27 Luglio 2024
Giandujotto scettico

Il prete morto e la sua ombra

Giandujotto scettico n° 164, di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Nella prima serata del 2 marzo del 1959, a Torre Beretti, località della provincia di Pavia appena oltre il confine con quella di Alessandria e dunque con il Piemonte, si verificò un terribile incidente stradale. Mentre conversava con due amici sul ciglio di una strada di campagna, il parroco del vicino paese alessandrino di Bozzole, il quarantaquattrenne don Maggiorino Ansaldi, veniva investito insieme agli altri da una Fiat 500 ultimo modello con a bordo due uomini. Scaraventati contro una trivella a traino di un trattore fermo sul posto, il prete e uno degli altri due rimanevano uccisi. L’auto si rovesciava finendo fuori strada: uno degli occupanti era proiettato fuori dal veicolo. Morì in ospedale per le ferite riportate.

Tre morti e due feriti, dunque, e interi paesi costernati, ma anche una delle innumerevoli tragedie quotidiane legate alla viabilità. Eppure, la vicenda cominciò ben presto ad ammantarsi di un’aura soprannaturale. Quel fatto luttuoso era destinato a generare voci e ipotesi, su una vicenda che in quella realtà – probabilmente assai legata alle figure ecclesiastiche – aveva già lasciato un segno forte. 

Quarantanove giorni dopo la morte di don Ansaldi, il 20 aprile, sul quotidiano torinese Gazzetta del Popolo apparve un breve articolo, corredato da un’immagine davvero insolita, quella che vedete qui sotto. Molti si recavano sul luogo dell’incidente, e in tanti si stupivano di quanto fosse visibile sul selciato, nel punto del sinistro. Non è chiaro da quando, ma sull’asfalto si vedeva “la sagoma intatta del povero parroco… nitida, posto sull’asfalto di traverso”, come la sera della tragedia. Né la pioggia né il traffico intenso avevano cancellato la macchia, “che raffigura sommariamente le sembianze di un sacerdote”. Lasciamo a eventuali sacerdoti che ci leggono di valutare se si riconoscono in quei segni: quel che più conta è che, da tempo, un gran numero di curiosi raggiungeva quel punto con ogni mezzo possibile sia dalla provincia di Pavia sia da quella di Alessandria. Parecchi, arrivati lì, pregavano per il defunto. 

Don Maggiorino Ansaldi (da “Oggi” del 7 maggio 1959).

Solo il giorno dopo, 21 aprile, grazie a una lunga corrispondenza del giornalista Mario Verda (1914-2007), il quotidiano torinese fornì dettagli – a dire il vero piuttosto macabri – su alcune circostanze che avevano preceduto la comparsa della macchia. Il prete era morto in maniera agghiacciante, per schiacciamento, largamente dissanguato. Il corpo era rimasto sull’asfalto per tre ore, in un lago di sangue. Solo a quel punto era stato rimosso e sul punto un cantoniere aveva gettato del terriccio. Il giorno dopo lo stesso cantoniere aveva buttato dei secchi d’acqua per rimuovere la traccia. Quello che aveva stupito tutti era il fatto che, anche ad altri successivi tentativi, la macchia non era sparita e, anzi, secondo alcuni abitanti del posto era diventata ancora più visibile. Il trattorista contro il cui mezzo don Ansaldi era stato schiacciato era impressionato: il segno gli ricordava in modo preciso il corpo del sacerdote maciullato. 

Verda interrogò sulla circostanza il vicario generale della diocesi di Casale Monferrato, mons. Mario Debernardis, che si affrettò a smentire qualsiasi idea di “soprannaturalità” dell’accaduto. Per lui il sangue, impregnati gli abiti del poveretto, aveva lentamente inzuppato le pietre bituminose dell’asfalto, macchiandole in modo resistente. 

Mentre arrivava la notizia del decesso dell’anziana madre di don Ansaldi, stroncata dal dolore per la perdita del figlio, Verda si rivolgeva per un parere al professor Franco Fusi, a quel tempo primario di Traumatologia dell’ospedale Santo Spirito di Casale Monferrato. Quello si riservò di recarsi il giorno seguente sul posto, per esaminare al meglio la scena. 

Verda raccontò il giorno dopo, 22 aprile, l’esito di quella ricognizione. Fusi sembrava stupito: il sangue, di norma, come ogni altro liquido, cola seguendo l’inclinazione dei piani, a formare chiazze e grumi caratteristici; lì, invece, la cosa sembrava essere andata in modo diverso: gli sembrava utile prelevare un frammento d’asfalto e farlo esaminare. Anche un perito che da trentadue anni si occupava di sinistri stradali, il geometra Piero Eccettuato (?-1987), di Casale Monferrato, del cui locale collegio dei geometri fu in seguito presidente, non ricordava casi analoghi. Di norma il sangue spariva in pochi giorni. La sua ipotesi era che dal serbatoio della 500 fosse colata della benzina che aveva stinto l’abito talare della vittima. Forse un’analisi avrebbe potuto stabilire se la combinazione di sangue, catrami, tintura dell’abito e benzina si erano in qualche modo fissati in modo stabile, penetrando per diversi centimetri nel suolo e diventando resistente agli agenti atmosferici. In quel caso, per assistere alla scomparsa della macabra impronta ci sarebbe voluto parecchio tempo.

Nella sua edizione del 23 aprile, il settimanale La Vita Casalese usava toni più enfatici. Sottolineava l’emozione e la sorpresa della gente che a frotte si recava sul posto, confermava che la macchia riproduceva il modo in cui la vittima era rimasta sull’asfalto, ma nient’altro di originale. Si limitava a rimarcare la sorpresa di Fusi ed Eccettuato, accentuando i toni “misteriosi”, ma non era in grado di aggiungere granché. Anche Il Monferrato del 24 aprile non era nient’altro che una parafrasi della corrispondenza di Mario Verda apparsa il giorno 21 sulla Gazzetta del Popolo. I toni di mistero però proseguivano: il giorno prima, tre persone rimaste sconosciute erano state viste scendere da un’auto e prelevare alcuni campioni d’asfalto nel punto in cui si trovava l’impronta. 

Più tardi, grazie a una vivace corrispondenza di Neera Ferreri (sorella della più nota Oriana Fallaci, con cognome da sposata) per il settimanale Oggi del 7 maggio giunsero descrizioni più dettagliate sul clima che si era creato intorno al macabro reperto. Le persone arrivavano da tutta l’Italia nord-occidentale: c’era chi si accalcava intorno, discuteva se la macchia potesse essere dovuta all’olio del motore dell’auto. Altri la misuravano, dicendo che era lunga due metri e mezzo, dunque troppo per essere quella esatta del morto. Si era creata anche una grande attesa religiosa. Una madre di Torre Beretti aveva fatto camminare il figlioletto malato sulla macchia, sperando che così guarisse. Un gruppo di torinesi, scambiandola per una parrocchia votiva provvisoria in onore del defunto, aveva cercato di entrare nella vicina casa cantoniera. Alcuni deponevano fiori, altri pregavano in ginocchio. Nella zona, e anche dai suoi confratelli, don Ansaldi era descritto come un comune parroco della campagna piemontese del tempo, senza particolari slanci o segni di speciale santità – in altri termini, un religioso del suo tempo, in una provincia appartata. In contrasto con questa realtà, un’anziana di Bozzole sosteneva che camminando sulla macchia sentiva “una scossa”. Il trattorista presso il cui mezzo era accaduto il sinistro raccontò di nuovo i particolari della tragedia. 

Contrastava con quest’atmosfera l’atteggiamento del cantoniere del posto, quello che aveva cercato di pulire per primo la macchia e l’aveva ricoperta di terriccio. Si chiamava Giuseppe Ferrini, ed era convinto, avendoci lavorato direttamente, che la causa della macchia fosse da ricercarsi nell’azione dell’olio dell’auto danneggiata nel sinistro. Per lui era tutto lì: avrebbe voluto cancellare definitivamente l’impronta, ma aveva ricevuto ordine – non si sa da chi – di non toccarla. 

Non sappiamo quando la macchia scomparve. Probabilmente il passaggio dei veicoli asportò a poco a poco le parti di bitume che si erano impregnate, e la vicenda fu via via dimenticata. Non si conoscono gli esiti dei tanto annunciati “esami”: se davvero furono fatti, non ne furono mai pubblicati gli esiti. Probabile, comunque, che l’intuizione del cantoniere fosse quella giusta e che la vicenda fosse, ahinoi, tutt’altro che paranormale

Tuttavia, come in ogni buona storia che si rispetti, non basta una spiegazione per chiudere la porta al senso del mistero. Nel 1999 lo scrittore e ufologo francese Guy Tarade (n. 1930), nel raccontare la vicenda in quell’incredibile pastiche che è Les nouveaux dossiers de l’étrange, parla di “pellegrinaggi” presso la macchia, che sembra dare ancora attuali quarant’anni dopo il fatto (!) e sostiene che nell’impronta era visibile “la Luna Nera” – qualsiasi cosa volesse intendere con quest’espressione di derivazione occultistica. 

Anche tra gli appassionati italiani di misteri la vicenda si guadagnò una certa popolarità. Ne scrisse il fortiano Umberto Cordier sul numero 100 della rivista dell’insolito Clypeus, uscito nel dicembre 1995, e nel 2006 lo scrittore alessandrino Danilo Arona nelle sue Cronache di Bassavilla. Cordier, riassumendo le fonti giornalistiche uscite nel 1959, aggiungeva anche una breve bibliografia del sacerdote: nato a Ceresio Monferrato (Alessandria) da una modesta famiglia di agricoltori, ultimo di sette figli, era entrato molto giovane nel seminario di Casale Monferrato. Era stato ordinato sacerdote nel 1941, quindi aveva trascorso alcuni anni come viceparroco nella chiesa di San Domenico a Casale; poi, nel 1944, era diventato parroco di Bozzole. Cordier, piuttosto benevolo verso la dimensione “misteriosa” della vicenda, ricordava che don Ansaldi era “notissimo per il suo attivismo, le sue opere di pietà e soprattutto per la sua immensa fede religiosa”. Dunque, non si stupiva che per quella “sindone” sull’asfalto si fosse gridato al miracolo. 

Più tagliente, a commento di questa storia per molti versi atroce, la considerazione di Danilo Arona: 

È uno dei non pochi eventi occultati nella cronaca minore di provincia, in grado di dimostrare che la realtà può diventare “fantastica” al di là di ogni convinzione personale.

Immagine di cottonbro studio, da Pexels.