Giandujotto scettico

1916: La profezia di Sant’Antonio

Giandujotto scettico n° 23 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (25/10/2018)

Questa piccola tessera è parte di un mosaico di grandissime dimensioni: quello delle leggende di guerra e, in particolare, di quell’universo di dicerie, visioni, allucinazioni, invenzioni, credenze, voci che costellarono l’intero arco della Prima Guerra Mondiale, del quale sta per cadere il centenario della conclusione. Fin dal primo momento, pur non avendo idea che quella tragedia avrebbe cambiato per sempre il corso della storia europea e mondiale, probabilmente molti intuirono che cosa si stava mettendo in moto. Davvero fin dal primo istante – alla lettera – comparvero nelle menti degli uomini del tempo fantasmi di ogni genere.

Avremo modo di raccontarne meglio e più in generale in altra sede. Il Giandujotto scettico si sofferma soltanto su un episodio piemontese avvenuto ad un anno esatto dall’ingresso del nostro Paese nel conflitto.

Era il maggio 1916. L’Italia era scesa in campo da un anno esatto (eravamo entrati in guerra il 24 maggio del ’15) e il Fronte Occidentale si era impantanato in una logorante lotta di trincea. Il generale Cadorna aveva appena bloccato una controffensiva austriaca in Trentino che aveva impegnato mezzo milione di soldati italiani.

Fu allora che a Torino cominciò a diffondersi una voce: la pace sarebbe arrivata di lì a poche settimane. Tutto veniva ricondotto a una misteriosa apparizione che La Stampa avrebbe raccontato così e che Cesare Bermani riportò nel suo volume “Spegni la luce che passa Pippo” (Odradek, Roma,1992):

“un monaco passava dinanzi alle reclute, che facevano gli esercizi militari. “Perché tormentate questi uomini?” disse egli all’istruttore. “Essi non partiranno più, perché la guerra finirà fra due mesi”. L’istruttore, ch’era un sergente, credendo d’essere in presenza di un agente tedesco, avvertì i suoi capi e fece seguire il religioso. Si perquisì il convento, ove il frate era entrato, ma inutilmente. I soldati non riconobbero alcuno dei monaci; ma, ad un tratto, scorgendo un grande quadro appeso alla parete, gridarono tutti: “Ecco il padre che ci ha parlato!” Era il ritratto di Sant’Antonio di Padova, dinanzi al quale gli ufficiali e soldati caddero in ginocchio.”

Noi non siamo riusciti a risalire a questo articolo del quotidiano torinese, ma di certo l’episodio, così narrato, presenta le classiche caratteristiche della leggenda metropolitana, come la presenza di una “rivelazione finale” (elemento che si ritrova, ad esempio, nella storia dell’autostoppista fantasma o in quella del cagnolino messicano). E, nella miglior tradizione del genere, la storia circolava in molte varianti, soprattutto tra i soldati al fronte. Curioso poi anche il fatto che la profezia sia attribuita ad Antonio da Padova, cioè alla figura alla quale, almeno dal 1928 (è di quell’anno la fonte più antica che noi del Giandujotto scettico ha presente per questo dettaglio) saranno intitolate le lettere a catena – le “catene di Sant’Antonio” – stra-jettatorie nei confronti di chi non le avesse fatte circolare, che proprio negli anni della Prima Guerra Mondiale dilagavano anche da noi malgrado la censura postale.

Attilio Frescura (1881-1943), nel suo “Diario di un imboscato” (Galla, Vicenza, 1919), raccontava che l’episodio della comparsa del “frate” si sarebbe verificato a Padova e il santo, più preciso del suo alter ego torinese, avrebbe annunciato la fine della guerra per il 13 giugno:

8 giugno: corre tra i soldati una strana leggenda: qualche giorno fa, a Padova, un ufficiale stava istruendo le reclute e, impazientito da uno dei più “duri”, lo trattava alquanto bruscamente quando passò di lì un frate che lo esortò a non agitarsi soverchiamente. “Tanto è inutile – concluse il frate – perché il 13 giugno vi annunzio la pace – e proseguì. L’ufficiale incuriosito seguì il frate per sapere chi egli fosse; lo vide entrare in una chiesa ed anche egli entrò, deciso di interrogarlo. Ma il frate era sparito. Ne chiese notizia al sagrestano e questi gli rispose – frati non ne ho visti…

– Eppure io l’ho visto entrare, poco prima di me… – Il sagrestano allargò le braccia e poiché l’ufficiale insisteva, gli disse, fra l’indispettito e l’ironico, per levarselo di torno, accennando ad un’immagine di S. Antonio: – a meno che sia quello lì il frate! – L’ufficiale guardò e, allibito, riconobbe nell’immagine sacra quella del frate che gli aveva parlato… Ognuno dice di non credere alla storiella, ma ognuno la racconta. E numera i giorni: il tredici giugno è il giorno di S. Antonio…

Lo spazio sacrale nel quale si scopre esser rientrato il rivelatore della prossima fine della guerra (la chiesa) è ancora un parallelo con molte versioni della leggenda dell’autostoppista fantasma: la morta di solito è riaccompagnata o si dirige “a casa sua”, cioè al cimitero.

Che la storia circolasse sul serio in quel periodo a Torino è peraltro confermato niente di meno che da Antonio Gramsci, che sull’Avanti! del 29 maggio 1916 testimoniava il diffondersi della voce nell’articolo “La Novella di S. Antonio”, parte della sua rubrica “Sotto la Mole”:

Una storia della novellistica in Italia. Quante cose si imparano da questi pesanti libri d’erudizione, irti di note e tutti spinosi di richiami, di nomi, di rimandi. S’impara, per esempio, come nell’alto Medioevo una piccola vita del Budda tradotta in latino diffuse attraverso gli strati popolari la notizia che un nuovo gran santo era nato, e che il tempo dei miracoli era ritornato. E di questi miracoli di S. Giosafat (cosí fu battezzato il perfetto illuminato dell’India) si citavano esempi e si fissavano i luoghi, ingenuamente, finché la dottrina ecclesiastica, posta in allarme, non intervenne, facendo rientrare nel limbo e Budda e il suo martirologio…

Pensate ora se possa fare meraviglia il sapere che a Torino c’è chi crede ed è pronto a giurare sul miracolo nuovo di S. Antonio. Il colle dei Cappuccini, i cui misteri gaudiosi non hanno ancora trovato il loro cronista… è il luogo santo dove nel robusto e spregiudicato Piemonte si è rivelata la voce di dio. S. Antonio è disceso dalla cornice che lo contiene, si è presentato a dei soldati ed ha annunziato loro per il 13 giugno la pace. Lo stesso fatto si legge essere successo a Padova e a Monfalcone.

La macchia d’olio si estende: la stessa forza imponderabile che di bocca in bocca portava nel Medioevo la notizia dei miracoli di S. Giosafat, porta ancora nel tempo nostro, disprezzando il giornale e il telegrafo, la notizia del miracolo del santo di Padova. E dove il terreno è propizio germina il fatto nuovo, si ripete il miracolo e la fede, cosí almeno si dice, se ne rafforza. Ma che aspetta l’autorità ecclesiastica ad intervenire? Il 13 giugno è vicino, e le scadenze a data fissa sono pericolose per i santi come per i banchieri.

Ma il 13 giugno arrivò e la guerra non finì. Come accade spesso in questi casi, la data fu spostata più avanti, e la voce riprese a circolare. Giulio Mele, in “Guerra e folklore” (Pironti, Napoli, 1937), annotava infatti: “Si disse che un giorno comparve dinanzi a una trincea un monaco, Sant’Antonio, che predisse la fine della guerra per l’agosto 1916”.

L’armistizio sarebbe giunto solo il 4 novembre 1918. Vatti a fidar dei santi.

Immagine: il santuario di Sant’Antonio a Padova. Foto di NakNakNak da Pixabay