I lupi non ululano alla Luna, storie vere e falsi leggendari
Questo articolo è parte del programma di “Stregati dalla Luna”, iniziativa nata dalla collaborazione tra il CICAP e l’Unione Astrofili Italiani (UAI), che mira a raccontare e sfatare le principali fake news e leggende metropolitane riguardanti la Luna e lo spazio, con l’intento di gettare le basi per una corretta informazione scientifica. Tutte le iniziative su www.cicap.org/StregatiDallaLuna
di Luca Giunti
(Luca è guardiaparco presso le aree protette delle Alpi Cozie in provincia di Torino. Naturalista e fotografo, partecipa a progetti Life dell’Unione europea ed è autore di articoli divulgativi e scientifici).
I lupi hanno sempre abitato la nostra penisola. Sono stati costretti ad assentarsi per sessant’anni, un periodo breve nelle dinamiche naturali. La vita non ama i vuoti, li riempie. Lasciato libero spazio al lupo, il lupo si è allargato. E, dove torna, solleva sempre gli stessi problemi: provoca danni e suscita paure. I danni sono concreti e attuali, le paure molto meno. Ma le affrontiamo con pensieri “medioevali”.
Cominciamo dalla storia vera…
Anno ricco di avvenimenti, quel 1970: il Parlamento italiano approva lo Statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio; Gheddafi nazionalizza gli impianti petroliferi e confisca le proprietà degli italiani in Libia; il trattato internazionale di non-proliferazione nucleare entra in vigore; Eric Segal pubblica Love story e Jacques Monod Il caso e la necessità; Pasolini dirige Medea; i primi videoregistratori a cassette entrano in commercio; Eric Zimen e Luigi Boitani cominciano a contare scientificamente gli ultimi lupi che in Italia hanno resistito allo sterminio.
Cinque anni dopo, in un articolo che farà scuola, renderanno noto il loro censimento: 100 lupi, al massimo 110, confinati nelle aree più selvagge e isolate di Abruzzo, Calabria e Basilicata – il cui secondo nome, Lucania, deriva dal nome greco del lupo lykos (d’altronde, la zona confina con la terra colonizzata dagli Irpini guidati da Hirpus, lupo sacro al dio Marte). La ripetizione capillare nel 2020-2021 di quello sforzo pionieristico e lungimirante ha documentato la presenza di circa 3300 lupi distribuiti su tutta la penisola (i dati ufficiali sono liberamente disponibili qui.
Oggi potrebbero ragionevolmente aver superato le 4000 unità, e non rischiano più l’estinzione diretta, ma non c’è da stare tranquilli: il loro patrimonio genetico tipico (Canis lupus italicus) è compromesso dalla potenziale ibridazione con i cani, il cui numero cresce continuamente sia in quelli domestici (oltre 14 milioni anagrafati) sia per quelli completamente rinselvatichiti (circa 800.000, soprattutto in centro e sud Italia).
Quattro fattori spiegano l’espansione dei lupi negli ultimi cinquant’anni. Tre derivano da azioni umane e soltanto uno dallo specifico comportamento dell’animale. La caratteristica più saliente dei lupi è la dispersione. I giovani di un anno lasciano il branco di origine e percorrono decine o centinaia di chilometri per trovare un nuovo territorio tutto loro e un partner con il quale mettere su casa e famiglia. I figli di quel centinaio superstite degli anni ’70 partivano a ogni stagione, ma non trovavano habitat adatti né prede disponibili ed erano attivamente cacciati. Sono morti tutti.
Poi, finita la Seconda guerra mondiale, tutto cambia. Uomini e donne hanno rapidamente abbandonato le montagne, le Terre Alte, le Alpi, gli Appennini e si sono inurbati. Di conseguenza gli alberi – continuamente tagliati per riscaldamento, per produrre attrezzi e travature, per liberare superfici ai pascoli e alle seminagioni – hanno potuto ricostituire boschi vasti e salubri ricreando così gli ambienti ideali dei lupi e delle loro prede. Queste, eliminate alla pari dei loro predatori, sono state costantemente reintrodotte in ogni parte d’Italia. Cervi, caprioli e cinghiali che erano ridotti al lumicino oggi sono centinaia di migliaia e costituiscono il cibo preferito dei lupi (oltre a provocare danni ingenti, incidenti gravi, perfino epidemie). Infine le società umane, che per secoli avevano pianificato lo sterminio dei lupi con ogni mezzo immaginabile, hanno stabilito che dovevano diventare specie protetta per il loro insostituibile ruolo negli equilibri naturali. 3 a 1, palla al centro e lupi ovunque.
Altro che paracadutati dai Verdi, dagli ambientalisti o dai guardiaparco! Le stesse cause – habitat migliorati, prede abbondanti, protezione legale e dispersione naturale – stanno favorendo l’espansione oltr’Alpe, dove si stima la presenza di circa 18.000 lupi, di cui 13.000 negli stati membri dell’Unione Europea (e 300.000 vivono sull’intero pianeta, contrapposti ad almeno mezzo miliardo di cani). In buona sostanza, cibo, casa e sicurezza servono ai lupi come a ogni vivente per sopravvivere e riprodursi.
Osserviamo le conseguenze del ritorno
Ovunque tornino, i lupi causano danni e suscitano paure. I più colpiti sono gli allevatori, vulnerabili su due fronti. In primis, le tecniche di difesa delle greggi – inutili in assenza dei predatori – sono state dimenticate dagli inizi del ‘900. Rimetterle in pratica costa denaro, fatica, tempo e bestemmie. Inoltre, il numero degli animali domestici liberi sui pascoli è aumentato a dismisura, perché i pastori non ricavano la maggior parte dei guadagni dai prodotti del lavoro – lana, carne, latte, formaggio – ma dai contributi comunitari, che, inevitabilmente, incoraggiano la quantità a scapito della qualità.
Per i lupi, una pecora indifesa sarà sempre una cena più facile di un cervo. Allora, è indispensabile mettere in campo ogni possibile metodo di salvaguardia, come reti, dissuasori acustici e luminosi, ricoveri notturni, cani da guardiania, sorveglianza continua. Spesso gli allevatori, ancorché aiutati da contributi pubblici, vedono il lupo come la classica ultima “goccia” che fa traboccare un vaso ricolmo di altri problemi: aumento dei canoni di affitto, invendibilità di lana e carne, fatiscenza dei fabbricati d’alpe (quante roulotte scassate sulle montagne!), diserbanti a bordo strada, siccità e scarsità dei fieni, fulminazioni e cadute, smarrimenti e perfino furti di bestiame. Una pesante lista di criticità appena tollerabili dove i lupi non ci sono, insostenibili dopo il loro ritorno. I lupi diventano allora dei boia imparziali che assestano il colpo di grazia ad aziende già agonizzanti. Abitiamo nazioni cattoliche e cristiane. Nei vangeli, nei salmi, nelle liturgie, la simbologia del pastore, quasi sempre del buon pastore, è continuamente evocata come esempio istruttivo. Allora com’è che fuori dalle chiese tutti ignorano il lavoro dei veri pastori?
Non solo gli allevatori devono cambiare le proprie abitudini. Escursionisti e bikers devono imparare come comportarsi nel caso incontrino i cani da difesa (non provocarli, girare alla larga, trattenere i propri cani, scendere dalla bicicletta). Turisti e cittadini dovrebbero rispettare maggiormente il lavoro degli allevatori e, magari, acquistare a un prezzo più alto il formaggio d’alpeggio perché è prodotto “nonostante il lupo”. Gli amministratori pubblici dovrebbero essere più flessibili e severi nell’erogare i contributi, scoraggiando i furbastri e premiando le aziende propositive. Tutti dovremmo chiederci sinceramente che rapporto vogliamo avere con la Natura e con i selvatici: quello vero e reale, che comporta anche rischi, disagi e fatiche, oppure quello disneyano, comodo, tranquillizzante, ma falso?
Perché non è solo il lupo a entrare in conflitto con le attività umane. Gabbiani che becchettano teste, conigli che colonizzano cimiteri e scavano ossa umane, poi scoiattoli e cormorani invadenti, nutrie e volpi confidenti, istrici pungenti e avvoltoi spaventosi, pappagalli esotici, zecche infette, storni scagazzanti e cinghiali sopra tutti. Fuori Italia si segnalano puma, coccodrilli, ippopotami, elefanti, orsi bianchi, bruni e neri. Per tacere di serpenti e insetti vari, che da soli uccidono 725.000 persone all’anno secondo l’OMS. Nei prossimi decenni le occasioni di interazione aumenteranno sensibilmente: da un lato si ingrosseranno gli abitanti dei centri urbani – che quindi occuperanno ulteriori aree oggi ancora seminaturali – e dall’altro le nuove città saranno più sostenibili, ecologiche, green e quindi diventeranno sempre più attrattive per i selvatici, più di quanto succeda ora per i ben noti fattori facilitanti (cibo facile, temperature più alte, assenza di predatori).
Finiamo con le leggende più o meno false
Come mai il lupo è così incastrato nel nostro immaginario collettivo? Molto più di altre specie alle quali pure attribuiamo profondi significati simbolici, come orsi, leoni, aquile, cervi, serpenti, formiche e compagnia? Perché il lupo è come noi e nessun altro ci assomiglia così tanto. Canis lupus e Homo sapiens sono esseri sociali e familiari, territoriali e dominatori, esploratori e colonizzatori, educatori e discenti. Altri animali hanno una o due di queste caratteristiche, ma solo noi due sulla faccia della terra le possediamo tutte insieme. Per questo da cinquantamila anni ci annusiamo e ci riconosciamo, ci studiamo e ci addomestichiamo reciprocamente, ci amiamo e ci sbraniamo con tanta facilità ed empatia. Per questo il lupo è quotidianamente vivo nella nostra testa, ben più che sui monti e nei boschi. Proverbi, favole, pubblicità, musica e canzoni, film e libri, fumetti ed ex-voto, santi e marinai, automobili e camioncini, abiti e videogames, nodi da barca e da scalata, serramenti e armi, fiori e funghi, persino il pomodoro (Solanum lycopersicum, la “pesca dei lupi”) o un modello di pasta (gli “occhi di lupo”), ci ricordano continuamente il nostro fratello selvatico. Gli assegniamo valori ambivalenti: rappresenta la fedeltà e la lussuria, la crudeltà e l’amorevolezza, la famelicità e l’altruismo. È proprio come noi, contemporaneamente buono e cattivo, mai completamente buono, mai del tutto cattivo. Anzi, nel lupo queste dicotomie si annullano e perdono di senso.
I lupi e la Luna
Se googliamo immagini di lupo, molte avranno come sfondo la Luna piena. Perché la convinzione che i lupi ululino preferibilmente in quelle notti, ogni ventotto notti, è radicatissima. Ma è falsa. I lupi ululano quando gli pare, di giorno, di notte, da soli, in coppia, in gruppo. Ululano per ritrovarsi, per segnalare la presenza ad amici e nemici, per paura, per rabbia, per il piacere di stare insieme. Non a caso, wolf-chorus è uno dei termini inglesi utilizzato in letteratura (l’altro è wolf-howling). A formare questo pregiudizio ci sono anche tante storie di lupi mannari, ma – appunto – sono favole, leggende, miti. Non scienza, etologia o biologia.
I lupi non sono solitari, anzi. Sono animali familiari sperduti senza il sostegno e l’educazione dei genitori. Passano un periodo da adolescenti lontani da papà, mamma e fratelli (una sorta di Erasmus…) ma, se possono e appena possono, se ne creano una loro. Non tutti ci riescono, quasi il 70% dei nuovi nati muore prima della maggiore età oppure non riesce ad accoppiarsi, ma tutti tendono al branco. Eppure, l’espressione “lupo solitario” è frequente nel nostro linguaggio, spesso utilizzata per denunciare un terrorista che agisce da solo.
Usiamo il termine “alfa” per designare gli individui dominanti, il maschio e la femmina riproduttori. Fino a qui, può andar bene. Poi però estrapoliamo da questa rappresentazione l’immagine di una gerarchia maschilista, fallocratica, guerrafondaia, che non solo non appartiene ai lupi ma anzi viene da loro utilizzata in senso diametralmente opposto. La parola gerarchia tra gli umani suscita sentimenti negativi, di sopraffazione, di rivalsa, di rancori e vendette. Negli umani la gerarchia esalta l’aggressività e cerca di disciplinarla – non a caso viene istituzionalizzata negli eserciti, nelle carceri, nei conventi. Nei lupi, al contrario, serve ad abbatterla! Due lupi o due lupe dello stesso nucleo possono certamente litigare e confrontarsi per stabilire una dominanza, ma non appena uno dei due contendenti comprende di essere inferiore, si gira sulla schiena e offre la gola ai canini del rivale. Un gesto suicida davanti al carnivoro con il più forte morso mondiale (in rapporto al peso corporeo e alla lunghezza del cranio, più di leoni, orsi e squali).
L’evoluzione ha però stabilito che quel gesto sia un interruttore on/off precisissimo: immediatamente l’aggressività del dominante scende a zero, i due si leccano e si annusano e poi si rialzano con una scrollata di peli: amici come prima. Non perché i lupi siano più buoni di noi, semplicemente perché devono andare a caccia insieme. E l’efficacia della ricerca e degli agguati e infine degli assalti, dipende dalla collaborazione, la quale a sua volta presuppone che non ci siano acredini o risentimenti nel gruppo dei predatori. Fantasticare una simile regola applicata alle controversie umane aumenta l’ammirazione verso i lupi.
I lupi sono animali di montagna e quando si avvicinano alle città e alle pianure compiono un’invasione innaturale, si sente ripetere negli ultimi anni. Falso e antistorico. Lo dimostrano facilmente i toponimi di ogni comune o provincia italiana, perfino costieri, che conservano frequenti riferimenti alla loro presenza secolare: Morlupo, Lovatella, Lupia, Lovere, Lupompesi, Porcilovo, Cantalupa/o, ecc. Lo testimoniano decine di archivi comunali e registri parrocchiali di città come Mantova, Cremona, Pavia. Vicenza nel Medioevo finanziò l’irrobustimento delle sue mura per impedire l’ingresso ai “lupi divoratori”. In quei secoli, inoltre, complice l’assenza di prede selvatiche, la rabbia silvestre (oggi in Italia eradicata), la presenza diffusa e capillare di piccoli greggi di una decina di pecore guidati da bambini e bambine meno che dodicenni – si pensi al miracolo dell’apparizione della Madonna di Fatima a tre pastorelli di 7, 8 e 10 anni soli nei pascoli – i lupi hanno ucciso e in qualche caso mangiato un certo numero di bambini in Italia e in Europa. Da quegli episodi e da altre nostre paure più o meno giustificate, nasce la favola di Cappuccetto Rosso, i cui significati profondi e inaspettati sono illustrati benissimo da Riccardo Rao nel suo Il tempo da lupi (UTET, 2018). Quella bambina ingenua nel bosco è tanto incastrata nel nostro immaginario collettivo che la pubblicità di un telefonino per anziani può permettersi di rappresentarla schematicamente senza doverla nominare durante tutto lo spot. Rimanendo in tema: i lupi sono tanto impregnati di selvaticità e di simbologia misteriosa, che la pubblicità di un profumo francese il cui nome la richiama, li usa come sfondo alle pose di un tenebroso attore interprete, appunto, di ruoli selvaggi. Tanto basta. Al nostro inconscio non serve altro, nessuna scritta, nessuno slogan, per evocare una rappresentazione efficace.
I lupi erano cento nel 1970 e oggi sono quattromila, quindi il loro numero è raddoppiato oltre cinque volte e fra pochi anni saranno 100.000, si sente ripetere spesso. Falso e ignorante delle dinamiche naturali. Qualsiasi predatore al vertice della piramide alimentare viene limitato dalla disponibilità delle sue prede ai livelli sottostanti. Uno schema classico recita: più conigli = più volpi; più volpi = meno conigli; meno conigli = meno volpi. E così via altalenando. Facile, ma soprattutto per la mente occidentale – abituata a rapporti di causa/effetto basici e a progressioni lineari infinite – ardui da comprendere. In natura non potranno mai esistere più aquile che marmotte, più squali che tonni, più tonni che aringhe, più aringhe che gamberetti. Legge di Lindemann o del 10%, per chi volesse approfondire.
Conclusione: se il lupo è come noi, contemporaneamente buono e cattivo, mai completamente buono, mai del tutto cattivo, allora sentiamo che anche noi possiamo sublimare le insolubili contraddizioni connaturate al nostro essere umani, e gli siamo grati. Dove torna il lupo, nulla è più come prima, né nel mondo reale né in quello leggendario. Meno male.