9 Ottobre 2024
Antologia dell'inconsueto

Antologia dell’inconsueto: Dagli all’untore!

Quando accade qualcosa di drammatico che non riusciamo a spiegare la cosa più semplice da fare è cercare un colpevole: il capro espiatorio, il capretto ucciso per espiare i peccati di tutti. Qualche volta però non è ne un ovino ne un bovino, ma un nostro conspecifico, come sa bene il Signor Malaussène, nato dalla penna di Daniel Pennac, che lo fa addirittura per mestiere. Spesso però una risposta veloce ma sbagliata va a incrementare il disastro generale.

Nel caso delle epidemie il colpevole ha un suo nome particolare: l’untore. Si tratta, se effettivamente esistesse, di una figura piuttosto spregevole, che sparge volontariamente un morbo orrendo (a vostra scelta, visto che di untori ne è piena la storia) per motivi personali o di guadagno. La parola “untore” deriverebbe dal fatto che i “criminali” ungevano i cardini delle porte con unti avvelenati che spargevano il morbo.

Quindi… Dagli all’untore! Anche con l’HIV, negli anni ’80, quando non si era nemmeno sicuri di come si trasmettesse la malattia, abbiamo avuto un sospetto untore: il paziente zero. L’untore è una figura di fantasia che esce direttamente dal profondo delle nostre paure è abbietto, spregevole, non guarda in faccia a nessuno e contro di lui non c’è difesa… Tranne trovarlo e ucciderlo. Inutile dire che qualcuno l’ha trovato… Sì, anche se abbiamo detto che è una figura creata dalla nostra paura.

Per questa pagina della nostra antologia dell’inconsueto abbiamo scelto “Quelli del colera” un racconto di  Giovanni Verga (1840-1922). Un racconto di fantasia, ma che rimane molto realistico. Un esempio di come il “Verismo” in letteratura sappia spesso cogliere l’inconsueto nei suoi risvolti più drammatici in maniera totale e brutale. Nelle campagne siciliane dilaga il colera, la gente si arma, si apposta dietro le porte con lo “schioppo” ma non riesce a fermare l’epidemia: non trovano gli untori. Il sospetto ovviamente cade sull’estraneo, lo stranierio. 

Se guardiamo bene, il colpevole c’è e compare nelle primissime righe: la fontana del paese. La scarsa igiene degli impianti fognari è uno dei principali canali di trasmissione. Gli stranieri non c’entravano nulla, erano povera gente, come i loro assassini.

Il racconto è tratto dalla raccolta di racconti Vagabondaggio (1887) che potete trovare integrale su Wikisource.

Quelli del colera

Il colèra mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe, per tutto il contado; e anche dei ricchi: il parroco di Canzirrò, ch’era scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa, a sole alto, l’aveva pigliato nell’ostia consacrata; a don Pepè, il mercante di bestiame, gliel’avevano dato invece in una presa di tabacco, alla fiera di Muglia, un sensale forestiero — per conchiudere il negozio — diceva lui. Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; bestie e cristiani vi restavano, là! a Rosegabella, venti case, un bel giorno era capitato il merciaiuolo, di quelli che vanno in giro colle scarabattole in spalla, e quanti misero il naso fuori per vedere, tanti ne morirono, fin le galline. Ciascuno badava quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l’uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello, per le fattorie, nei casolari, da per tutto. Quelli di San Martino s’erano anche armati, uomini e donne. Volevano morir piuttosto di una schioppettata, o d’altra morte che manda Dio. Ma il colèra, no! non lo volevano!

Nonostante, lo scomunicato male andavasi avvicinando di giorno in giorno, tale e quale come una creatura col giudizio, che faccia le sue tappe di viaggio, senza badare a guardie e a fucilate. Oggi scoppiava a Catenavecchia, il giorno dopo si sentiva dire che era alla Broma, cinque miglia soltanto da San Martino. Una povera donna gravida di sei mesi, per aver aiutato certa vecchia che l’era caduto l’asino dinanzi alla sua porta, e fingeva di piangere e disperarsi, era stata presa da dolori quasi subito, ed era morta, lei e il bambino: sangue d’innocente che grida vendetta dinanzi a Dio!

La sera, da quelle parti, chi aveva il coraggio di arrischiarsi sino in cima alla salita, vedeva dietro la china che nasconde il paesetto i fuochi e i razzi che sembravano quelli della festa del santo patrono, tutti col capitombolo verso San Martino; e il domani poi si trovavano le macchie d’unto per terra e lungo i muri; qua e là si sussurrava dei rumori strani che si udivano la notte: gatti che miagolavano come in gennaio; tegole smosse quasi tirasse il maestrale; gente che aveva udito bussare all’uscio dopo la mezzanotte, com’è vero Dio; e dei carri che passavano per le stradicciuole più remote, come delle macchine asmatiche che andavano strascinandosi di porta in porta, soffiando e sbuffando, il Signore ce ne scampi e liberi!

Il venerdì, verso mezzogiorno, Agostino, quello delle lettere, era tornato dal rilievo della Posta colla borsa vuota e tutto stravolto. Sua moglie, poveretta, al vederlo con quel viso, si cacciò le mani nei capelli: — Che avete fatto, scellerato? Dove l’avete preso tutto quel male in un momento? — Egli non sapeva dirlo. Laggiù, arrivato al ponte, s’era sentito stanco tutt’a un tratto, e s’era seduto un momento sul parapetto. Prima di lui c’era seduto un viandante, il quale si asciugava il sudore con un fazzoletto turchino. — Don Domenico, il fattore, l’aveva predicato tante e tante volte, di badare sopra tutto a certe facce nuove che andavano intorno, per le vie, e nelle chiese perfino! (Potevate sospettarlo, nella casa di Dio?) Cavavano fuori il fazzoletto, finta di soffiarsi il naso, e lasciavano cadere certe pallottoline invisibili, che chi ci metteva il piede sopra poi, per sua disgrazia, era fatta!

Il giorno stesso, a precipizio, chi aveva qualche cosa da portar via, e un buco dove andare a rintanarsi, in una grotta, fra le macchie dei fichidindia, nelle capannucce delle vigne, era fuggito dal villaggio. Avanti il somarello, con quel po’ di grano o di fave, il cesto delle galline, il maiale dietro, e poi tutta la famiglia, carica di roba. Quelli che erano rimasti, i più poveri, da principio avevano fatto il diavolo, minacciando di sfondar le porte chiuse, e bruciare le case dei fuggiaschi; poscia erano corsi a tirar fuori dal magazzino tutti i santi del paese, come quando si aspetta la pioggia o il bel tempo, l’Addolorata, coi sette pugnali di stagno, san Gregorio Magno, tutto una spuma d’oro, san Rocco miracoloso che mostrava col dito il segno della peste, sul ginocchio. All’ora della benedizione, nel crepuscolo, quelle statue ritte in cima all’altare buio, facevano arricciare i peli ai più induriti peccatori. Si videro delle cose allora da far piangere di tenerezza gli stessi sassi: Vito Sgarra che si divise dalla Sorda, colla quale viveva in peccato mortale da dieci anni; Padre Giuseppe Maria a far la croce sul debito degli inquilini che proprio non potevano pagarlo; Angelo il Ciaramidaro andare alla messa e alla benedizione come un santo, senza che gli sbirri gli dessero noia, e la notte dormire tranquillo nel suo letto, colla disciplina irta di chiodi e insanguinata al capezzale, accanto allo schioppo carico che ne aveva fatte tante. Misteri della Grazia! come diceva il predicatore. Tutta la notte, in fondo alla piazzetta, si vedeva la finestra della chiesa illuminata che vegliava sul villaggio; e di tratto in tratto udivasi martellare la campana, alla quale rispondeva da lontano una schioppettata, poi un’altra, poi un’altra, una fucilata che non finiva più, pazza di terrore, e si propagava per le fattorie, pei casolari, per le ville, per tutta la campagna circostante, dove i cani uggiolavano, sino all’alba.

La domenica mattina, spuntava appena l’alba, si vide una cosa nuova nel Prato della Fiera, appena fuori del villaggio. Era come una casa di legno, su quattro ruote, con certe figuracce brutte dipinte sopra, e lì vicino un vecchio carponi, che andava cogliendo erbe selvatiche. I cani avevano dato l’allarme tutta la notte, e quello del maniscalco, che stava da quelle parti, non s’era dato pace, quasi avesse il giudizio.

— Eccolo lì, povera bestia! gli manca solo la parola! — Il maniscalco raccontava a tutti la stessa cosa, via via che andavasi facendo gente dinanzi alla bottega. La gente guardava il cane, guardava la baracca, e scrollava il capo.

Dirimpetto, sugli scalini della croce in campo alla strada, c’erano altri in crocchio, che guardavano, e parlavano sottovoce fra di loro, col viso scuro. Dal muro del cimitero spuntava lo schioppo di Scaricalasino, malarnese, che accennava a tre o quattro altri suoi compagni della stessa risma, lontan lontano, verso la Broma, e poi verso Catenanuova, con gran gesti neri al sole. Dal ballatoio della gnà Giovanna suo marito chiamava gente anche lui, in fondo alla piazza, agitando le braccia in aria. — Quello! Quello! — gridavasi da un crocchio all’altro. E il vecchio carponi era corso a rintanarsi. Sul finestrino del carrozzone era passata una figura bianca di donna, coi capelli scarmigliati; poi s’erano uditi strilli di ragazzi e pianti soffocati. Dalla strada principale giungevano il farmacista, il Capo Urbano, le guardie, col giglio sul berretto e grossi randelli in mano. La folla dietro, come un torrente, mormorando, uomini torvi, donne col lattante al petto. Da lontano, verso San Rocco, la campana sonava sempre a distesa. Don Ramondo, colle mani e colla voce andava dicendo alla folla: — Largo, largo, signori miei! Lasciatemi vedere di che si tratta. — Poi sgusciarono dentro il baraccone tutti e due, lui e il Capo Urbano; le guardie sbatterono l’uscio sul naso ai più riottosi. Ci fu un po’ di parapiglia, un po’ di schiamazzo, qualche pugno sulla faccia. Infine il farmacista e il Capo Urbano ricomparvero vociando tutti e due che non era nulla, il Capo Urbano sventolando un foglio di carta in aria, don Ramondo sgolandosi a ripetere: — Niente! Niente! Son poveri commedianti che vanno intorno per buscarsi il pane. Poveri diavoli morti di fame. —

La folla nonostante li seguiva mormorando e accavallandosi come un mare. Sulla piazza il Capo Urbano fece anche lui il suo discorsetto: — Via! via! State tranquilli. Sono o non sono il Capo Urbano? — Poi infilò l’uscio della farmacia con don Ramondo. La folla cominciò a diradarsi. Alcuni andarono a casa, a contar la notizia; altri, siccome il sagrestano si slogava sempre a sonare a messa, entrarono in chiesa. Qualcheduno, più ostinato, ritornò verso il Prato della Fiera. Quei poveri diavoli di comici, che si tiravano dietro la loro casa al par della lumaca, passato il temporale, tornarono a metter fuori le corna ad uno ad uno, appunto come fa la lumaca. Il vecchio aveva sciorinato all’uscio un gran cartellone dipinto. La moglie, con un tamburo al collo, chiamava gente; i ragazzi, camuffati da pagliacci, facevano mille buffonerie, e la giovinetta, colle gambe magre nelle maglie color di carne fresca, un fiore di carta nei capelli, il gonnellino più gonfio di una bolla di sapone, le braccia e le spalle nere fuori dal corpetto di seta stinta, soffiava nella tromba, col poco fiato del suo petto scarno. Pure era una novità pel paese, e i giovinastri correvano a vedere, spingendosi col gomito. Inoltre i comici avevano altri richiami per il pubblico: un cardellino che dava i numeri del lotto; il ronzino che contava le ore, e indovinava gli anni degli spettatori colla zampa; un ragazzo che camminava sulle mani, portando in giro, stretto fra i denti, il piattello per raccogliere la buona grazia. Quando si era fatta un po’ di gente, calavano il tendone un’altra volta, e rientravano tutti a rappresentare la commedia coi burattini, la donna col tamburone al collo, gridando sempre dalla piattaforma: — Avanti, signori! Avanti, che comincia! — Si pigliava alla porta quel che si poteva: un baiocco, delle fave, qualche manciata di ceci anche. I ragazzi gratis. Fino alla sera, tardi, ci fu ressa dinanzi alla baracca, sotto il gran lampione rosso che chiamava gente da lontano. Amici e conoscenti si vociavano da un capo all’altro del Prato della Fiera; si scambiavano i frizzi salati e le parolacce come dentro avevano fatto Pulcinella e Colombina. Nessuno pensava più al castigo di Dio che avevano addosso.

Ma la notte — ci volevano più di due ore alla messa dell’alba — Tac tac, vennero a chiamare in fretta lo speziale. — Presto, alzatevi, don Ramondo, chè dai Zanghi hanno bisogno di voi! — Il poveraccio non riusciva a trovare i calzoni al buio, in quella confusione. Zanghi, steso sul letto, freddo, colla barba arruffata, andava acchiappando mosche, colle mani fuori del lenzuolo, le mani nere, gli occhi in fondo a due buchi della testa. Sua moglie seminuda, coi capelli sulle spalle, tutta gonfia e arruffata anche lei come una gallina ammalata, correva per la stanza, cercando di aiutarlo senza saper come, coi figliuoli che le strillavano dietro. — Dottore! dottore! Che c’è? che ve ne pare? — Don Ramondo non diceva nulla: guardava, tastava, versava la medicina nel cucchiaio, colle mani tremanti, la boccetta che urtava ogni momento nel cucchiaio, e faceva trasalire. E il malato pure, colla voce cavernosa, che sembrava venire dal mondo di là, balbettando: — Don Ramondo! Don Ramondo! Che non ci sia più aiuto per me? fatelo per questi innocenti, chè son padre di famiglia! — Poi, come s’irrigidì, colla barba in aria, e i figliuoli si misero ad urlare più forte, aggrappandosi alle coperte di lui che non udiva, don Ramondo prese il suo cappello, e la donna gli corse dietro in sottana com’era, colle mani nei capelli, gridando aiuto per tutto il vicinato. Spuntava l’alba serena nel cielo color di madreperla; alla chiesa, lassù, si udiva sonare la prima messa.

Per le stradicciuole ancora buie si udiva uno sbatter d’usci, un insolito va e vieni, un mormorio crescente. Sull’angolo della piazza, nel caffè di Agostino il portalettere, buon’anima, avevano dimenticato il lume acceso, nella bottega vuota, i bicchieri ancora capovolti nel vassoio, e dinanzi all’uscio c’era un crocchio di gente che discuteva colla faccia accesa. Neli, il maggiore dei figliuoli, sporgeva il capo di tanto in tanto fra le tendine dello scaffale, più pallido del suo berretto da notte, cogli occhi gonfi, per vedere se qualcuno venisse a prendere il rum o l’acquavite. E a tutti coloro che l’interrogavano dall’uscio, senza osare di entrare, rispondeva quasi sempre scrollando il capo: — Così! Sempre la stessa! — Poi si vide uscire dalla parte del vicoletto la ragazzina che andava correndo dal sagrestano per le candele benedette.

Ogni momento giungeva qualcheduno che veniva dalla casa di Zanghi, e aveva visto dall’uscio spalancato il letto in fondo alla camera, col lenzuolo disteso, le candele accese al capezzale e i figliuoli che piangevano. Altri portavano altre brutte notizie. — Il Capo Urbano che stava imballando le materasse; il farmacista che tardava ad aprire la bottega. — La folla cominciava ad ammutinarsi a misura che cresceva. — Cristiani del mondo! Che ci vogliono far morire davvero come bestie nella tana? — Uno, colla faccia stralunata, raccontava come Zanghi avesse acchiappato il male, nella baracca dei commedianti. L’aveva visto lui, coi suoi occhi, il vecchio che lo tirava per la falda del vestito perchè gli pareva che volesse passare a scappellotto. — Anche comare Barbara! che pur non si era mossa di casa! — E quell’infame Capo Urbano che andava dicendo «Non è nulla, non è nulla,» e mostrava la carta bianca! Quella era la carta del Sotto Intendente che ordinava di lasciar spargere il colèra! — Ah! volevano proprio farli morire come bestie nella tana, cristiani di Dio!

Tutt’a un tratto si udirono dietro lo scaffale delle grida: — Mamma! mamma! — e delle grida di dolore disperate. Neli irruppe nella bottega urlando come una bestia feroce, coi pugni sugli occhi. Un parente corse lesto lesto a chiudere gli scaffali, per tutta quella gente che s’affollava nella bottega e nessuno poteva tenerla d’occhio.

Allora la folla, quasi fosse corsa una parola d’ordine, si mosse tutta come una fiumana, gridando e minacciando. Un’anima buona si mise le gambe in spalla, e corse per le scorciatoie dal Capo Urbano, a dirgli che scappasse. Ma il poveraccio, da un bel pezzo, fiutando come si mettevano le cose, aveva infilato l’usciuolo dell’orto, carponi fra le viti, e preso il volo pei campi.

Quelli del baraccone stavano facendo cuocere quattro fave, a ridosso del muricciuolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: — Dàlli! dàlli! — e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. — Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! — Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i figlioletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. — No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! vediamo prima se portano il colèra! — C’erano pure delle anime buone in quella ressa. Ma gli altri non volevano intender ragioni: Neli di comare Barbara che gli sanguinava il cuore dall’angoscia; Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghi stecchito sotto il lenzuolo; massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca fu tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia fradicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più dove frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. — Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colèra? — gridarono alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, nè le grida di morte, nè le falci, nè le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. — Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! — Neppure il colèra li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Ancora, dopo cinquant’anni, Scaricalasino, il quale è diventato un uomo di giudizio, dice a chi vuol dargli retta, che il colèra ci doveva essere, nel baraccone. Peccato che lo bruciarono! Quelli erano ricconi che andavano attorno così travestiti per non dar nell’occhio, e buscavano centinaia d’onze a quel mestiere.

Dove avevano saputo far le cose bene era stato a Miraglia, un paesetto mangiato dal colèra e dalla fame, il giorno in cui s’erano viste certe facce nuove per la via dove da un mese non passava un cane, e la povera gente, senza pane e senza lavoro, aspettava il colèra colle mani in mano. Anche costoro mostravano di essere dei viandanti rifiniti dal lungo viaggio, come una famigliuola di zingari: l’uomo che si dava per calderaio, la moglie che diceva la buona ventura, la figlia, una bella bruna, la quale doveva averne fatte molte, così giovane com’era, e portava attaccato al petto cascante un bambino affamato e macilento. Dei suoi diciotto anni non le erano rimasti che due grandi occhi neri, degli occhi scomunicati che vi mangiavano vivo. Anch’essi si portavano dietro tutta la loro casa in un carretto sconquassato, coperto da una tenda a brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello sfinito. Siccome la popolazione si era commossa al loro apparire, e minacciava, il Capo Urbano accorse anche qui colle guardie, armate sino ai denti, gridando da lontano — Via! via! — come si fa ai lupi. Loro a ripeter la commedia che venivano da lontano, che li avevano scacciati da ogni dove, che erano affamati, e preferivano li uccidessero lì a schioppettate. Allora, per non saper che fare, temendo di accostarsi per paura del colèra, li lasciarono lì, fuori del paese, guardati a vista come bestie pericolose. Nessuno chiuse occhio, quella notte, la vigilia di San Giovanni, che c’era un chiaro di luna come di giorno. Tutt’a un tratto, coloro che stavano a guardia, nascosti dietro il muro, videro lo zingaro che s’era avventurato carponi sino alle prime case, razzolando in un mondezzaio. Colà l’uccisero di una schioppettata, come un cane arrabbiato. Dopo gli trovarono un torsolo di cavolo che ci aveva ancora in pugno, e il petto della camicia tutto gonfio di bucce e frutta marcia. Al rumore, alle grida che si udivano da lontano, tutto il paese fu in piedi subito, e la caccia incominciò. La vecchia fu raggiunta all’argine del fossatello, barcollando sulle gambe stecchite. La giovane dinanzi al carretto, che voleva difendere la sua creatura, come succede anche alle bestie, con certi occhi che facevano paura, e cercava di afferrare le scuri per aria, colle mani insanguinate. Dopo, frugando fra i cenci della carretta, trovarono le pillole del colèra e ogni cosa. Ma quegli occhi più d’uno non potè dimenticarli. E ancora, dopo cinquant’anni, Vito Sgarra, che aveva menato il primo colpo, vede in sogno quelle mani nere e sanguinose che brancicano nel buio.

Però, se erano davvero innocenti, perchè la vecchia, che diceva la buona ventura, non aveva previsto come andava a finire?

Un pensiero su “Antologia dell’inconsueto: Dagli all’untore!

  • Se non ricordo male gli untori contaminavano le maniglie delle porte, che obbligatoriamente si impugnano per aprirle e chiuderle, e non i cardini su cui difficilmente si ha motivo di mettere le mani.

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