20 Luglio 2024
Approfondimenti

Archeologia e pseudo-archeologia a dibattito: il confronto fra Graham Hancock e Flint Dibble

di Matteo Boccadamo

Graham Hancock è un personaggio abbastanza noto al grande pubblico. Di contro, è poco probabile aver sentito nominare Flint Dibble. Il primo è uno scrittore, giornalista e ufologo la cui carriera è legata a opere pseudo-scientifiche di grande fortuna, incentrate per lo più su presunte antiche civiltà avanzate perdute. Il secondo è un archeologo professionista, ricercatore specializzato in archeologia classica, il cui lavoro si concentra in particolare sul tema dell’alimentazione nell’antica Grecia.

Lo scorso aprile i due personaggi si sono incontrati e confrontati di persona su invito del primo, dibattendo le proprie tesi all’interno del Joe Rogan Experience, il controverso e celebre podcast di Joe Rogan, commentatore, comico e conduttore americano che solo su YouTube conta quasi 17 milioni di iscritti. 

Gli antefatti

Una nuova ventata di popolarità internazionale era giunta a Graham Hancock da Antica Apocalisse, una serie tv dedicata all’archeologia “misteriosa” distribuita nel 2022 da Netflix. Ha riscosso grande successo, attirando al contempo le critiche di archeologi e testate di mezzo mondo (ne abbiamo parlato anche su Query online). Se c’è anche chi lo ha definito “lo show più pericoloso su Netflix”, è perché Ancient Apocalypse (questo il titolo originale) è presentato dalla piattaforma come vero e proprio documentario storico-archeologico, pur divulgando teorie fantarcheologiche senza la minima prova scientifica a supporto. Il 30 novembre di quello stesso anno la Society for American Archaeology, di cui anche Flint Dibble fa parte, ha inviato proprio a Netflix una lettera con l’esplicita richiesta di “riclassificare la serie come science-fiction”.

Nonostante il continuo impegno di divulgatori e gruppi come la SAA nel contrastare queste forme di disinformazione che delegittimano e gettano discredito sul lavoro degli esperti, è raro assistere a un dibattito pubblico che veda direttamente contrapposti un archeologo professionista e un promotore di teorie pseudoscientifiche. Lo show di Joe Rogan aveva già dato voce moltissime volte alle idee di Hancock, ma mai gli aveva affiancato un addetto ai lavori. Gli stessi due ospiti infatti lo hanno definito un evento più unico che raro, forse il primo di questa portata. Si sono entrambi detti compiaciuti dell’incontro, proprio all’inizio del talk, che su YouTube aveva già totalizzato 4 milioni di visualizzazioni dopo appena una settimana dalla pubblicazione.

La Civiltà Perduta dell’Era glaciale

Nelle 4 ore e mezza di intenso dibattito, i temi sono stati davvero molti e molto interessanti. Si può tentare di riassumerne i momenti salienti, seguendo l’iter delle principali idee reciprocamente proposte e avversate dai due ospiti.Hancock inizia presentandosi come un ricercatore indipendente che tenta di far luce su aspetti storici ancora sconosciuti o deliberatamente ignorati, ingiustamente attaccato da una “crociata” portata avanti da quelli che definisce “archeologi mainstream”. Il loro obiettivo sarebbe quello di insabbiare i suoi studi e screditarne la figura, come effettivamente accaduto in passato ad altri ricercatori le cui tesi (oggi accettate dalla comunità scientifica) erano state inizialmente rifiutate, con l’irreversibile compromissione della carriera; non esita dunque a paragonarsi a costoro, non ultimo Galileo

Dibble dal canto suo, dopo aver ricordato che anche la comunità scientifica è composta da umani fallibili e quindi statisticamente anche da “assholes” che commettono errori, riassume efficacemente con quale approccio proceda la ricerca archeologica: si basa su pattern costituiti da evidenze materiali antropiche (quindi prove concrete) tra le quali è possibile operare confronti per proporre e validare teorie, fino all’emergere di nuovi elementi.

L’archeologo sintetizza quindi la tesi di fondo di Hancock, promossa da decenni nei suoi libri e sui media, quella della Ice Lost Civilization (Civiltà Perduta dei Ghiacci): una civiltà globale dalle avanzate conoscenze tecnologiche e ingegneristiche, ampiamente sviluppata già durante l’Era Glaciale, ma improvvisamente spazzata via da un cataclisma di enorme entità e di natura sconosciuta. Lo stesso che avrebbe provocato il periodo climatico noto come Dryas recente, precisa poi Hancock. I pochi superstiti sarebbero stati costretti a migrare, incontrando così i vari gruppi di cacciatori-raccoglitori paleolitici. Avrebbero giovato della loro protezione e del loro aiuto, donando loro in cambio alcuni saperi, tra cui l’architettura, l’arte e le tecniche di coltivazione, permettendo così l’avvio della rivoluzione agricola e la creazione delle varie civiltà umane.

Ciò emergerebbe dalla possibilità di riscontrare in civiltà distanti per spazio e tempo, mai venute in contatto tra loro, alcuni elementi molto simili, principalmente di natura architettonico-monumentale. Queste costruzioni infatti sono, sì, realizzate da mani umane (senza intermediari paranormali o alieni), ma rivelerebbero un sostrato socio-culturale comune derivabile dall’iniziale spinta fornita dalla “civiltà perduta”. In altri casi invece sarebbero stati gli esponenti di questo popolo in prima persona a edificare alcune grandi costruzioni conservatesi fino a noi, quindi da retrodatare rispetto a quanto sostenuto dagli archeologi. Lo scrittore aggiunge che allo stato attuale delle conoscenze questo è quanto si possa affermare, in quanto la superficie del pianeta ad oggi archeologicamente indagata è irrisoria. 

Dibble presenta quindi una serie di risultati per dimostrare come le prime pratiche agricole non possano essere retrodatate. Il tema, davvero molto complesso e che ha affascinato lo stesso Rogan, verte sulle modifiche genetiche (spesso macroscopiche) che la domesticazione delle piante produce sulle stesse e sui loro semi. Da un lato i primi agricoltori selezionavano le specie più facili da coltivare e che garantivano il maggior rendimento (escludendone altre che quindi si perdevano man mano), dall’altro erano le piante stesse a sviluppare adattamenti evolutivi in risposta all’ambiente creato dagli agricoltori. Tali modifiche chiaramente riconoscibili e permettono di stabilire quali reperti botanici (resti di piante e semi) siano riconducibili a specie domesticate e quali invece no. Abbiamo molte evidenze botaniche anche dell’Era glaciale (epoca in cui la detta civiltà perduta presumibilmente già praticava l’agricoltura) e nessuna mostra segni di domesticazione.

La risposta di Hancock è che la civiltà di cui lui parla non ha effettivamente introdotto presso i cacciatori-raccoglitori né piante, né agricoltura, né mezzi per praticarla, ma semplicemente “l’idea dell’agricoltura”. Questa correzione (che a un occhio critico appare più come una marcia indietro) è solo una delle tante. Nel corso del confronto ad esempio ricalibra anche l’ipotesi dell’avanzato progresso tecnologico della civiltà, ridefinendolo piuttosto come una forma molto elevata di conoscenze astronomiche, andate però perse in quanto non trasmesse ai cacciatori-raccoglitori.

Dove sono le prove?

Sia Dibble, sia Rogan pongono la questione basilare dell’approccio scientifico: dove sono le evidenze archeologiche a supporto di tali tesi? In un primo momento Hancock individua nell’arretramento delle linee costiere la causa dell’inaccessibilità ai reperti e alle rovine della civiltà perduta. Le prove sarebbero sommerse e difficilmente individuabili. A tal proposito Dibble fa presente che l’archeologia subacquea è una branca molto sviluppata, che ha acquisito e analizzato moltissimi dati in relazione allo studio costiero e marino di varie epoche. Relitti, reperti e siti subacquei documentati, anche datati a qualche migliaio di anni fa, abbondano in tutto il mondo. E nessuno di essi farebbe pensare a un’avanzata civiltà dell’Era Glaciale. 

E come mai, inoltre, è possibile rinvenire centinaia di migliaia di evidenze riferibili ai cacciatori-raccoglitori, mentre non si sarebbe conservato nulla di un popolo così evoluto? Com’è possibile, cioè, che un cataclisma spazzi via su scala globale ogni minima traccia della civiltà tecnologicamente più avanzata del pianeta, lasciando al contempo così tante prove materiali di cacciatori-raccoglitori (al confronto) tecnologicamente così arretrati? 

Hancock ribadisce che, come per la superficie terrestre, la porzione di fondale marino investigata dagli archeologi corrisponde a una piccolissima percentuale sul totale e pertanto non si può escludere che le evidenze richieste si trovino in fondo agli oceani o sotto i deserti. Oppure che vengano deliberatamente ignorate dai ricercatori. Per questo motivo proietta una serie di fotografie scattate personalmente durante immersioni effettuate in giro per il mondo nell’arco di diversi anni. Mostra ad esempio quelle che giudica strutture megalitiche sommerse a largo dell’isola giapponese di Yonaguni

Rifiuta l’idea dei geologi, ribadita anche da Dibble, secondo cui si tratterebbe di formazioni naturali, in quanto quegli enormi blocchi di pietra presenterebbero tunnel, lavorazioni, gradoni e tagli troppo netti e precisi per non essere modellati da mani umane. Non sono mai stati condotti scavi né studi scientifici su questo e altri siti subacquei interpretati da Hancock come architetture megalitiche molto più antiche di qualunque struttura nota. Ma ciò sarebbe imputabile al disinteresse degli accademici, che ignorando l’importanza della questione non si impegnano nella raccolta di dati oggettivi.

“Quindi possiamo affermare che non abbiamo prove di una civiltà avanzata?” domanda Joe Rogan dopo esattamente un’ora e 27 minuti di talk. La risposta dello scrittore è una candida ammissione della totale mancanza di prove.

Non è mai abbastanza

Con una dichiarazione del genere un dibattito scientifico sarebbe da considerarsi concluso, invece la puntata va avanti per altre 3 ore. Momenti caratterizzati fondamentalmente da una stessa reiterata dinamica: Dibble accusa Hancock di non avere le prove per quanto afferma, mentre quest’ultimo si difende dicendo che non si è ancora scavato abbastanza per individuarle. Ci sarebbero ad esempio l’intero deserto del Sahara, l’intera Amazzonia e la maggior parte della superficie planetaria ancora da indagare. Quindi “non è possibile escludere con certezza assoluta l’esistenza di un’antica civiltà perduta tecnologicamente avanzata”.

A tal proposito è bene evidenziare due problematiche di fondo insite in questo (errato) ragionamento. La prima riguarda l’obiettivo dell’indagine archeologica, implicitamente inteso come “scavare tutto lo scavabile” (va peraltro precisato che lo scavo non è l’unica metodologia applicabile, come si lascerebbe invece intendere). La seconda è di natura squisitamente scientifica e consiste in un ribaltamento dell’onere della prova. Affermare che non si è studiato abbastanza per escludere un’ipotesi senza evidenze, equivale a dire che sia chi la nega a dover dimostrare la propria posizione. Quando invece si sa benissimo che è proprio chi avanza una teoria a doverla supportare con dati di fatto.

Ad ogni modo la puntata prosegue a colpi di proiezioni video e fotografiche da parte dei due intervistati, che fanno largo uso di contenuti multimediali. Hancock mostra una lunga serie di immagini riguardanti grandi monumenti antichi di varie aree del mondo, per lui indizi di un perduto passato comune. Alcuni reali, come la Sfinge di Giza, da retrodatare di almeno 2000 anni in base all’erosione delle sue superfici (quindi costruita dalla civiltà perduta). Altri presunti, come la piramide di Gunung Padang, in Indonesia. La più antica del mondo, secondo un articolo scientifico realmente pubblicato dalla prestigiosa rivista Archaeological Prospection e poi ritirato a seguito di un’indagine interna. La conclusione asseriva che la collina vulcanica presente in questo sito andasse in realtà letta come una costruzione piramidale di quasi 25.000 anni, con tanto di camere sepolcrali nascoste (mai raggiunte, né indagate). Il tutto sulla base di formazioni geologiche naturali, interpretate come pilastri crollati, e con datazioni al radiocarbonio effettuate su reperti non antropici (quindi inutili ai fini archeologici).

Quest’episodio ha generato non poco scalpore anche nella comunità scientifica, e nel corso della puntata lo stesso Hancock si è detto profondamente offeso dal ritiro del paper. Lo considera un altro attacco diretto al proprio lavoro, in quanto il team dei firmatari (quasi tutti geologi) inseriva nei ringraziamenti proprio lo scrittore, per essersi interessato alla questione portandola nel primo episodio di Ancient Apocalypse.

D’altronde non solo le piramidi presunte, ma anche quelle reali, come pure altri complessi monumentali di grandi dimensioni, che desterebbero dubbi circa i loro reali costruttori, gravitano nell’orbita di una frequente domanda che si nutre di sensazionalismo e ritorna puntualmente anche qui: com’è stato possibile che dei semplici umani di migliaia di anni fa, con il livello di tecnologia che noi attribuiamo loro, abbiano realizzato opere così grandiose, precise e durature?

Secondo Flint Dibble dimentichiamo spesso che anche allora erano “smart people”. 

Chi ha vinto?

Al netto di pochi frangenti accesi e qualche reciproca accusa di utilizzo di toni offensivi (riferita comunque non alla puntata, ma a quanto rispettivamente dichiarato in precedenza su testate e altri media), il confronto si è svolto in maniera rispettosa, pacata e suscitando molto probabilmente un certo interesse in chi l’ha seguito. Anche Joe Rogan si è dimostrato un conduttore super partes, garantendo il rispetto di spazi e possibilità di replica, dicendosi affascinato dalle tematiche proposte e felice di veicolarle a un vasto pubblico.

Domandarsi chi tra i due ospiti sia uscito “vincitore” dal confronto, magari in base a criteri di solidità delle argomentazioni e capacità persuasive, rimarrebbe tuttavia un esercizio retorico di scarsa utilità. Perché chi già vedeva in Graham Hancock un’illuminata figura di riferimento, coraggiosamente votata alla riscoperta di un passato che la corrotta accademia cerca di occultare, avrà inteso i suoi interventi come uno schiaffo morale inflitto a Dibble, rappresentate dell’archeologia mainstream. Di contro, chi è più incline a razionalità e mentalità scientifica, e magari associava già Hancock alla pseudoscienza, tenderà a concludere che è quest’ultimo ad aver ricevuto una sonora batosta, considerando piuttosto le parole di Dibble come una memorabile lezione. Questa dinamica è evidente nei commenti espressi sul web dagli utenti. È molto interessante notare come i pareri divergano in maniera diametralmente opposta, a volte assumendo sembianze di “tifoseria”, ma enfatizzando allo stesso modo la solidità delle argomentazioni dell’intervistato sostenuto e la fallacia di quelle dell’avversario.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quanto abbia senso un dibattito che contrapponga dal vivo scienza e pseudoscienza, o quanto invece possa essere controproducente. Perché un professionista dovrebbe “sprecare” il suo tempo a confrontarsi con un noto sostenitore della cosiddetta storia alternativa, rischiando di conferirgli ulteriore visibilità? E, dalla prospettiva opposta, perché un personaggio notoriamente osteggiato dai prevenuti accademici dovrebbe “cedere” nel porre al loro vaglio le proprie tesi, sapendo già che saranno sbeffeggiate? È molto più utile interrogarsi su questo, che non su chi l’abbia effettivamente spuntata.

Una risposta è fornita in un articolo dallo stesso Dibble, che rivolgendosi in primo luogo ai suoi colleghi, a costo di apparir loro come un folle, sottolinea la necessità di smetterla di “parlare solo tra di noi”. Se gli addetti ai lavori vogliono tentare di frenare la pseudo-archeologia, occorre non solo rivolgersi all’esterno del proprio ambiente, ma anche armarsi di tecniche di comunicazione della scienza: “come presento le prove è tanto importante quanto cosa presento”. 

L’archeologia e la storia generano già di per sé un naturale fascino nel pubblico, fanno parte delle curiosità innate nell’essere umano. Il meccanismo che regola la soddisfazione di tale curiosità si potrebbe paragonare a quello della “domanda” di un mercato: se non viene soddisfatta da qualcuno, lo farà qualcun altro. E da decenni scrittori, ufologi e cospiratori sono in grado di intercettarla molto meglio di archeologi e storici, occupando il vuoto lasciato da questi ultimi con una loro personale “offerta”. Ne è conseguenza ad esempio il fatto che su Google Books Ngram Viewer la parola inglese Atlantis – sottolinea Dibble – è menzionata molto di più rispetto a Pompeii, Sphynx e Stonehenge (e tra l’altro anche più di astrology, UFO e ancient aliens). Ecco perché poter avere un’audience da milioni di persone a cui rivolgersi, come quella di Joe Rogan, è un’occasione che raramente si presenta a un ricercatore. E se costui ha a cuore la promozione di un approccio critico e scientifico deve saperla cogliere.

Per lo stesso principio, cioè un diffuso interesse per “l’antico” da parte del pubblico, è statisticamente lecito supporre che una parte di chi si lascia affascinare da narrazioni “alternative” della storia lo faccia assolutamente in buona fede. A volte è così anche per chi quelle narrazioni le propone. Anche dalla prospettiva di costoro dunque un confronto con gli addetti ai lavori è qualcosa di assolutamente praticabile e auspicabile, se non altro proprio per provare questa buona fede e dimostrare di non temere un contraddittorio. È alla luce di questo che Hancock e Dibble (al netto della retorica) si sono vicendevolmente ringraziati al termine della puntata, ciascuno riconoscendo all’altro l’importanza e il significato dell’opportunità offerta. 

Se sul piano concettuale e metodologico i due non potrebbero divergere ulteriormente, concordano in pieno sull’utilità di dibattiti di questo tipo, sullo spazio che la scienza può ricavare da un tale impatto mediatico e su quanto sia controproducente in ogni caso sottrarsi al confronto. Si può non concordare con Dibble e Hancock, ma senza dubbio la questione è interessante.

Immagine di apertura: di ArtTower, da Pixabay