27 Aprile 2024
Giandujotto scettico

Energo, la cura elettrogalvanica per tutte le malattie

Giandujotto scettico n° 138, di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (04/05/2023)

“Curatevi con l’elettricità”, consigliava un annuncio su La Stampa del 10 novembre 1925. La pubblicità si rivolgeva a tutte le persone “stanche, affaticate, esaurite, nervose”, ma anche agli affetti da paralisi, atrofie, dolori nevralgici… Tutti avrebbero potuto beneficiare di una nuova, miracolosa cura: l’Energo, il “più potente tonico, ricostituente e fortificante oggi a disposizione della scienza”.

La ditta dietro a quelle trionfali dichiarazioni, la Società degli Apparecchi Elettrogalvanici Energo, aveva sede a Torino, in via Nizza, 43. Le informazioni sul suo conto non sono tantissime. Questo è quanto siamo riusciti a mettere insieme. Se i nostri lettori avessero qualche dettaglio in più, ci farebbe piacere conoscerlo.

Ad ogni modo, si tratta di un interessante capitolo sulla pseudoscienza in salsa torinese, e vale la pena raccontarlo. 

Elettricità in scatola

L’Energoterapia nacque intorno al 1920, o forse poco prima, stando agli annunci pubblicati sui quotidiani parigini Le Petit Parisien il 24 aprile e Le Matin il 1° maggio di quell’anno. Stando a un comunicato di poco precedente, quello comparso su La Stampa il 24 aprile 1920, la ditta cercava rappresentanti per il lancio di una “importante specialità elettromedicale”. Il marchio fu depositato il 10 maggio dello stesso anno da tale M. Fabry.

All’apparenza, si trattava di una semplice scatola in legno di dimensioni ridotte (36 x 27 x 27 centimetri) e del peso di una ventina di chili. All’interno, si trovava una batteria di dodici pile, capace di fornire una corrente continua pari a 18 Volt. Completava il tutto un quadrante su cui si trovavano tre cursori: in alto un reostato (cioè una resistenza variabile) permetteva di passare da una corrente debole a una più forte. A sinistra un amperometro a lancetta indicava l’intensità di corrente che stava passando in quel momento. A destra si trovavano due perni, che fungevano da poli del generatore (anodo e catodo). In mezzo a loro, un interruttore permetteva di invertirne la polarità. 

A quei due perni andavano collegati due cordoncini, a cui venivano attaccati alcuni degli elettrodi forniti in dotazione con la macchina. Posizionandoli su parti diverse del corpo, si poteva far passare nel malato una blanda corrente elettrica, di pochi milliAmpère. Tra gli elettrodi forniti c’era quello per i piedi, quello per la nuca, un elettrodo “a manico” che poteva essere appoggiato in punti diversi del corpo e un altro “per bagno”, da inserire in una bacinella piena d’acqua. A parte quest’ultimo, gli altri venivano fatti aderire alla pelle tramite tamponi imbevuti di acqua salata, ottimo conduttore di elettricità.

Facendo passare la corrente nel corpo del paziente, secondo la ditta produttrice era possibile rinvigorirsi e superare qualsiasi malattia.

La cura Energo intensifica […] la vitalità dell’organismo rendendolo, se sano, maggiormente capace di compiere le sue naturali funzioni, e dandogli maggiore vigore per l’espulsione del morbo, se ammalato.

Cartolina tedesca che pubblicizza una macchina molto simile all’Energo, inizio Novecento (da qui)

Breve storia dell’elettroterapia

L’idea che l’elettricità fosse legata alle forze vitali dell’individuo – e, quindi, alla sua salute – era antica. Già ai tempi delle polemiche tra Alessandro Volta (1745-1827) e Luigi Galvani (1737-1798), quest’ultimo, sperimentando gli effetti dell’elettricità su rane morte, ipotizzò l’esistenza di un “fluido elettrico” negli animali che si originava nel cervello, si propagava nei nervi e si accumulava nei muscoli. Da qui a pensare che questo avesse a che fare con la “forza vitale” dell’individuo e quindi con la sua salute, il passo era breve.

Galvani inaugurò una feconda stagione di studi sull’elettrofisiologia. Scienziati come il tedesco Christian Gottlieb Kratzenstein (1723-1795), l’inglese John Wesley (1703-1791) e l’italiano Giovanni Aldini (1823–1824), nipote di Galvani, promossero l’uso dell’elettricità per le affezioni più disparate. Sull’elettroterapia si concentrarono gli sforzi e le speranze di medici, pazienti, inventori ma anche dei ciarlatani. Un precursore di quest’ultima categoria fu James Graham, inventore del “letto celestiale”: costui allestì un vero e proprio tempio della salute a Londra dove i pazienti potevano rilassarsi, ammirare i nuovi ritrovati della medicina e recuperare la virilità perduta su un “letto celestiale” con testiera magnetica (1775). Anche Franz Mesmer (1734-1815) riutilizzò a suo modo gli esperimenti di Galvani per ipotizzare l’esistenza di un “magnetismo animale”, un fluido che permeava il corpo di ogni creatura vivente e sul quale si poteva agire con tecniche apposite.

Mentre la fisica correva (in poco tempo furono inventate la pila, i condensatori, i primi parafulmini…) e mentre le scienze naturali scoprivano l’influenza dell’elettricità su numerosi fenomeni chimici e meteorologici, anche le pseudoscienze procedevano per conto loro. Per tutto l’Ottocento e nella prima metà del Novecento furono brevettate parecchie macchine che avrebbero dovuto in qualche modo sanare i malati ripristinandone l’energia elettrica perduta. Potete vederne qui e qui alcuni esempi.

Tra gli apparecchi più semplici ebbero un certo successo i dispositivi elettrogalvanici: batterie di pile in grado di produrre una tensione continua di 15-25 Volt, da applicare a varie parti del corpo. A volte, le batterie erano unite a formare una cintura, un braccialetto o un ciondolo, che veniva indossata dal paziente (ma ci sono stati anche i tacchi per le scarpe!). Dispositivi come la “catena Pulvermacher” erano pubblicizzati ampiamente sui giornali contro ogni tipo di malattia, dalla disfunzione erettile ai reumatismi; entrarono a tal punto nell’immaginario collettivo da essere menzionati in libri importanti come Madame Bovary:

[Monsieur Homais] si entusiasmò per le catene elettriche Pulvermacher; lui stesso ne portava una, e la sera, quando si toglieva il panciotto di flanella, la signora Homais restava abbagliata davanti alla spirale d’oro sotto cui scompariva il marito, e si sentiva raddoppiare la sua passione per quell’uomo strizzato in catene più di uno Scita e splendente come uno dei re magi.

Pubblicità di una cintura elettrogalvanica (La Stampa, 27 maggio 1904)

Pubblicizzare un miracolo

Energo apparteneva, dunque, al ricco filone di dispositivi elettrogalvanici. Ma per quali affezioni veniva consigliato? L’elenco che troviamo su La Stampa del 17 novembre 1925 è ricchissimo:

MALATTIE NERVOSE: Nevrastenia anche ribelle ad altre cure, isterismo, ipocondria, insonnia, vertigini, perdita di memoria, apoplessia, epilessia (il “malcaduco”), corea (ballo di San Vito), nevralgie facciali, dentarie, intercostali, alla testa (emicrania), tabe dorsale, ecc.
PARALISI : Emiplegia, paraplegia, afonia (perdita della voce), paralisi progressiva, agitante, infantile, ecc.
REUMATISMO ed artritismo, malattie del ricambio, gotta, obesità, rachitismo, ecc. MALATTIE DELLA DIGESTIONE: Atonia gastrica, dispepsia, digestione lenta, enterite, gastralgia, intossicazione intestinale, nevrastenia gastrica, stitichezza, emorroidi, ecc.
MALATTIE DELLA CIRCOLAZIONE : Affezioni cardiache, arteriosclerosi, zuffolamento alle orecchie, emorragie cerebrali, ecc.
MALATTIE DEGLI ORGANI GENITALI: Perdite seminali, prostatite, polluzioni, impotenza virile, impressionabilità, ecc.

È probabile che, altrove, fosse pubblicizzato anche contro il diabete e l’epilessia (sia come cura, sia come prevenzione: qui, ad esempio, era caldamente consigliato a chi aveva avuto casi di epilessia in famiglia). 

L’elenco delle affezioni, tuttavia, comprendeva anche molti sintomi lievi, aspecifici, contro cui magari poteva bastare un po’ di effetto placebo: sonnolenza, insonnia, sonni agitati, angoscia senza ragione, ronzii nelle orecchie, emicranie, pesantezza di testa, palpitazioni, formicolii, esaurimento nervoso, sangue impoverito, ottusità intellettuale (sic) (Tribuna Biellese, 1° giugno 1921).

Oltre alle virtù curative, le pubblicità su giornali e riviste mettevano in luce le qualità del prodotto: Energo era facile da usare anche per una persona digiuna di nozioni sull’elettricità. L’apparecchio aveva un anno di garanzia, ma era quasi eterno: bastava cambiare le pile all’interno, quando si erano consumate. E soprattutto, grazie all’amperometro, non si dovevano leccare gli elettrodi per capire se c’era corrente… (Rivista mensile Touring Club Italiano, giugno 1920).

Come il Proton, l’Energo veniva pubblicizzato anche tramite poster e manifesti artistici: un esempio è questo bozzetto disegnato da Abelardo Zucchi (1894-1979), in cui una donna reggeva trionfante la macchinetta elettrogalvanica circondata da belve feroci. 

Altrettanto evocativo il poster che fu disegnato da Antonio Collino, un illustratore molto attivo in quegli anni tra pubblicità, cartoline e santini: lì, un uomo, muscoloso e pieno di energia sembrava quasi prendersi gioco di una vecchietta con la sporta piena di medicine. Intorno a lui il fulmine, simbolo dell’elettricità, che andava a colpire l’apparecchio Energo

L’opuscolo

Oltre alle pubblicità sui giornali e ai manifesti, la Energo pubblicò, fin dal 1920, un opuscolo intitolato Energo terapia: guida pratica per la cura. All’epoca, gli opuscoli pubblicitari travestiti da volumetti informativi erano pratica comune: molti prodotti farmaceutici venivano commercializzati così.

A quest’opera si affiancò, a partire dal 1923, anche una Rivista di medicina naturale, che altro non era se non il libretto in formato ridotto. Trovate qui alcune immagini tratte dal secondo numero. Leggerlo è un’esperienza interessante: si può riconoscere tutto il repertorio dei moderni venditori di medicine alternative, come le “testimonianze veridiche” dei guariti, o l’uso di parole di difficile comprensione.

Al di là di queste, l’opuscolo parte in quarta con una caratteristica tipica delle pseudoscienze: il discredito della “medicina ufficiale”. I farmaci venivano bollati come veleni che non guarivano, ma che, anzi, danneggiavano il paziente: 

Stragrande infatti è il numero di ammalati deperiti ed aggravati più per le medicine assorbite che per il male in sé stesso. I prodotti chimici aggiungono alla malattia anche il fardello d’una nuova intossicazione, ed il falso benessere che essi procurano è fugace come fuoco fatuo.

Poi, ecco un classico delle armi retoriche dei ciarlatani: la medicina convenzionale “combatte solo i sintomi”, non cura le vere cause delle malattie.

Certo, nelle sue sparate contro la “chimica”, l’anonimo redattore di quella pubblicità mascherata inframmezzava alle bugie anche qualche verità. Le medicine (soprattutto a quel tempo!) avevano un sacco di effetti collaterali e a volte arrecavano pochi benefici terapeutici; la rivista aveva buon gioco a puntare il dito, ad esempio, contro il rischio di assuefazione dovuto agli oppiacei:

Ci riferiamo piuttosto alla terribile abitudine, procurata dall’uso di questi tossici, abitudine che obbliga il medico a sempre più aumentare, per lo stesso ammalato, la dose, onde ottenere il medesimo risultato. Ad un ammalato di nevralgie, ad esempio, al principio della cura bastano 5 centigrammi d’estratto d’oppio per calmare perfettamente ogni dolore. In capo a 15 giorni però, persistendo la nevralgia, non sono più sufficienti i cinque centigrammi, ma occorrerà una dose doppia e così di seguito, perché la progressione aumenta matematicamente. Non bisogna inoltre dimenticare che l’oppio, avendo solo un effetto calmante passeggiero, non influisce menomamente sul male in sé stesso. Piuttosto esso ha influenze disastrose sullo stomaco, sull’intestino e sugli altri visceri, e sul cervello! Quanta gente è al manicomio, vittima della morfina, dell’oppio!

En passant, la rivista proseguiva con una citazione che dà la misura del quadro in cui si muoveva chi era ai comandi della società Energo: anche Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia – diceva il periodico – aveva constatato i problemi della medicina e aveva scelto di rifiutare i “farmaci velenosi”.

La cura per tutte le malattie

E dunque, se le medicine non potevano curare l’uomo, che cosa mai poteva farlo? Era a questo punto che entrava in gioco un’altra caratteristica comune a tantissime teorie pseudoscientifiche: la causa unica per tutte le malattie. Questa causa era identificata nella mitica carenza di “stimolo elettrico vitale”:

Tutte le malattie a decorso cronico, qualunque sia la loro natura o sede, sono determinate da mancanza di vitalità: ciò che manca in queste malattie non è altro che forza vitale, quella forza che è inerente alla vita stessa. In altre parole la malattia cronica è sempre determinata da un rallentato ricambio per insufficienza di stimolo elettrico vitale. Per vincere dunque una malattia divenuta cronica, basta rialzare le forze naturali e ridare agli organi la forza, la tonicità, l’energia, la contrattilità.

Il discorso veniva poi esteso anche alle altre patologie, quelle acute. La rivista non si spingeva a teorizzare assurdità come l’assenza dei microbi, ma affermava convinta che, in un organismo sano, questi non erano in grado di svilupparsi. Un uomo forte, con riserve intatte di energia vitale, avrebbe trionfato contro milioni di germi. Dunque, per non ammalarsi e per guarire da qualsiasi malattia, era necessario ripristinare le energie perdute. Come? Con l’elettroterapia, ovviamente. 

Noi sappiamo, in seguito alle risultanze degli ultimi studi d’elettro-fisiologia, che le nostre cellule sono più o meno attive, più o meno esuberanti di vitalità a seconda che sono più o meno sature di fluido elettrico.  […] Tutto dimostra insomma che per restituire all’organismo la sua scemata vitalità e ripristinare il suo perduto equilibrio, basta compensare l’elettricità vitale mancante con altrettanta artificiale perfettamente identica. Da qui nacque l’elettroterapia, cioè l’applicazione dell’elettricità al trattamento delle malattie.

Naturalmente sani

Ovviamente, c’erano modi e modi per applicare l’elettricità. Quello dell’Energoterapia – ci avreste scommesso? – era il migliore in assoluto. E qui entrava in gioco una terza argomentazione tipica delle pseudoscienze: l’appello alla natura. Il metodo Energo era più efficace rispetto ad altre macchine elettriche perché era l’unico che agiva “in armonia colle leggi fisiologiche”, replicando con un apparecchio quanto avveniva in natura.

Per curare un malato – affermava la rivista – occorreva fornire correnti deboli, senza che fossero somministrati quegli shock che davano invece le macchinette della concorrenza:

[Al corpo] Bisogna fornirgli questa corrente a dosi tenui, dolci, senza esagerazioni, nella stessa identica guisa, con la quale la natura, l’eterna previdente, opera nel rigenerare l’elettricità nervosa e muscolare e nel ricostruire le cellule del nostro sangue e dei nostri tessuti man mano che vengono a mancare per il fatto stesso di vivere. […] Il nostro apparecchio non va confuso né paragonato con gli altri apparecchi galvanici dozzinali nel commercio, con pile a liquido, non trasportabili, e di nessuna efficacia, perché danno delle correnti irregolari e non graduabili. Tanto meno l’Energo va confuso colle comuni macchinette a scosse, che danno cioè corrente faradica, sempre inefficace, e spesso anzi dannosa, perché affatica i muscoli deboli e ammalati. 

Grazie a questi accorgimenti, a detta della rivista, l’Energoterapia aveva ormai trionfato. 

come tutte le novità che detronizzano le vecchie formule, essa è oggi accettata da tutti gli studiosi, da tutti i Medici intelligenti e coscienziosi del mondo intiero, che si sono inchinati all’evidenza schiacciante dei fatti.

Potenza della pubblicità! Ma la realtà, potete scommetterci, era un po’ diversa.

Funzionava?

Gli apparecchi Energo vennero venduti per quasi un decennio. È probabile che nel tempo la ditta produttrice avesse ampliato l’offerta dei suoi prodotti miracolosi: troviamo traccia, ad esempio, di un elmetto a corrente faradica (quelle che secondo la rivista non funzionavano) e di un sistema per eliminare la sordità (Odofon). La scatoletta elettrogalvanica, però, rimase il prodotto di punta dell’azienda. Su La Stampa ne troviamo tracce fino al marzo 1929, quando la ditta annunciò semplicemente di voler vendere banconi e scaffali. Dopo di che, scomparve dai radar. Possiamo immaginare che, per quella data, avesse già cessato la produzione. 

Il principio alla base dell’Energo non è altro che la riproposizione di antiche concezioni vitalistiche: la malattia è una mancanza di una forza vitali, che solo l’elettricità può ripristinare. Si tratta di idee prive di alcuna validità scientifica. Come per molte medicine alternative, piccoli miglioramenti dovuti all’effetto placebo potrebbero aver forse giovato a qualche paziente, magari con disturbi non troppo gravi. Dubitiamo molto, invece, che possa aver aiutato chi soffriva di diabete o di rachitismo.

Oggi l’elettroterapia è ancora utilizzata in alcune branche della medicina, ma con campi di applicazione (fisioterapia, elettrostimolazione) assai più limitati rispetto a quelli per cui veniva pubblicizzato il nostro apparecchio elettrogalvanico. In alcuni siti (questo del Fondo per gli Studi di Storia della Scienza di Pesaro, ad esempio) l’Energo è considerato un precursore degli apparecchi per ionoforesi. Con questo termine (letteralmente, “trasporto di ioni”) si indica una tecnica medica che permette a un paziente di assumere farmaci per via cutanea: applicando la sostanza sulla cute e poi agendo con gli elettrodi, è possibile trasportare il principio attivo all’interno del corpo. Potremmo definirla, in sostanza, un’iniezione “senz’ago”. Il trattamento ha comunque diversi limiti (peso, grandezza molecolare e ionizzabilità del farmaco influiscono molto sull’efficacia e la praticabilità).

Considerare l’Energo come l’antenato della ionoforesi è però un po’ troppo generoso. Pur utilizzando entrambi elettrodi e un generatore elettrico a corrente continua, il meccanismo di funzionamento era ben diverso: la ionoforesi serve a far assumere al paziente un principio attivo; la nostra macchinetta miracolosa avrebbe dovuto invece curare senza alcun farmaco, con la sola forza dell’elettricità. 

Il che era davvero pretendere un po’ troppo.