Dagli dei ai guru: l’evoluzione delle superstizioni e delle pseudoscienze olimpiche
di Nick Tiller, dallo Skeptical Inquirer
Milone di Crotone una volta sconfisse un leone. In un’altra occasione, si legò una corda intorno alla testa e la spezzò usando solo le vene sporgenti delle sue tempie. Si nutriva di sangue di bue e mangiava carne cruda per spaventare i suoi rivali. Nato nel VI secolo a.C. (nessun premio se indovinate dove) e alto quasi sette piedi, Milone era un eroe delle antiche Olimpiadi. La leggenda per cui è più famoso descrive come acquisì la sua rinomata forza: da ragazzo portava ogni giorno sulle spalle un vitello appena nato, che crebbe fino a diventare un toro. Racconto spesso questa storia ai miei studenti di fisiologia, quando spiego il principio dell’allenamento a sovraccarico progressivo. Anche se il tempo ha offuscato il confine tra realtà e folklore, due dettagli su Milone sono indiscutibili: vinse la gara di lotta alle Olimpiadi per sei volte consecutive e comandò l’esercito crotonese nella vittoria sui Sibariti. [1] Come tutti i campioni antichi dei Giochi, Milone fu celebrato e rappresentato in opere d’arte.
Anche la morte di Milone è avvolta dal mito. In una degna conclusione della sua vita leggendaria, Milone si imbatté in un albero che era stato parzialmente diviso da un cuneo. Per dimostrare la sua forza, cercò di spaccare in due il tronco, ma il cuneo cadde e l’albero si ripiegò sulla sua mano. Incapace di sfuggire alla presa dell’albero, Milone fu infine aggredito da un branco di lupi e divorato.
Le antiche Olimpiadi erano intrise di superstizioni sociali e religiose. Infatti, gli atleti come Milone erano obbligati a seguire usanze di origine pagana che a noi appaiono primitive e arbitrarie. I partecipanti lavavano i loro corpi e si purificavano ritualmente per eliminare ogni impurità. Facevano offerte di animali e pietanze agli dei a cui erano dedicati i Giochi e ne visitavano i santuari. E, in una pratica che ha travalicato i secoli, bevevano intrugli di erbe e piante per curare i loro disturbi, favorire il recupero fisico e aumentare la resistenza. Il terzo giorno di ogni Olimpiade, presso un altare ricoperto dalle ceneri di ossa animali, i sacerdoti greci sacrificavano cento buoi a Zeus, re degli dei e sovrano dell’Olimpo.
Il periodo che separa la morte degli antichi giochi ad Olimpia e la loro rinascita ad Atene, oltre 1.500 anni dopo, ha visto una profonda evoluzione delle norme sociali, scandita da due eventi. La prima, ovviamente, fu la Rivoluzione scientifica (intorno al 1543), che portò l’approccio empirico alle masse. Le credenze religiose furono gradualmente sostituite dai fenomeni naturali: i corpi celesti del cielo notturno divennero le stelle e i pianeti, l’ira di Zeus che terrorizzava gli antichi diventò una scarica elettrostatica e si scoprì che gli spiriti maligni che causavano le malattie erano in realtà virus e batteri. Seguì l’Illuminismo (intorno al 1685), che rafforzò i valori della ragione e del secolarismo sostenendo la separazione tra Chiesa e Stato.
Verso la fine del 1800, la scienza aveva il monopolio del discorso pubblico, e questo allentò il controllo della religione sui Giochi olimpici. L’evento moderno iniziò comunque con una grande processione, ma senza che gli atleti e gli allenatori si riversassero in massa nelle chiese e nei santuari. Oggi gli atleti competono ancora per l’onore, ma è quello delle loro nazioni, non degli dei. I partecipanti continuano a farsi il segno della croce e a inginocchiarsi in preghiera prima di gareggiare, ma lo fanno per scelta, non per obbligo verso il comitato organizzatore. Il massacro di animali a fini rituali è disapprovato. In effetti, gli atleti olimpici di oggi beneficiano di tecnologie che gli antichi greci avrebbero etichettato come stregoneria, ma che guidano la nostra incessante ricerca per diventare citius, altius, fortius (il motto olimpico: più veloci, più in alto, più forti). Abbiamo il potere di stabilire quali tipologie di allenamento siano utili e quali no, e lo dobbiamo alla scienza e alla laicità.
Eppure la semplice esistenza della scienza porta al suo inevitabile abuso. L’appropriazione indebita del suo linguaggio è oggi un business redditizio, con guru della salute e venditori di rimedi fraudolenti che occupano il cyberspazio e sfruttano un pericoloso miscuglio di mancanza di senso critico e assenza di regolamentazioni commerciali. La pseudoscienza prospera, estendendo i suoi tentacoli in ogni angolo della società. Dire che lo sport non è stato risparmiato sarebbe un eufemismo; in realtà, ci siamo scrollati di dosso le idee magico-religiose delle antiche Olimpiadi e le abbiamo sostituite con quelle moderne della pseudoscienza.
I Giochi della XXXIII Olimpiade sono ormai alle porte. Come scienziato che fa ricerca nel campo dell’attività fisica ed ex fisiologo presso il British Olympic Center, ho visto la pseudoscienza infiltrarsi nello sport ai massimi livelli e l’ho combattuta con imparziale professionalità. Ma occupandomene da sempre, è diventata una questione personale. Gli atleti e le loro squadre continuano a fondere strategie comprovate con altre non dimostrate e smentite. Quali sono queste strategie? Come convivono affermazioni plausibili e implausibili nello sport? E perché alcuni atleti si affidano ai loro pantaloncini, ciondoli e chincaglierie portafortuna?
Dal plausibile al miseramente implausibile
Non è necessario andare lontano per trovare esempi di pseudoscienza olimpionica. Non è che tutti gli atleti abbiano un debole per le fesserie, ma ce ne sono abbastanza di alto profilo da avvelenare i pozzi. Il nuotatore americano Michael Phelps, probabilmente l’atleta di maggior successo della storia, ha attirato il mio interesse per le pseudoscienze delle Olimpiadi già nel 2016. Mentre il mondo guardava con ammirazione Phelps che a Rio de Janeiro aggiungeva cinque medaglie d’oro al suo palmares, io mi concentravo sui grandi lividi viola sulle sue spalle e sulla sua schiena; sapevo che era la coppettazione ad aver lasciato quei segni. In una seduta tipica di questa antica “medicina cinese”, si crea un’aspirazione sulla pelle utilizzando piccole bocce di vetro unite a un dispositivo di aspirazione o di riscaldamento. I sostenitori della coppettazione sostengono che stimoli il flusso di energia e attiri le tossine dal corpo, ma scienziati come Edzard Ernst affermano che si tratti di una pratica poco studiata e per lo più inefficace (Kim et al. 2011), mentre Steven Novella la chiama direttamente pseudoscienza (Novella 2016). Phelps utilizza da anni la coppettazione nella sua preparazione sportiva.
“L’ho fatto prima delle gare”, ha detto al New York Times nel 2016, “e lo faccio praticamente per ogni gara a cui partecipo”.
Il nuotatore ha recentemente lanciato un suo dispositivo per la coppettazione (Tiller 2023), completando così la sua transizione dal portare su di sé i segni della pseudoscienza al sostenerne la causa.
La coppettazione è una delle numerose medicine complementari e alternative (CAM), tra cui la chiropratica e l’agopuntura, utilizzate nello sport d’élite. In effetti, il 50-80% degli atleti ha utilizzato una qualche forma di CAM (Tiller et al. 2022), con numeri generalmente più alti tra i professionisti che tra i praticanti a livello amatoriale. Inoltre, le CAM sono state prescritte dall’88% dei medici per patologie legate allo sport (Kent et al. 2020).
Altri trattamenti popolari, come la crioterapia total body, non sono CAM di per sé , ma provocano danni considerevoli mescolando affermazioni plausibili e non plausibili. Ad esempio, il maratoneta britannico e pluri-medaglia d’oro alle Olimpiadi Mo Farah ha fatto della crioterapia total body un elemento essenziale del suo programma di recupero, convinto che esposizioni all’aria gelida tra i due e i quattro minuti possano ridurre lo stato di infiammazione. Ha affermato:
“Ti aiuta a recuperare dopo aver svolto allenamenti o gare davvero duri”.
Il sito web ufficiale dei Giochi olimpici considera la crioterapia total body una componente importante del suo kit di strumenti educativi “Atleti e scienze”, e mostra con orgoglio i giovani atleti che si sottopongono a questo trattamento presso l’Istituto Nazionale dello Sport di Parigi. Ma le prove di efficacia della crioterapia non sono straordinarie (Tiller 2021). Nella migliore delle ipotesi, si tratta di una tecnica poco studiata con benefici percepiti sul dolore muscolare; nel peggiore dei casi, è una pseudoscienza costosa e potenzialmente pericolosa che riduce l’uso di modalità di recupero più efficaci.
In generale, alcune pratiche si sono radicate nel mondo sportivo perché le persone confondono la visibilità con l’efficacia, un fenomeno chiamato effetto esposizione. Questa logica circolare descrive la popolarità del K-Tape, il vistoso cerotto multicolore che si vede incollato alle spalle e alle cosce degli atleti. Viene venduto affermando che migliorerebbe il flusso linfatico e diminuirebbe il rischio di lesioni, ma le prove sono assolutamente negative. Ho scritto del K-Tape per Skeptical Inquirer nel 2022, evidenziando una dozzina di review e meta-analisi che concordano sul fatto che non ci sono benefici sul rischio di infortuni; è questo vale per le spalle, la parte inferiore della schiena, il ginocchio e la caviglia (Tiller 2022). Perché, allora, la pratica continua? Ebbene, con un colpo di geniale marketing nel 2008, poco prima delle Olimpiadi di Pechino, più di 50.000 rotoli di questi cerotti sono stati donati ad atleti e squadre sportive in più di cinquanta paesi. I cerotti sono poi stati mostrati in TV durante le trasmissioni sportive quasi fossero delle opere artistiche, incollati alle varie parti del corpo degli atleti di diverse discipline, in particolare atletica leggera e beach volley. E questo ha fornito loro un’esposizione contro cui nessuno studio scientifico poteva rivaleggiare. Il K-Tape è ora uno dei principali sponsor dello USA Track Team, della National Basketball Athletic Trainers’ Association e della Women’s Football Alliance, tra gli altri. È difficile trovare dispositivi con un rapporto popolarità/evidenza così discrepante, ma quando si parla di pseudoscienza nello sport, il valore della popolarità supera quello della scienza.
Pseudoscienze a parte, le Olimpiadi moderne hanno mantenuto le sfumature di superstizione e irrazionalità tipiche dei Giochi antichi. Kayla Harrison, medaglia judo diventata lottatrice professionista di cage fighting, ha dei calzini fortunati che indossa in ogni gara:
“Sono un tipo da schemi e rituali… e quando mi sento a mio agio [e] sicura… vinco.”
Prima di ogni evento, il pattinatore ungherese Shaolin Sandor Liu si tocca il sopracciglio destro, poi il sinistro, e fa l’occhiolino alla telecamera perché crede che gli porti fortuna. E la nuotatrice americana Stephanie Rice crede nella numerologia; prima di ogni gara, fa oscillare le braccia otto volte, si spruzza l’acqua sul corpo quattro volte e si preme gli occhiali sul viso altre quattro volte.
“Una volta che diventano un’abitudine, le superstizioni si autoalimentano”, ha scritto Stuart Vyse. “In quelle situazioni in cui manca il controllo, le superstizioni forniscono un beneficio psicologico sufficiente da indurre le persone a indossare cravatte portafortuna o a eseguire rituali pre-partita”. (Vyse 2023)
Ciò significa che, sebbene superstizioni e rituali non funzionino in senso letterale (influenzando la velocità di una corsa, l’altezza di un salto o il volo di un giavellotto), possono avere comunque un’utilità indiretta, dal momento che conferiscono una parvenza di controllo. E allora, questo non potrebbe fornire agli atleti un vantaggio in termini di prestazioni sportive? Uno studio del 2010 dell’Università di Colonia, in Germania, ha messo alla prova la questione. Ventotto studenti, la maggior parte dei quali credeva nella buona sorte, sono stati invitati in un laboratorio per eseguire un’attività di putting nel golf: dieci putt da 100 cm in una buca fissa. Metà del gruppo ha eseguito il compito normalmente, senza alcuno stimolo preliminare. Al contrario, il fattore superstizione era stato “attivato” per l’altra metà dei partecipanti; quando gli veniva data la pallina da golf, il ricercatore diceva infatti:
“Ecco la tua pallina. Finora si è rivelata una pallina fortunata”.
Come probabilmente avrete intuito, i soggetti che utilizzavano la pallina “fortunata” avevano ottenuto risultati significativamente migliori, mettendo a segno in media 6,4 putt contro 4,8 del gruppo di controllo. Sebbene gli sforzi per ripetere lo studio abbiano prodotto risultati contrastanti, è stata una delle prime ricerche a suggerire un beneficio della superstizione sull’esecuzione di prove di abilità.
Lo sport di alto livello è, quindi, un mondo in cui scienza, pseudoscienza e superstizione sono interconnesse. Gli atleti olimpici sono suscettibili agli effetti immaginari, e le prove di questo sono ovunque. Allora, cosa c’è nel mondo dello sport moderno che spinge gli atleti a sospendere il loro scetticismo in favore di rituali, pensieri miracolistici e affermazioni commerciali infondate?
Vincere a tutti i costi?
Il mio ufficio all’Olympic Center aveva una finestrella che dava sul laboratorio adiacente di fisiologia dell’esercizio fisico. Più volte alla settimana, un vogatore infortunato della squadra nazionale di canottaggio andava lì per utilizzare una cyclette e affrontare “The Big 30“, un test ciclistico di trenta minuti progettato per mantenere gli atleti motivati mentre si trovavano lontani dalle competizioni ufficiali per la riabilitazione. Maggiore era la potenza media durante la prova, più alto sarebbe stato il loro piazzamento in classifica. Era una sfida estenuante che i vogatori prendevano molto sul serio.
Un martedì pomeriggio sentii dei grugniti e dei lamenti che echeggiavano in tutto il laboratorio. Allungai il collo, guardai attraverso il finestrino e vidi una donna grande e muscolosa che pedalava furiosamente. Una bottiglia mezza vuota di una bevanda sportiva era stata gettata sul pavimento e il grande orologio digitale sul muro segnava “25 minuti e 30 secondi”. Il suo viso era distorto in una smorfia. Era ovvio che soffriva immensamente e lottava per mantenersi costante negli ultimi minuti del test. Era sola; nessun allenatore che dava istruzioni, nessuno spettatore o collega a tifare. Poi, senza preavviso, vomitò. Bevanda sportiva e acidi gastrici le finirono su gambe e pedali, per accumularsi sul pavimento. Corsi al laboratorio e spalancai la porta per offrirle assistenza medica. Stava ancora pedalando. Le sue gambe picchiavano sui pedali come pistoni idraulici. Sobbalzò una seconda volta, ma il display digitale della potenza vacillò appena. Quando i trenta minuti furono trascorsi, evitai le chiazze di vomito e la afferrai proprio mentre cadeva dalla sella come un albero abbattuto.
Gli atleti di alto livello hanno un’immensa determinazione, una testardaggine unica e si rifiutano di arrendersi anche quando hanno problemi alle gambe. A differenza degli sport amatoriali, gli atleti non sono semplicemente interessati a partecipare; vincere è tutto ciò che conta. È una disposizione d’animo che si diffonde dall’alto verso il basso, dal performance director agli allenatori e infine agli atleti.
Questa ossessione per la vittoria si è evoluta per necessità, perché il successo e il fallimento nelle gare sono separati da un margine sempre più ridotto. Ad esempio, la finale femminile dei 100 metri a Barcellona nel 1992 vide cinque atlete tagliare il traguardo in un decimo di secondo (un replay al rallentatore alla fine assegnò la medaglia d’oro alla statunitense Gail Devers). E nella finale di Pentathlon a Montreal, nel 1976, otto atleti erano in lizza per la medaglia d’oro; 200 metri e venticinque secondi dopo, Siegrun Siegl della Germania dell’Est aveva scavalcato sei atleti passando dal settimo al primo posto. Nello sport la vittoria può venir strappata grazie a un colpo di scena.
E non solo la vittoria, ma anche il premio in denaro. Gli atleti che tornano negli Stati Uniti con medaglie d’oro al collo ricevono tra i 15.000 e i 37.500 dollari, a seconda dello sport. Non si va molto lontani da lì. Ai vincitori italiani vengono assegnati fino a 180.000 euro (lordi), ma anche questa piccola fortuna diminuisce rapidamente una volta saldate le spese di soggiorno, di allenamento e di coaching. Inoltre, c’è solo un premio sportivo ogni quattro anni. Porta una medaglia d’oro nel Regno Unito e riceverai una vigorosa stretta di mano dal primo ministro – se sei fortunato. Quindi, la vittoria e la stabilità finanziaria degli atleti olimpici moderni sono beni rari, fragili e molto ricercati.
In questo ecosistema ipercompetitivo, ad alta pressione più di qualsiasi altra vocazione sulla Terra, perseguire ogni vantaggio prestazionale, non importa quanto piccolo, è naturale. Questa è la filosofia dei guadagni marginali (Slater 2012), e rende gli atleti e i loro allenatori sempre più rivolti alla sperimentazione. Tutti i trattamenti, siano essi naturali o soprannaturali, basati sull’evidenza o meno, vengono gettati nel calderone delle possibilità, giustificati dall’idea che ogni punto percentuale conta. Qualsiasi effetto, anche immaginario, potrebbe far la differenza tra oro e argento: quel vitale decimo di secondo. E con norme così permissive in materia di salute e benessere, gli atleti sono liberi di provare tutti i prodotti e le tecniche che desiderano.
Questo non vuol dire che la pseudoscienza e la superstizione prevalgano necessariamente. Ci sono molti atleti e squadre che tengono in grande considerazione la scienza e confidano nel fatto che il personale di supporto fornisca consigli pratici e basati sull’evidenza. Gli atleti di alto livello si basano moltissimo sui dati, sono ossessionati dalla potenza erogata, dalla frequenza della corsa, dalla lunghezza del passo e da tutti i parametri che possiamo registrare con le tecnologie moderne. Ma la maggior parte degli atleti olimpici sono sottopagati e alla disperata ricerca di risultati, reali o immaginari; queste sono proprio le condizioni in cui prospera la pseudoscienza. In un mondo in cui gli atleti cercano disperatamente una parvenza di sicurezza, la pseudoscienza offre qualcosa che la scienza non può offrire. Come scrisse Isaac Asimov nella sua Guida alla scienza del 1972:
“Esamina ogni pseudoscienza e ci troverai una coperta di Linus”.
Il prezzo del placebo
Scienziati e medici sono pezzi integranti di qualsiasi puzzle sulle prestazioni sportive. Lavorano a fianco di atleti e allenatori, spesso a tempo pieno, fornendo consulenze sull’allenamento, l’alimentazione e la gestione degli infortuni. Eppure sbagliano regolarmente di fronte ai rimedi truffaldini e alla pseudoscienza. Perché?
Perché i placebo funzionano. Aspettative e convinzioni sono potenti palliativi, utilizzati dagli allenatori per dare ai propri atleti un vantaggio psicologico (Trojian e Beedie 2008). Gli effetti dei placebo non possono essere sottovalutati negli sport olimpici.
“Per qualcuno come [Michael] Phelps che si trova proprio all’estremo superiore della curva a campana”, dice il nostro amico Timothy Caulfield, “quel leggero effetto che potresti ottenere da qualche terapia, che sia placebo o no, può essere importante e avere un impatto significativo sui risultati”.
Ho diversi resoconti di prima mano di allenatori che ricercano attivamente il vantaggio psicologico attraverso i placebo. Una volta il capo di una squadra nazionale mi ha chiesto di stabilire un programma di allenamento in quota di dodici settimane per gli atleti, sotto la mia supervisione. I membri del team si sarebbero allenati due volte alla settimana nella nostra camera ambientale – una grande stanza in cui il contenuto di ossigeno era stato ridotto al 16% – con l’idea che questo avrebbe stimolato la produzione di globuli rossi e migliorato la resistenza. Ero titubante. Non solo si trattava di un notevole dispendio di risorse, ma non avevamo idea se la strategia avrebbe fatto aumentare o diminuire le prestazioni, e non ero disposto ad assumermi la responsabilità di una cosa senza garanzie di risultato. Ho proposto quello che ritenevo un compromesso ragionevole: uno studio controllato. Metà della squadra avrebbe utilizzato la camera, l’altra metà si sarebbe allenata normalmente, e avremmo misurato i biomarcatori del sangue prima e dopo l’allenamento per valutarne i benefici.
“Non credo”, disse l’allenatore scuotendo la testa, “voglio tutti nella camera. Anche se pensano solo che funzioni, è abbastanza”.
Quindi, questo è ciò che abbiamo fatto.
Nello sport d’élite, gli atleti sono soldati, ma gli allenatori sono i generali, decidono gli allenamenti e la strategia per arrivare alla vittoria. Quando un allenatore decide di preservare lo status quo e di utilizzare un placebo come aiuto psicologico, scienziati e medici devono acconsentire. Coloro che lavorano nel mondo dello sport a tempo pieno, come me, non hanno il potere di sfidare le norme stabilite, perché questo significherebbe tirare tutti i fili che tengono la struttura insieme. Nessuno vuole rischiare di destabilizzare il sistema, quando ci sono in gioco medaglie e premi in denaro; e chi può biasimarli? Di conseguenza, si lasciano in atto i placebo, e pure le terapie alternative non dimostrate. Dopotutto, che male fanno?
Che male fanno?
Ma c’è un pericoloso lato negativo in questa accondiscendenza. Queste “terapie” non sono esenti da rischi: la coppettazione può causare ustioni e infezioni (Jing-Chun et al. 2014), l’agopuntura può provocare lesioni ai tessuti molli e persino pneumotorace (polmone perforato) se gli aghi vengono posizionati in modo errato (Ernst 2010), e la chiropratica può provocare la dissezione dell’arteria vertebrale e ictus (Jones et al. 2015). E mentre tutte le procedure mediche comportano rischi – soppesati dai medici nelle valutazioni rischio-beneficio – gli effetti positivi delle terapie alternative sono immaginari. Ciò rende i rischi molto più difficili da giustificare.
È anche impossibile limitare i cosiddetti prodotti placebo allo sport, alla salute e al fitness. Se qualcuno crede nel potere curativo di un placebo, è solo questione di tempo prima che lo utilizzi per trattare qualcosa che necessita invece di un intervento basato sulle evidenze scientifiche. La coppettazione è stata utilizzata da Phelps per trattare i suoi dolori muscolari, ma la British Cupping Society la propone come rimedio per l’asma e persino per l’infertilità. La crioterapia viene utilizzata all’Olympic Institute per “accelerare il recupero”, ma c’è chi sostiene che possa curare malattie come l’artrite e la sclerosi multipla. I placebo sportivi inevitabilmente si insinuano nella società, influenzando perfino le pratiche cliniche. Database come whatstheharm.net hanno documentato quasi 400.000 decessi e circa 3 miliardi di dollari di danni economici dovuti all’uso inappropriato e negligente di terapie alternative non regolamentate.
Ciò non dice nulla sull’effetto che la pubblicità di prodotti inefficaci da parte degli atleti ha sulla salute della popolazione. Secondo l’associazione dei consumatori CivicScience, i prodotti consigliati dagli influencer del fitness, inclusi gli atleti di alto profilo, hanno maggiori probabilità di vendere rispetto ai prodotti approvati da celebrità “comuni” che non sono sui social media. Il giorno dopo che Phelps ha messo la coppettazione sotto i riflettori, le visualizzazioni delle pagine di Wikipedia sulla “coppettazione” hanno raggiunto il massimo storico, arrivando a oltre 100.000. Questo dimostra che gli atleti sono l’avanguardia delle mode che si diffonderanno tra la popolazione, almeno per quanto riguarda i prodotti per la salute e il benessere. Il pubblico che cerca una migliore salute cardiometabolica si rivolge quindi agli integratori antiossidanti e alle diete cheto; le persone con lesioni si affidano alla coppettazione e all’agopuntura; chi cerca di perdere peso ricorre a diete alla moda e integratori alimentari inefficaci. È già abbastanza difficile convincere le persone a prendersi cura della propria salute e del proprio benessere senza vederle fallire nei loro tentativi perché hanno sprecato tempo e risorse in soluzioni inconsistenti e potenzialmente dannose.
Un cambiamento nella comunicazione scientifica
La pseudoscienza che si intreccia negli sport olimpici ha fili che sono difficili da districare, ma dobbiamo continuare a farlo. Saremmo messi molto meglio per limitare i danni e la diffusione della pseudoscienza se potessimo affrontare tre problemi:
- [1] gli atleti e gli allenatori spesso preferiscono le opinioni dei colleghi a quelle degli esperti scientifici (Fullagar et al. 2015 );
- [2] non si comprende in che modo i placebo e le CAM nello sport possano influenzare la popolazione più ampia;
- [3] il pubblico generale ha una scarsa conoscenza delle linee guida sull’attività fisica e sulla nutrizione (Vaara et al. 2019; ASN Staff 2022), tanto da essere molto suscettibile alle affermazioni infondate e alle pseudoscienze su questo argomento.
Non esiste una panacea universale, ma una migliore comunicazione scientifica (sci-comm) potrebbe essere la proverbiale fava che ci aiuta a prendere tutti e tre i piccioni.
Non c’è dubbio che la scienza sia difficile da divulgare; il percorso delle nuove scoperte, dai laboratori alle persone comuni, è ricco di ostacoli. Ci sono stati progressi su questo fronte, ma il giornalismo scientifico è ancora intriso di pregiudizi e conflitti di interesse (Hone e Hone 2014). Parte della colpa è anche dei miei colleghi scienziati.
La ricerca sulla “scienza dello sport” è esplosa a un ritmo senza precedenti, con più studi pubblicati negli ultimi dieci anni che negli ultimi cinquanta. Ma a questo crescente insieme di dati non è corrisposto un aumento degli sforzi da parte degli scienziati per comunicare le loro scoperte al pubblico. Pubblichiamo su riviste accademiche che imprigionano i nostri articoli dietro ai paywall, scriviamo usando prose indigeste e incomprensibili e comunichiamo con gli altri scienziati nei nostri antri per iniziati. Gli scienziati non sono ben disposti a interagire con il pubblico perché c’è l’idea che chi lo fa è, per qualche motivo, un accademico peggiore, un fenomeno che porta il nome di effetto Sagan (Martinez-Conde 2016).
Il conseguente vuoto che si è creato è stato riempito con gratitudine da influencer del fitness, guru del benessere e media mainstream, nessuno dei quali ha a cuore le sfumature della scienza o fa gli interessi del proprio pubblico. Secondo l’American Council on Science and Health, il giornalismo scientifico è messo male:
“Se il giornalismo nel suo insieme è cattivo (e lo è), il giornalismo scientifico è anche peggio. Non solo è affetto dagli stessi pregiudizi che affliggono il giornalismo comune, ma è particolarmente vulnerabile al più becero sensazionalismo” (Science Journalism Can Be Evidence-Based, 2017).
Il mio avvertimento agli scienziati è questo: se non raccontate voi la vostra storia, qualcun altro lo farà per voi, e potrebbe non piacervi il modo in cui lo fa. [2] E dunque, dobbiamo rimboccarci le maniche e condurre le nuove scoperte della ricerca al di là del confine.
Per quanto mi riguarda, sono stato in grado di farlo in minima parte in qualità di redattore dell’International Journal of Sports Nutrition and Activity Metabolism. Recentemente abbiamo lanciato un’iniziativa chiamata Non-Technical Summary: un semplice accorgimento che consiste nel richiedere che tutti i contributi inviati alla rivista siano accompagnati da un riassunto di 1.000 parole scritto in un linguaggio chiaro e non tecnico. Questo riassunto è progettato per rendere le nuove ricerche accessibili anche al pubblico dei “non esperti”: gruppi di atleti e allenatori, appassionati di scienza, giornalisti, divulgatori e scienziati di altre discipline. Per quanto ne so, è la prima iniziativa di questo genere nel nostro settore, e spero possa ispirare progetti simili al nostro anche su altre riviste. Per altro, anche se si tratta di un piccolo passo, potrebbe avvicinarci a colmare il divario tra scienza e società, riducendo la dipendenza del pubblico dalle interpretazioni errate di terze parti e ricostruendo la fiducia del pubblico verso le istituzioni scientifiche.
* * *
Le antiche Olimpiadi erano intrise di superstizioni e credenze religiose. Ci siamo scrollati di dosso gran parte dei dogmi, ma rimangono ancora residui di superstizione, mentre abbiamo sostituito le credenze religiose con quelle pseudoscientifiche, che possono potenzialmente causare danni considerevoli.
Fortunatamente, ci sono motivi per essere ottimisti. Insistendo sull’istruzione e, soprattutto, sulla comunicazione scientifica, le consuetudini dei Giochi olimpici continueranno ad evolversi. Alla fine, la presa che ha la pseudoscienza sul mondo sportivo potrebbe saltare, esattamente come una corda avvolta intorno alla testa di Milone. Nel frattempo, noi dobbiamo continuare ad allenare il nostro spirito critico e a edificare le vene rigonfie dello scetticismo scientifico.
Lo sport di alto livello opera in campi estremi, all’incrocio tra gli incentivi finanziari e la mentalità del vincere ad ogni costo. È una combinazione pericolosa, in cui la ciarlataneria è una panacea che attira. La scienza può portare ad abusi, proprio come l’alcol può portare all’alcolismo. Quindi, il mio messaggio al mondo dello sport è semplice: pensate responsabilmente.
Note
- Un onore che Milone compì armato di mazza, con le sue corone olimpiche al collo e avvolto in una pelle di leone come Ercole (Diodoro 1814).
- Ho parafrasato la dottoressa Shirley Malcolm dell’American Association of the Advancement of Science, ma non sono riuscito a trovare una citazione diretta.
Bibliografia
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- Vyse, Stuart. 2023. “Superstition and learning”. In Stephen Hupp and Richard Wiseman (eds.), “Investigating Pop Psychology: Pseudoscience, Fringe Science, and Controversies”. Oxfordshire, England: Routledge & CRC Press.
Nick Tiller
Il dott. Nick Tiller si occupa di Scienze dello sport presso la Harbour-UCLA ed è autore di The Skeptic’s Guide to Sports Science, definito uno dei “migliori libri di Scienze dello sport di tutti i tempi” dalla Book Authority. www.nbtiller.com
Foto di e_stamm da Pixabay. Articolo pubblicato originariamente sullo Skeptical Inquirer. Si ringrazia Sofia Lincos per la traduzione