Interviste

Social network e disinformazione, un rapporto complesso? Intervista a Fabiana Zollo

di Mirco Romanato

La lotta alla diffusione delle fake news sui social netwok è una delle sfide dell’epoca digitale. Al punto che esistono oggi anche commissioni parlamentari che si dedicano al loro contrasto. L’avvento e l’evoluzione dell’intelligenza artificiale ha contribuito a rendere il quadro ancora più complesso. Di ciò ha parlato al CICAP Fest 2024 Fabiana Zollo, professoressa associata di Informatica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove coordina il Laboratorio di Data Science for Society. È anche membro del Comitato Scientifico del The New Institute Centre for Environmental Humanities (NICHE), presso cui è responsabile del Cluster di Ricerca “Science Communication”. La sua ricerca è focalizzata sulla comprensione dei processi di diffusione dell’informazione – inclusa la disinformazione -, le dinamiche sociali, la polarizzazione delle opinioni nei contesti digitali e dei social network. 

Professoressa Zollo, negli studi da lei citati durante la conferenza emerge che è difficile associare i comportamenti delle persone online a quelli che tengono nella vita reale. Questo vale anche per i disinformatori? 

È una questione complessa. Sicuramente possiamo dire che questi gruppi di disinformazione, anche molto radicati, sono numericamente non importanti ma hanno un’attività molto più elevata rispetto ad altri utenti. Potremmo dire che fanno molto rumore e che questo comportamento sembra ingigantire la loro presenza. Sono infatti molto più visibili e molto più attivi nel produrre contenuti e nell’interazione: il fatto che ci siano comunità così attive può facilitare la diffusione di questo tipo di contenuti rispetto ad altri più affidabili. È difficile dire quanto questi gruppi rispecchino la società reale, perché mettono insieme persone provenienti da diverse aree. Bisognerebbe, quindi, prendere in esame e analizzare capire aree geografiche precise per farsi un’idea.

Come possono agire le piattaforme social per limitare la disinformazione? C’è il rischio che, limitando troppo la libertà di pubblicazione, si creino realtà parallele dove questa circola liberamente?

È un problema osservato: la censura di alcuni contenuti può indurre gli utenti ad abbandonare una piattaforma, trovandone un’altra su cui si possa discutere liberamente di quegli stessi argomenti. Da un lato potrebbe essere un danno, perché di quelle comunità poi si perde completamente traccia: nelle piattaforme più popolari è più facile monitorare quello che accade, comprendendo meglio quali bisogni informativi è necessario soddisfare, mentre con le persone che migrano altrove si perderebbe tale visione d’insieme. Il contrasto alla disinformazione non è un tema banale, anche perché si delega spesso a una piattaforma la decisione su cosa sia possibile tenere o rimuovere. 

Cosa si potrebbe fare nel concreto?

Auspico una maggiore sinergia tra le piattaforme e ricercatori, in modo da riuscire a capire quali interventi possano essere più efficaci. Ad esempio, etichettare un certo tipo di contenuti come falsi si è rivelato poco efficace nel tempo. Cercare soluzioni senza avere questo tipo di collaborazione richiederebbe sicuramente più tempo e sarebbe sicuramente meno efficace.

Gli studi su questi fenomeni abbracciano molte discipline. Per migliorare la lettura dei dati è utile mettere insieme esperti di settori diversi? 

Una delle raccomandazioni che abbiamo provato a dare nel nostro lavoro è il confronto tra discipline: negli studi di cui abbiamo parlato al Fest, ad esempio, erano coinvolti data scientists ma anche psicologi. Questo tipo di collaborazioni non solo sono necessarie ma vanno incoraggiate. Per fortuna, ciò spesso sta già accadendo, ma in altri contesti si può sicuramente migliorare.

Ogni tanto si parla di divieto di utilizzo dei social per i minori di 16 o 14 anni. È importante studiare come i giovani percepiscono le informazioni sui social? Si sta lavorando nelle scuole?

Di solito i dati sui social che esaminiamo noi non hanno la componente demografica, perché è complicato verificare l’età di chi scrive sulle piattaforme. Personalmente non me ne sono occupata molto, ma ci sono realtà in cui si cerca di lavorare con le scuole: innanzitutto perché così è facile lavorare su un target demografico preciso, poi perché iniziare con i bambini o i ragazzi giovani dà il vantaggio di fornirgli degli strumenti utili fin da subito. Intercettare altre generazioni, una volta uscite dalla scuola, è molto più complicato. Ovviamente, anche gli adulti devono essere formati sull’utilizzo delle piattaforme social e sui pericoli che nascondono. 

Si tratta, quindi di un problema che trascende le generazioni

Noi spesso parliamo del rapporto dei giovani con i social e con la tecnologia, anche perché viene comodo usarli come capro espiatorio, ma questo problema emerge anche nelle generazioni più mature in cui la cultura tecnologica è piuttosto bassa. Bisogna quindi lavorare in primis dal punto di vista dell’alfabetizzazione digitale: i giovani utilizzano con naturalezza i dispositivi digitali, ma talvolta hanno poca consapevolezza su alcune dinamiche che non hanno particolarmente chiare. Da una parte è quindi importante fornire strumenti utili per capire come funzionano le piattaforme e per sviluppare il senso critico verso i contenuti social, ma dall’altra parte bisogna anche capire come funzioniamo noi, a livello psicologico e come esseri umani, quando ci troviamo davanti a certi meccanismi di disinformazione. Avere consapevolezza di come subiamo queste dinamiche può farci cambiare atteggiamento nei confronti delle nuove tecnologie o, per lo meno, possiamo mantenere invariato il nostro comportamento ma avendo una conoscenza maggiore degli strumenti che usiamo.