9 Ottobre 2024
Misteri vintage

I nazisti, la radiestesista e il tesoro perduto di Alarico in Calabria

di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

L’anno 410 dopo Cristo vide uno dei più celebri saccheggi della storia di Roma, quello che presagiva alla definitiva scomparsa dell’Impero romano d’Occidente e dunque alla fine della storia antica. Ne fu protagonista la figura complessa e rapidamente mitizzata di Alarico, re dei Visigoti, che voleva a tutti i costi l’Italia, magari per diventare figura dominante di ciò che restava dell’Impero mettendo sotto tutela il debole e contraddittorio sovrano del tempo, Onorio. 

Anche per le tergiversazioni di Onorio e per le divisioni fra generali (esemplare fu l’uccisione del più fermo difensore dell’impero, Stilicone, voluta dall’imperatore), alla fine Alarico si decise a raggiungere Roma e a saccheggiarla. Lo shock culturale fu enorme: in realtà la città non fu distrutta, ma per gli intellettuali che in seguito valutarono quanto accaduto, quello era il segno che la fine dell’Impero d’Occidente era prossima, e che una nuova, incerta era stava aprendosi. 

In quel caos, Alarico fu presto considerato o una specie di barbaro devastatore di ogni civiltà, oppure l’esecutore di una volontà superiore – insomma una specie di strumento della potenza celeste che doveva concretarsi nel mondo. Questa sensazione fu accentuata dalla sua fine improvvisa, avvenuta proprio quando sembrava sul punto di espandere la sua fama a tutto il Mediterraneo e, dunque, secondo letture romantiche moderne di area tedesca più o meno fantasiose, di “germanizzarlo”. 

Subito dopo aver preso Roma, Alarico mosse verso sud: voleva impadronirsi della Sicilia raggiungendola dalle coste calabre, e, da lì, muovere poi verso le zone fertili dell’Africa settentrionale ancora sotto il controllo di Roma, in modo da assicurarsi le risorse agricole di una parte del Mediterraneo. Non si saprà mai bene perché, ma, mentre si trovava in Calabria, si ammalò e morì in pochissimo tempo, alla fine dell’estate dell’anno 410. 

Questa caduta a precipizio quando era al culmine della fama fece pensare che non si fosse trattato di una morte naturale. Sul lato del morente paganesimo, nei Discorsi storici redatti negli anni seguenti la morte di Alarico, Olimpiodoro di Tebe scrisse che la statua di un dio, eretta nei pressi dello stretto di Messina, aveva indotto il sovrano a cambiare idea, dirigendo a nord. Ed è poi interessante che uno dei primi a far circolare la storia dell’uscita di scena di Alarico per motivi imperscrutabili sarebbe stato uno storico un po’ speciale come Olimpiodoro. Se si dà credito a Fozio di Costantinopoli, che nel IX secolo ne sunteggiò l’opera, andata persa, Olimpiodoro era un fautore dell’alchimia, tanto che gli fu attribuito un trattato di quel genere. Di certo, la sua fama in quell’ambito della magia durò a lungo. 

Anche prima di Olimpiodoro, però, anche per Paolo Orosio, apologeta cristiano influentissimo, fra le tante storie contro i pagani da lui redatte, era stata una tempesta ordinata da Dio a disperdere la flotta di Alarico in procinto di attaccare la Sicilia. 

Alarico è nel fiume

Il topos del sovrano sepolto col suo corredo più prezioso e, magari con servitori spinti a seguirlo in maniera più o meno volenterosa, è un classico del dibattito archeologico. Basti pensare alla fama di pratiche del genere nell’Egitto antico. Almeno per la storia più arcaica di quella civiltà, peraltro, la pratica appare documentata a sufficienza. 

Il mito della sepoltura in Calabria di Alarico – una sepoltura non comune – si deve allo storico Giordane – forse un nobile di origine gota. Nella sua Getica, sintesi di storie più o meno attendibili redatte da fonti precedenti scritta intorno al 552, Giordane scrisse che mentre era in Calabria, di colpo il sovrano si ammalò e morì. Degli schiavi avrebbero lavorato per prepararne il seppellimento con i suoi tesori nel letto del Busento, presso Cosenza. Un gran numero di quei lavoratori, perché fosse mantenuto il segreto del punto della sepoltura, sarebbe stato ucciso sul posto e lì sotterrato. 

Dunque, nel mito della morte di Alarico confluiscono parecchi elementi: la morte provvidenziale del sovrano potente ma violento; l’uccisione semi-rituale dei servi; la presenza di un grande tesoro anch’esso sotterrato nel letto del corso d’acqua. 

Il mito di Alarico, paradiso della fanta-archeologia

La fortuna del mito del seppellimento di Alarico a Cosenza durò nei secoli. Con il sorgere dell’attenzione moderna per le antichità, e poi sotto la spinta delle pulsioni del Romanticismo, l’attrazione per questa storia remotissima diventò quasi ossessiva. In sostanza, nel Ventunesimo secolo è più potente che mai. 

Nel Medioevo gli scritti di Giordane, colui che aveva raccontato del seppellimento del re goto nel fiume di Cosenza avevano avuto notevole fortuna, in specie in area germanica. Fu però soltanto in seguito che la caccia alla tomba diventò una vera e propria passione. Della storia della ricerca della tomba si occupò a lungo l’archeologo Giuseppe Roma (1948-2018), in particolare nel suo ampio saggio “Intorno al mito di Alarico” (in Mediaeval Sophia, n. 17, 2015, pp. 205-220). 

Roma era particolarmente interessato a un fatto odierno: per la città di Cosenza, Alarico è un personaggio benemerito, da festeggiare e da ricordare. Eppure – si stupiva lui stesso – non soltanto Alarico non era cosentino, non solo ebbe fama di tremendo devastatore e invasore, ma con la città calabrese – forse – ebbe a che fare soltanto per caso, perché (se si vuol dar retta a Giordane, che scriveva 140 anni dopo i fatti e le cui fonti erano precarie) ebbe la ventura di morire nei suoi pressi. Perché dunque darsi tanto da fare? La risposta è semplice: alla base del successo dell’Alarico “cosentino” stanno il racconto della sua misteriosa sepoltura e, con lui, dei suoi tesori. Senza di quelle, il mito non sarebbe sorto.

Roma raccontò le tappe della caccia alle spoglie del re e dei suoi lauti beni soffermandosi più a lungo su due periodi in cui il desiderio di scoprirle raggiunse il culmine. Il primo coincise con il 1745, quando il “preside” (governatore) di Cosenza, Ettore Capocelatro, ordinò a più di cento operai di scavare nel punto in cui il Busento confluisce nel Crati: dopo cinque giorni, in mancanza della minima traccia, i lavori furono sospesi.  

Il secondo risale a novant’anni dopo. Nell’autunno del 1835, Alexandre Dumas padre, il grande scrittore ancora agli albori del suo successo, viaggiò a lungo in Calabria, raccogliendo poi le sue impressioni in un diario che diede alle stampe qualche anno dopo (Viaggio in Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007). 

In settembre Dumas è a Cosenza, e constata quanto accade sotto i suoi occhi:

Vedemmo nel suo letto disseccato una folla di gente che faceva degli scavi sull’autorità di Jordanes, che raccontò i ricchi funerali di questo re. Ogni volta che questo fenomeno si rinnovella, si fanno gli stessi scavi, e cioè senza che i sapienti cosentini, nella loro ammirabile venerazione per l’antichità si lascino mai abbattere dalle delusioni che hanno provato. La sola cosa che hanno giammai fruttato questi scavi è stato un piccolo cervo d’oro che fu ritrovato alla fine dell’ultimo secolo. 

Quindici anni prima, nel 1820, la diceria aveva già ispirato un celebre poeta tedesco, August von Platen-Hallermünde (1796-1835), uno dei tanti romantici infatuati sino alla morte dall’Italia e dal Mediterraneo, a scrivere una poesia dai toni cupi, Das Grab im Busento (“La tomba nel Busento”). Von Platen, da vero giovane romantico, morì di colera in Sicilia, all’isola di Ortigia, presso Siracusa, cosa che contribuì a eternarne la fama. La poesia sul seppellimento del re visigoto rimbalzò nel nostro paese parecchi anni dopo, quando, nel 1872, fu resa in italiano da Carducci. 

Si andava rapidamente verso il Novecento – verso nuovi, peggiori spaventi e anche verso la vera esplosione irrazionalistica del mito del tesoro di Alarico “il cosentino”. Nel 1882 il massimo filologo classico dell’Ottocento, Theodor Mommsen, un gigante la cui ombra si è proiettata a lungo sul secolo successivo, pubblicò la prima edizione critica moderna della Getica di Giordane, reimponendo in questo modo all’attenzione della storiografia del suo tempo la figura di Alarico come grande sovrano “tedesco”. D’altro canto, quello scritto di Mommsen era parte dei Monumenta Germaniae Historica, la colossale raccolta delle fonti letterarie sul mondo germanico che va dalla fine dell’Impero romano d’Occidente e il Cinquecento, un’opera in piedi da duecento anni e che fra il XIX e il XX secolo tanta parte ebbe nel suscitare il nazionalismo romantico tedesco. 

Tedeschi e ancora tedeschi, e – comunque – un’Europa del nord che cala in Italia un po’ per subirne il fascino, ma anche per rivendicare come “suo” il fantasma di un nordico come Alarico, il cui corpo, celato sotto le acque del Busento, non sembra in grado di trovare pace. 

1937: rabdomanti francesi e SS tedesche

Ecco per noi il vero culmine (o l’abisso) di questa lunga storia. Nel 1937 il regime nazista aveva ormai dato prove evidenti di voler espandere la sfera d’influenza tedesca in Europa, se necessario anche attraverso il ricorso alla guerra. Il suo apparato totalitario era ormai completo. La sua mitologia e le sue fantasie sul passato della storia della civiltà umana e sul ruolo degli ariani si stavano dispiegando anche attraverso le ricerche falsamente storiche e falsamente archeologiche dell’Ahnenerbe, l’organizzazione pseudoscientifica creata nell’ambito delle SS. Gli esponenti di questa organizzazione promossero un gran numero di credenze di carattere esoterico e occultistico.

Proprio nel 1937 l’Ahnenerbe suscitò e finanziò un un numero particolarmente elevato di spedizioni, indagini e scavi archeologici volti a dimostrare questa o quella “teoria” più o meno improbabile. Una di queste, molto importante, riguardò la Val Camonica, un’area che più tardi diventò uno dei luoghi privilegiati per la pseudoarcheologia, in specie dell’”archeologia spaziale” divulgata da giornalisti di successo come Peter Kolosimo. 

L’ufficio delle SS inviò in Val Camonica un archeologo importante e nazista della prima ora, Franz Altheim (1898-1976). Insieme a lui c’era la moglie, la fotografa professionale Erika Trautmann. Scopo del viaggio era studiarne le incisioni rupestri diventate celebri pochi anni prima grazie all’antropologo piemontese Giovanni Marro, promotore di un razzismo “spirituale” italiano che intendeva distinguersi con sussiego da quello biologico tedesco. 

Sulla spinta dei lavori di Marro, ecco dunque far capolini Altheim: nell’estate del 1937 l’archeologo si convince che le incisioni rupestri dovevano essere mescolate a caratteri runici di area germanica. Da questo, deduceva in maniera del tutto fantasiosa che la valle era stata un’area di passaggio fra Europa centrale e Italia, da dove i nordici erano calati per… fondare Roma!

Amélie Crevolin, da “La Dépeche de Brest” del 18 maggio 1937.

Ogni cosa che potesse confermare le credenze sugli antichi ariani – stavamo per scrivere sugli Antichi Alieni dei sostenitori dell’archeologia spaziale – andava bene. In questo quadro la leggenda di Alarico si prestava bene a essere utilizzata. I nazisti, dunque, nel 1937 andarono, sia pur per breve tempo, a Cosenza per cercare tracce della mitica tomba. Al contempo, quasi di certo furono spinti a farlo anche da una circostanza particolarmente strana che è necessario raccontare in dettaglio.

Fin dal settembre dell’anno prima, a Cosenza era giunta Amélie Crevolin, una francese abitante a Marsiglia ma originaria di Gap che praticava la radiestesia – la pseudoscienza della ricerca di oggetti e conoscenze varie attraverso strumenti come bacchette, pendolini e simili. Crevolin era a conoscenza della leggenda di Alarico, e si era convinta di poterne trovare tomba e tesoro attraverso i suoi strumenti. 

A partire dal maggio del 1937 le ricerche condotte dalla donna lungo il Busento con il pendolino suscitarono una vasta controversia che dalla stampa locale approdò a quella nazionale, con ampia eco in Francia e altrove, La donna, comunque, era stata autorizzata ai suoi scavi, a patto che se avesse trovato resti umani in misura significativa avrebbe consegnato tutto alle autorità (Il Giornale d’Italia, Roma, 16 maggio 1937; Cronaca di Calabria, 16, 17 e 30 maggio, 8 e 10 giugno, 18 luglio 1937; Paris-Midi, 13 giugno 1937; Echo de Sélestat Francia, 17 giugno 1937; Giovanni Sole, Il barbaro buono e il falso beato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 12-17).

Il 18 settembre 1937 Crevolin fu intervistata a lungo dal quotidiano francese La Dépeche de Brest. Raccontò di aver appreso la radiestesia poco per volta, dai libri, e di non essersi mai occupata della ricerca più tradizionale di quella pseudodisciplina, quella delle fonti d’acqua: semmai, si dava alla caccia di pagliuzze d’oro in zone alluvionali. Per farlo si serviva di uno strumento costruito da lei stessa – lo descrisse come “due elettromagneti con un anello nel mezzo”. L’anello poteva essere sostituito a seconda delle necessità, visto che, come sosteneva, “ogni materiale ha una lunghezza d’onda diversa”. Nel nostro caso, dato che cercava dell’oro, l’anello doveva essere dello stesso materiale. 

Ma come aveva potuto individuare il punto preciso in cui effettuare le ricerche? Semplice: conosceva la leggenda del tesoro di Alarico. Si era procurata carte dettagliate della zona di Cosenza e vi aveva puntato sopra il pendolo speciale, che aveva dato i suoi segnali muovendosi su un punto preciso. Era corsa allora dal console italiano a Marsiglia, lo aveva informato della cosa ed era partita per Cosenza, dove, naturalmente, nella zona prevista il pendolo aveva confermato che era sulla strada giusta. Se avesse trovato dei preziosi, il 25 per cento del valore sarebbe andato a lei, altrettanto al proprietario del terreno, e il 50 per cento al governo italiano. I risultati, spiegava un certo signor Merola, che sul posto collaborava con la Crevolin, erano incoraggianti: era stato trovato vasellame greco e romano, tracce di una strada pavimentata, resti umani sepolti forse secondo il modo visigoto (L’Ordre, 18 agosto 1937)… il tutto, scavando in un punto nel quale in antico doveva passare il letto del Busento. Però, adesso, dopo ventimila franchi spesi, bisognava che qualche società di mecenati permettesse di proseguire. C’è bisogno di dirlo? Non arrivarono né tesori, né resti di Alarico, né finanziamenti ulteriori.

Ma ecco il clou della vicenda. L’eco europeo del tentativo della radiestesista fu fale da indurre il responsabile stesso dell’Ahnenerbe, ossia il Reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, uno dei massimi capi del regime nazista, infatuato da ogni possibile idea esoterica e pseudoscientifica, a recarsi di persona a Cosenza per sincerarsi dell’attendibilità delle ricerche della tomba del grande e antico invasore “tedesco”. Con lui, l’interprete, agente diplomatico, corrispondente giornalistico dall’Italia e amico personale di Himmler, il colonnello onorario delle SS Eugen Dollmann, un personaggio che in seguito sarà coinvolto in diverse vicende politiche del nostro paese.  

Nell’autunno del 1937 Himmler era stato più volte in Italia in visita di stato e per scambi di lavoro con le forze di polizia italiane. Il 20 ottobre era stato ricevuto a Roma da Mussolini. Fu in occasione di quel lungo ciclo di viaggi nel nostro Paese e in Libia, colonia italiana, che ebbe luogo la breve missione a Cosenza.

Stando a quanto riferito da Calabria fascista del 22 novembre 1937, malgrado l’esito del tutto negativo degli accertamenti – l’impressione è che il capo delle SS fosse rimasto piuttosto deluso dalla realtà degli scavi – fece fermare la sua decappottabile al centro di un ponte sul Busento e si irrigidì nel saluto nazista a braccio teso, in direzione delle acque del fiume, come a stabilire un collegamento oscuro con il re visigoto introvabile.

A questo punto qualcuno potrebbe supporre che la cesura terribile della Seconda Guerra Mondiale abbia chiuso questa lunga storia, Se è così, è bene che si ricreda. 

Un mito di massa

Nel lavoro sopra ricordato, Giuseppe Roma ha ricostruito pure alcuni fra i più bizzarri tentativi recenti di caccia al tesoro e alla tomba di Alarico. Sono la prova del definitivo passaggio del povero Alarico da saccheggiatore di Roma a testimonial della società di massa – e proprio per questo sempre più in grado di perpetuare il suo mito e di indurre iniziative di ogni genere a lui ispirate.

Fu così che, nel 1968, qualcuno ricordò che un’interessante figura di astrologo cosentino vissuto a cavallo fra Cinquecento e Seicento, Rutilio Benincasa, uno dei principali inventori degli almanacchi astrologico-astronomici, già nella prima edizione del suo Almanacco perpetuo (1593), fra le mille cose di magia, stelle, comete e nozioni pratiche, non aveva trascurato Alarico, sostenendo che la sepoltura definitiva del re aveva avuto per teatro il pavimento della chiesa di San Pancrazio. Invocando il Codice civile e la legislazione del tempo sulle antichità, veniva adombrato il diritto per chi voleva cercarlo di diventare proprietario del tesoro (Gazzetta del Sud, 25 gennaio 1968)!

Prima di giungere all’era telematica, col conseguente dilagare della leggenda in mille salse, per Giuseppe  Roma vanno ricordati almeno altri due tentativi curiosi di ridare corpo al fantasma di Alarico. Il primo, tra il 1986 e il 1989, condotto da uno svedese, Erik Furugard, che, interpretando Giordane, pensava che il tesoro fosse alla confluenza fra il Busento e il torrente Piedimonte. Poco tempo dopo, due fratelli annunciarono di aver localizzato il luogo in cui si trovava il tesoro in una grotta posta fra le località di Carolei e Mendicino, chiedendo a gran voce che la Soprintendenza ai Beni Archeologici scavasse lì… E  così, via, all’infinito.

Arca biblica, Graal, camere segrete delle piramidi: un immaginario pseudo-archeologico sottostante anche alla nostra vicenda, un immaginario in larga misura moderno e che, come scriveva Giuseppe Roma, ha senz’altro contribuito a creare un brand attraente per la città di Cosenza, per la sua identità contemporanea e la sua economia. Gli aspetti più recenti di questa percezione mitica della figura di Alarico sono stati messi in luce da un archeologo importante come Massimiliano Ghilardi nel 2014 sul Giornale di storia

Per Ghilardi ormai si tratta di fare di Alarico una specie di Pinocchio, come avvenuto per il parco a tema di Collodi, in Toscana, o per la casa di Giulietta a Verona, cioè di costruire spazi di identità e di orgoglio. Con un aspetto insolito, però, nel caso del visigoto: la celebrazione di un capo violento, di un “barbaro” diventato, morendo a Cosenza, in pieno Sud, anche lui un po’ uno dei nostri. A modo suo, un inserto di “barbarie germanica” non più da temere, ma da inseguire e da venerare in tutti i modi, senza che nessuno abbia mai trovato niente – nemmeno un’entusiasta radiestesista francese, che era riuscita a spingere il capo delle SS a viaggiare fino al Busento e a salutare col braccio teso le acque del fiume.   

Il seppellimento di Alarico nel Busento, di Heinrich Leutemann (1824-1905).