificare l’albedo della Terra (cioè la frazione di luce solare che viene riflessa nello spazio), con conseguenze difficili da prevedere.

Un’altra preoccupazione riguarda lo scarico nell’oceano dei resti dei veicoli spaziali, in particolare quelli grandi come la Stazione Spaziale Internazionale. Britta Bachler, dirigente di Ocean Plastics Research, sottolinea che si tratta di un uso improprio dell’oceano e che il suo impatto sull’ecosistema marino deve essere studiato accuratamente, a causa dei possibili danni provocati dall’erosione dei metalli e dalle perdite di idrazina e altri propellenti tossici. Inoltre il rientro della ISS solleva questioni di diritto internazionale, dal momento che il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 proibisce di arrecare danno all’ambiente terrestre, mentre la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare richiede di preservare l’ambiente marino.

Con il crescere della sensibilità ambientale, è probabile che in futuro aumenteranno le pressioni per cercare un modo più sostenibile di sbarazzarsi della spazzatura spaziale. Ma siamo sicuri che gli appassionati di “oggetti misteriosi” troveranno altre occasioni per i loro avvistamenti.

Immagine in evidenza: rientro sull’Oceano Pacifico dell’ATV-1 (Automated Transfer Vehicle) dell’Agenzia Spaziale Europea, avvenuto il 29 settembre 2008. Immagine di fonte NASA, rilasciata in libero dominio (licenza CC0 1.0), via Picryl

 

Andrea Ferrero

Ingegnere, lavora presso un’importante azienda aerospaziale italiana. Ha partecipato al progetto di moduli abitati della Stazione Spaziale Internazionale e di satelliti per osservazione terrestre. È coordinatore nazionale del CICAP.