La storia della catastrofe di Nedelin
Il 26 ottobre 1960 i giornali sovietici annunciano che il generale Mitrofan Ivanovic Nedelin è morto in un incidente aereo. È una menzogna: Nedelin è morto nella più grande tragedia dell’era missilistica, ma ci vorranno quasi trent’anni e la perestroika di Gorbačëv perché i giornali russi svelino la verità.
Nedelin è un eroe di guerra, veterano dell’Armata Rossa, già comandante in campo dell’artiglieria e poi vice ministro della difesa. Convinto che i missili siano il futuro della guerra, non è soddisfatto dell’R-7 sviluppato dal geniale ingegnere ucraino Sergej Korolëv. L’R-7 è un ottimo missile, affidabile e potente, e ha assicurato all’Unione Sovietica il predominio sugli Stati Uniti nelle prime fasi della corsa allo spazio. Ma il suo propellente è ossigeno liquido, che va caricato al momento, in un’operazione che richiede mezza giornata, e dev’essere di nuovo scaricato in caso di annullamento del lancio.
Convinto da Nedelin, nel 1958 Chruščëv chiede a un altro progettista, Michail Jangel’, di sviluppare un missile balistico che possa essere rapidamente preparato al lancio e poi nascosto e conservato per mesi senza bisogno di manutenzione. Nasce così il progetto R-16, un missile a due stadi che usa dimetilidrazina asimmetrica come propellente e acido nitrico fumante rosso inibito come ossidante, due sostanze che a differenza dell’ossigeno sono liquide a temperatura ambiente e quindi si possono conservare facilmente, ma che vengono chiamate “il veleno del diavolo” perché allo stato liquido sono tossiche e corrosive e quando bruciano producono un gas velenoso.
Nel 1960 viene costruito il primo prototipo: protocolli di sicurezza e problemi tecnici irrisolti vengono ignorati perché Nedelin e Jangel’ vogliono battere sul tempo Korolëv, che sta sviluppando un nuovo missile più efficace dell’R-7, e completare un lancio di prova dell’R-16 entro l’anniversario della Rivoluzione Bolscevica, il 7 novembre. Nedelin è sotto pressione perché ha convinto Chruščëv a riconvertire parte dell’industria aeronautica in missilistica, indebolendo così gli armamenti convenzionali senza però portare in cambio i benefici promessi.
Alcuni componenti vengono montati senza essere mai stati collaudati prima. Gli operatori lavorano senza soste per giorni e il 23 ottobre 1960 il prototipo è in rampa di lancio a Baikonur.
Le norme di sicurezza richiedono che una volta avviato il rifornimento tutto il personale non essenziale si allontani, ma Nedelin e Jangel’ non le rispettano e rimangono in rampa. Più di 150 persone seguono il loro esempio e restano nell’area quel giorno e il giorno dopo. La maggior parte di loro non sopravviverà.
Inizia il rifornimento che, per guadagnare tempo, non è mai stato provato su modelli di test e viene eseguito per la prima volta sul modello di volo, un grave azzardo. Il rifornimento è il punto di non ritorno: svuotare i serbatoi sarebbe molto pericoloso, non c’è una procedura precisa, e comunque una volta eliminato il propellente molto corrosivo il razzo non sarebbe più immediatamente utilizzabile.
Le linee di alimentazione che portano l’ossidante e il propellente al motore, dove inizieranno a bruciare appena entrati in contatto, non hanno valvole richiudibili ma membrane esplosive poco affidabili: non si capisce mai bene se sono esplose o no e a differenza delle valvole il loro azionamento non è reversibile. Ma se non funzionano, i motori non si accendono.
Completato il rifornimento, per accertarsi che le membrane si rompano, Jangel’ chiede ai tecnici di infilarsi in un portellone e ascoltare il gorgoglio del liquido nelle tubature. Non indossano maschere protettive che attutirebbero il suono: rischiano di morire avvelenati in caso di perdite. I tecnici rimangono sorpresi sentendo i suoni di esplosioni provenire dal basso: a causa di difetti nel circuito elettrico del pannello di controllo, sono esplose infatti le membrane sulla linea del propellente del primo stadio. Fortuitamente nessuno rimane avvelenato, anche se viene notata una perdita di propellente di circa 145 gocce al minuto, che viene giudicata accettabile.
Con le membrane esplose, il veicolo non può rimanere rifornito sulla rampa di lancio per più di un giorno o due. C’è sempre più fretta.
Secondo alcune testimonianze, una richiesta di drenare in qualche modo il propellente e rinviare il lancio viene rifiutata da Nedelin. Alle 18 la preparazione del lancio viene interrotta per tentare di riparare le perdite e gli altri guasti. Si riprenderà il giorno seguente, 24 ottobre.
I tecnici lavorano tutta la notte. Il giorno dopo, testimoni oculari vedono Nedelin ricevere due telefonate dai canali di comunicazione speciale del Cremlino, forse da Chruščëv in persona, impaziente di vedere i risultati promessi. Pochi giorni prima in un discorso alle Nazioni Unite Chruščëv ha decantato la potenza militare sovietica, dicendo che i missili escono dalle fabbriche «come salsicce da un’insaccatrice.»
Nedelin torna in rampa di lancio e si siede a pochi metri dal razzo. La sua presenza aumenta il nervosismo dei tecnici. Non c’è più tempo e diverse operazioni di collaudo e preparazione al lancio vengono svolte contemporaneamente. La probabilità di errore è altissima. I tecnici non sanno ancora se le membrane del secondo stadio siano esplose no. Non si fidano più del sistema elettrico e provano a farle esplodere manualmente, alimentandole con una batteria portatile.
Quando manca mezz’ora al lancio Jangel’ si allontana per fumare una sigaretta dietro un bunker con alcuni colleghi. Sarà questo a salvare loro la vita.
Un interruttore difettoso viene trovato nella posizione sbagliata e viene rimesso a posto (o secondo altre ipotesi scatta spontaneamente), azionando così una valvola che controlla l’accensione del motore sul secondo stadio del razzo. Questo comando è un backup del sistema primario, che normalmente accenderebbe il motore del secondo stadio in volo, a diversi kilometri di quota. Ma il motore del secondo stadio si accende quando il razzo è ancora in rampa. La fiamma colpisce immediatamente il serbatoio del primo stadio, che si trova subito sotto, e l’intero razzo esplode. In pochi secondi, una gigantesca sfera di fuoco, fino a 120 metri di diametro, inghiotte la rampa di lancio. Le fiamme si vedono a 50 chilometri di distanza. L’incidente è documentato dalle telecamere di sicurezza.
I più fortunati vengono inceneriti all’istante. Tra questi c’è Nedelin, del quale verrà ritrovata solo la medaglia d’oro di eroe dell’Unione Sovietica. Altri sono raggiunti da una palla di fuoco mentre cercano di fuggire: qualcuno invischiato nell’asfalto che si scioglie sotto i suoi piedi, altri bloccati dal filo spinato della recinzione. Altri ancora muoiono avvelenati dai gas tossici. Non ci sono conseguenze ancora più catastrofiche perché il missile di prova trasportava un carico inerte anziché una testata nucleare.
Chruščëv impone il silenzio. Nedelin, gli alti ufficiali e ingegneri civili vengono dichiarati morti in incidenti aerei e i loro resti vengono consegnati alle famiglie. Quello che rimane delle altre vittime viene sepolto in una fossa comune. Agli occhi del pubblico il programma missilistico sovietico procede trionfalmente e sei mesi dopo viene lanciato il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, con un razzo progettato da Korolëv. L’agenzia di stampa italiana Continentale è l’unica a riportare la verità, da fonti riservate, ma riceve poco risalto, e la tragedia diverrà di dominio pubblico solo nel 1989.
Ancora oggi nessuno sa con esattezza quante siano state le vittime: nel 2010, a cinquant’anni dall’incidente, Roscosmos ne ha calcolate 126, ma altre fonti stimano 150 morti.
Non possiamo riportare in vita i morti di Nedelin: ma possiamo ricordarli per evitare che una tragedia simile si ripeta.