27 Aprile 2024
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Giacomo Cardaci, Vera Gheno ed Eleonora Criscuolo raccontano al CICAP Fest 2023 l’importanza delle parole nell’esperienza della malattia

di Emanuele Romeo

La malattia è un’esperienza che fa parte della vita e ognuno di noi, prima o poi, si trova a doverla affrontare in qualche modo, anche se non sulla sua pelle. Questa esperienza tocca infatti, anche se in modi differenti, sia la persona colpita dalla malattia sia chi le sta accanto. Spesso la comunicazione tra queste due parti si fa complessa e irta di ostacoli. Il CICAP Fest 2023 ha ospitato, in collaborazione con la Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, un incontro proprio sull’importanza della parola e del lessico usato per affrontare l’esperienza della malattia. 

I relatori invitati a dare il proprio contributo, intervistati da Enrica Favaro, sono stati lo scrittore e giurista Giacomo Cardaci, la sociolinguista Vera Gheno e la psicologa e psicoterapeuta Eleonora Criscuolo. Ciascuno di loro ha offerto alla discussione il proprio punto di vista, basato sulle proprie esperienze di vita e professionali.

Quattordici anni fa mi fu diagnosticato un tumore inoperabile e recidivo”, ha raccontato Cardaci, dando inizio all’incontro. Fu da questa esperienza che sviluppò il desiderio di scrivere un libro “sincero”, come egli stesso lo definisce, che raccontasse la mattia e che fosse avulso dalla retorica che caratterizza le narrazioni più comuni. “Volevo far emergere la realtà per quella che è, raccontando alcuni aneddoti della mia esperienza. In molti libri si legge ‘La malattia ti rende una persona migliore’, ‘la malattia nobilita’, ma può accadere anche l’opposto, si può diventare persone peggiori”, ha sottolineato. 

La riflessione che nasce spontanea ascoltando le parole del giurista è, quindi, che la retorica che accompagna la narrazione della malattia possa anche essere disfunzionale per chi sta vivendo un’esperienza del genere. L’importanza del lessico utilizzato, che descrive la terapia al cancro come una battaglia e le persone che la stanno affrontando come dei guerrieri, può risultare sfibrante per chi non si riveda in quell’immagine.

La parola è un atto identitario individuale e comunitario. È attraverso le parole che riusciamo a tirare fuori dalle persone sentimenti ed emozioni”, ha aggiunto Gheno. Secondo la sociolinguista la diagnosi ne è una manifestazione chiara perché a seconda che vengano usate parole comprensibili o meno per esprimerla, “il paziente può provare meno paura o frustrazione; nel primo caso perché inizia a dar forma a ciò che gli sta accadendo, nel secondo perché il tecnicismo non gli risulta comprensibile”, conclude. 

Ciascuno vive l’esperienza della malattia a proprio modo, e le parole che utilizza per descriverla e descriversi la caratterizzano fino in fondo. Questo concetto, che può sembrare a prima vista scontato, è invece un aspetto vitale e il perno attorno a cui ruota l’attività professionale della dottoressa Criscuolo, che accompagna nella terapia i pazienti oncologici. “In un primo momento può essere funzionale definirsi come dei guerrieri, soprattutto dopo che ci sia stata presentata una diagnosi. Tuttavia, questa narrazione di sé nel lungo periodo può essere distruttiva perché non ci si riconosce più in quell’immagine. La maggior parte del mio lavoro è portare i pazienti ad una narrazione autentica di sé”, ha commentato la psicologa. 

Anche alla parola cancro stessa si attribuiscono, nella nostra società, narrazioni violente. Si pensi, ad esempio, alla frase “la mafia è il cancro dell’Italia”, che associa inevitabilmente il cancro a qualcosa di eticamente negativo. Come ha sottolineato Cardaci, “questo tipo di racconto introietta dentro di sé la paura di parlare della propria malattia, perché infonde un senso di profonda colpevolezza”. Anche nel supporto psicologico e terapeutico si deve ricercare una terminologia più corretta, ha spiegato Criscuolo affermando che “parlare del periodo della terapia come ad un periodo di crisi, ad esempio, aiuta i pazienti a trovare strategie per superare quel momento”.

È, in ogni caso, necessario rispettare tutte le narrazioni e i punti di vista, come ha puntualizzato Gheno. Non solo è importante per il paziente cercare le parole per esprimersi e per dare una forma alla realtà che si sta vivendo ma è anche fondamentale per le persone che gli stanno accanto. L’ascolto e il silenzio fanno anch’essi parte della sfera linguistica e possono ricoprire un ruolo cruciale per creare un ponte comunicativo tra le parti. “Dire all’altro ‘senti, non so come dirti’ può essere il punto di partenza quando mancano le parole”, ha affermato la sociolinguista. 

La centralità del linguaggio nell’esperienza umana della malattia è il filo conduttore che ha accompagnato la discussione. La necessità di ricercare, a livello sociale e culturale, un lessico più corretto per affrontare la malattia passa, quindi, dall’educazione alla sofferenza e alla malattia stessa. Educazione che, con parere unanime, i tre relatori hanno affermato di non essere diffusa nella nostra società. Potrebbe essere quindi questo il punto di partenza che forse ci permetterà, un giorno, di vivere con maggiore accettazione e umanità un aspetto totalmente naturale della nostra vita.