23 Aprile 2024
Misteri vintage

Il maresciallo Tito e il suo sosia russo

Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo

Le leggende sulla “vera identità” di dittatori e di altri potenti sono una caratteristica costante della storia. Il Ventesimo secolo, quello delle dittature nere e rosse e delle due guerre mondiali, ne ha portate con sé moltissime. 

In un’altra puntata di Misteri Vintage, ad esempio, ci siamo occupati di quando Adolf Hitler fu assassinato, nel settembre del 1938, subito prima della fatale conferenza di Monaco sulla spartizione della Cecoslovacchia e di come – secondo questa diceria, che all’epoca ebbe ampia circolazione – fu sostituito nel ruolo di Führer da un attore che si chiamava Maximilian Bauer.

Un’altra storia di questo genere, che affonda le sue radici nelle tragedie dell’Europa balcanica del secolo scorso è quella che riguarda il dittatore comunista della Jugoslavia, Josip Broz Tito (1892-1980), che governò con pugno di ferro la federazione delle sei repubbliche dalla fine della Seconda guerra mondiale sino alla sua morte. Dopo la sua scomparsa, nel giro di meno di un decennio, le tensioni fra le varie nazionalità (fino ad allora tenute sotto controllo) esplosero, dando origine al ciclo delle guerre balcaniche durato dal 1991 al 1999.

In tempi recenti le leggende sulla “vera” identità di Tito sono riapparse sui media internazionali, compresi quelli del nostro Paese – e, comprensibilmente, sulle testate della parte nord-orientale d’Italia. Così, sul Piccolo di Trieste si è tornato a parlare sia di un Tito morto nel 1937 e sostituito da un generale russo, sia delle prove che mostrebbero come il Maresciallo non potesse essere di madre lingua serbo-croata, magari sotto titoli allusivi come la sempre efficace “rivelazione della CIA”

Il documento dell’FBI

La fonte archivistica più interessante sulla leggenda del sosia di Tito resta per ora un documento di dieci pagine risalente al 1955, proveniente dai fondi storici dell’FBI americana e declassificato nel 2003. Possiamo leggerlo e scaricarlo qui

Nell’aprile del 1955, due agenti dell’agenzia federale investigativa degli Stati Uniti intervistarono Marijan John Markul, un uomo nato nel 1909 in Bosnia ma che viveva da molto tempo in America, Paese del quale da pochissimo era diventato cittadino. Markul era proprietario di un bar a Los Angeles, e fu in quella città che l’FBI raccolse le sue dichiarazioni. Markul si era recato negli uffici dell’agenzia affermando di dover fornire notizie di grande interesse per le autorità americane, ma temeva di non esser creduto. La rivelazione, in effetti, era sensazionale. Ecco che cosa raccontò.

In gioventù, quando si trovava ancora in Bosnia, Markul era stato un sindacalista. Arrestato, era finito in Unione Sovietica; ma da lì, rendendosi conto della natura del regime che la governava, era fuggito. Nel 1936 era approdato negli Stati Uniti: aveva fatto l’operaio, poi era riuscito ad acquistare il bar-ristorante che ora gli dava da vivere.

Markul, fra le altre cose, raccontò che nel 1953 era stato cinque settimane in Jugoslavia per far visita alla sua famiglia d’origine, e che in quel periodo aveva avuto contatti con vari dirigenti di quel Paese, fino ad incontrare di persona lo stesso Tito – e per ben due volte.

Secondo lui, il Tito che governava la Jugoslavia non era il vero Josip Broz, ma un russo che ne aveva preso il posto nel 1937, quando Broz era sparito in Unione Sovietica, dove forse era morto.

Quando lo aveva visto di persona, nel ‘53, gli era parso che non si trattasse del Josip Broz nato in Croazia, ma soltanto qualcuno che gli somigliava. Broz mancava di due dita alla mano destra, mentre Tito le aveva tutte. Il Maresciallo appariva persona colta e che sapeva suonare benissimo il pianoforte, il che contrastava con la modesta origine sociale di Broz, ed era assai più basso di quello che a suo avviso era la versione “originale” dell’uomo. Soprattutto, costui avrebbe parlato il serbo-croato con un accento russo e in un tono diverso da quello del Broz che aveva incrociato spesso molti anni prima. Markul spiegò pure che non era il solo a credere che Tito fosse un sosia del dirigente comunista jugoslavo di molti anni prima. Durante il viaggio che aveva fatto, i suoi familiari gli spiegarono che in molti erano convinti che il Maresciallo non fosse quello “originale”. Erano in parecchi, in occasione dei suoi discorsi radiofonici, a notarne l’accento insolito…

A chiunque mastichi un po’ di storia, a questo punto, verrà automatica una domanda: ma se il neo-Tito era un sosia messo lì dalla Russia, che dire della clamorosa rottura fra Mosca e Belgrado del giugno 1948, la prima frattura interna al mondo comunista post-Seconda guerra mondiale? Quella, per Markul, sarebbe stata una messinscena, allo scopo di indurre gli occidentali a credere che la Jugoslavia era sì un Paese comunista, ma ben disposto verso gli Stati Uniti e la NATO, tanto da ottenerne forniture militari, mentre in segreto rimaneva una pedina dei sovietici.

Un amico di Markul che abitava in Francia, certo Živko Topalovich, un anticomunista fuggito dalla Jugoslavia, era convinto che Tito fosse stato impersonato dal generale russo Nikolai G. Lebedev (1901-1992). Oggi sappiamo che una convinzione del genere era grottesca. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale Lebedev fu uno degli orchestratori politico-militari della nascita della Corea del Nord comunista: svolse le sue funzioni a lungo nell’estremo oriente sovietico e nella parte di Corea sotto controllo sovietico-cinese, e andò in pensione nel 1966. Si ritirò a vivere a Mosca, dove fu intervistato molte volte da documentaristi e storici militari. A meno di improbabili doti di bilocazione, non poteva essere lui il leader della Jugoslavia.

A parte questo, l’informativa prodotta dall’FBI ci ha colpito anche dal punto di vista documentale. La logica che si intravede, infatti, è simile a quella che si può rinvenire in altre informative dello stesso periodo (prima metà degli Anni ’50). Agenti di sedi locali delle agenzie statunitensi intervistavano persone, spesso di origine straniera e magari immigrate da poco nel Paese, sugli argomenti più vari e sorprendenti, nell’intento di ricavare un qualsiasi frammento d’informazione potesse risultare utile per accrescere la sicurezza nazionale. Basti pensare alle traduzioni di articoli stranieri su storie mirabolanti di dischi volanti progettati dai nazisti, oppure ai colloqui con pretesi inventori o rivelatori di segreti su armi segrete portentose di quel tipo, o ancora ai documenti su Hitler fuggito in Sud America.

Non c’è nessuna evidenza che queste notizie fossero ritenute d’importanza strategica o di alta attendibilità. Ma, in maniera un po’ ossessiva, chi le raccoglieva pensava fosse importante che non andassero perse. Dal punto di vista della realtà dei fatti erano insignificanti, dal punto di vista della storia delle idee e delle mentalità, oggi, risultano importanti. Alle voci circolanti nella stessa Jugoslavia corrispondeva una scrupolosità poco sana da parte di chi le riportava e classificava negli Stati Uniti (pensando che, forse, un giorno sarebbero risultate utili). Il punto è che erano falsità, dicerie, fraintendimenti; ma inseriti in un contesto analitico come quello dell’intelligence, rischiavano di alimentare dubbi e voci fra gli stessi valutatori delle informazioni. 

Ecco un’altra cosa che vorremmo far notare. Il documento redatto dall’FBI mostra che nel 1953 le voci sulla morte di Tito e sulla sua sostituzione con un russo giravano nella stessa Jugoslavia, probabilmente contrastate senza successo dalle autorità. Secondo alcune fonti, del resto, anche il leader dei cetnici serbi filo-monarchici, Draža Mihailović, nonché avversario mortale di Tito, nell’incontrarlo nel settembre 1941 (mesi dopo l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia) si sarebbe convinto di trovarsi di fronte a un russo (Phyllis Auty, Tito, Ballantine Books, New York, 1970, p. 75).

La nostra ipotesi è che queste voci fossero diffuse pure altrove e, plausibilmente, anche e soprattutto in Italia, magari in modo ancora più intenso nel nord-est. Questo non soltanto per la prossimità geografica, ma soprattutto per la delicatezza delle relazioni fra i due Paesi, almeno nel periodo 1945-1954. Fra l’agosto e il dicembre 1953 Roma e Belgrado furono sull’orlo della guerra per i confini orientali. Un cenno italiano alla leggenda si trova in un volume del 1968 di Enzo Cataldi, La Jugoslavia alle porte (Club degli autori, Firenze, p. 147), ma è evidente che molte dicerie ormai ci sfuggono.

Una linea diversa, invece, è la leggenda vivissima nel paesino di Obra, nella Vallarsa, in Trentino, dove la presenza del cognome Broz dopo la Seconda guerra mondiale ha dato origine a un interessante fenomeno folklorico: il tentativo da parte della popolazione di appropriarsi di una memoria non propria, ossia di documentare una presunta origine locale della famiglia di Tito, che poi sarebbe emigrata in Croazia. In questo caso, però, si tratta di una pretesa di tipo genealogico: quella del luogo modesto e nascosto che però, a ben vedere, avrebbe dato i natali alla genìa di un potente.

Tito parla strano

Il pezzo forte della leggenda della sostituzione di Tito, comunque, è sempre stato il suo accento. Nella congerie linguistica costituita dalla parte più sud-occidentale del mondo slavo, il suo modo di parlare suonava lievemente fuori posto – anche a molti stessi jugoslavi. La frequenza delle allocuzioni radiofoniche chilometriche del dittatore, ascoltate con cura anche all’estero dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non facevano che accentuare i dubbi. 

Il punto è che questi dubbi non avevano presa soltanto fra il pubblico generale o fra gli abitanti delle repubbliche della federazione jugoslava, ma pure fra alcuni analisti occidentali. Queste incertezze proseguirono sino alla vigilia della morte di Tito, il 4 maggio del 1980. L’anno prima la rivista statunitense a circolazione riservata Cryptologic Spectrum, che dal 1969 era prodotta dalla National Security Agency americana, aveva pubblicato un lungo studio morfologico e fonologico sulla parlata di Tito, nel quale si mostravano le presunte incoerenze fra la pronuncia di alcune parole serbo-croate da lui utilizzate (caratterizzate dal fenomeno della palatalizzazione attiva, tipica di lingue come il russo o il polacco) e la sua nazionalità, e anche i piccoli ma ricorrenti errori grammaticali.

Tuttavia, quando nel 2013 l’articolo di Cryptologic Spectrum ebbe vasta circolazione perché, digitalizzato, era stato messo online, la reazione dei linguisti croati fu netta. Quella pubblicata sulla rivista americana era una vecchia e approssimativa valutazione, che ignorava le peculiarità del croato. Errori e questioni di pronuncia erano spiegabili con il fatto che il distretto dal quale arrivava Tito, lo Zagorje, è uno dei principali luoghi di diffusione del caicavo,una delle lingue parlate nell’area croata. L’analisi del professor Željko Jozić, il più eminente fra i linguisti sud-slavi, ha così fatto finalmente giustizia sotto il profilo scientifico della leggenda del “Tito che parlava male” e che, per conseguenza, non poteva essere lui.

Immagine in evidenza: Il maresciallo Tito e Winston Churchill a Napoli nel 1944 (immagine in pubblico dominio – Foto NAM 144 from the collections dell’Imperial War Museums (raccolta n. 4700-72)

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