26 Aprile 2024
Approfondimenti

No, la NASA non ha speso miliardi per sviluppare una penna spaziale

Torna periodicamente a galla (per esempio qui e qui) una vecchia leggenda metropolitana secondo cui all’epoca delle prime missioni spaziali la NASA impiegò dieci anni e centinaia di milioni di dollari, se non miliardi, per sviluppare una penna antigravitazionale che potesse funzionare nello spazio e a temperature estreme, mentre i russi trovarono una soluzione elegante ed economica al problema… portandosi dietro delle matite.

Questa leggenda è una classica “idea zombi” che continua a circolare da più di vent’anni nonostante sia stata smentita un sacco di volte. Esaminarla di nuovo non servirà certamente a metterla a riposo una volta per tutte, ma ci potrà insegnare qualcosa sulla corsa allo spazio

Per cominciare, è vero che le normali penne a sfera funzionano male senza l’aiuto della gravità, come sa chiunque abbia provato a fare le parole crociate da sdraiato. A causa di questo inconveniente, nelle prime missioni spaziali tanto gli americani quanto i sovietici si portarono delle matite. Gli americani usavano normali matite meccaniche con una micromina in grafite, che però si rompeva spesso e poteva finire negli occhi degli astronauti o nelle apparecchiature elettroniche, causando un corto circuito. I sovietici usavano pastelli a cera, che non si rompevano facilmente, ma scrivevano male e lasciavano comunque detriti fastidiosi. Entrambi gli oggetti erano infiammabili e quindi fonte di gravi rischi, come i russi impararono con l’incidente di Bondarenko e gli americani con quello dell’Apollo 1.

Nel 1965 l’ingegnere americano Paul Fisher brevettò una “penna spaziale”, sviluppata di propria iniziativa e con fondi privati (circa un milione di dollari), dotata di una cartuccia pressurizzata che permetteva di scrivere da qualunque angolazione e nello spazio, di un inchiostro resistente all’evaporazione e poco infiammabile e di una sfera di precisione in carburo di tungsteno che evitava le perdite di inchiostro. Ne consegnò alcuni campioni alla NASA, che li collaudò per l’uso spaziale e ne approvò una versione migliorata nel 1967.

Alla fine del 1967 la NASA ordinò 400 penne spaziali al prezzo scontato di 2,95 dollari ciascuna, e presto anche l’agenzia spaziale russa ne acquistò 100. Nel 1969 entrambe le agenzie avevano iniziato a usarle, e Fisher sfruttò questo successo commerciale nella pubblicità della penna spaziale, che continua ancora oggi (chiunque ne può acquistare una versione attuale a partire da 16 dollari). Come ha spiegato recentemente il cosmonauta Sergei Kud-Sverchkov, non solo gli americani ma anche i russi continuano a usare tuttora la penna spaziale, oltre a matite automatiche con la mina spessa e pennarelli.

L’astronauta Walter Cunningham con la sua “penna spaziale” sull’Apollo 7 ©NASA

Non c’è dubbio che la leggenda sia falsa. Ma come è nata e perché continua a essere diffusa? Penso che abbiano contribuito diversi fattori.

Qualsiasi prodotto “qualificato per lo spazio”, cioè estesamente collaudato per dimostrare di poter sopravvivere nel difficile ambiente spaziale, costa molto di più del suo equivalente terrestre. Nel 1965 la notizia che la NASA aveva pagato 34 matite qualificate per lo spazio al prezzo di circa 130 dollari l’una provocò l’accusa di avere sprecato denaro pubblico. Gli investimenti fatti dagli americani per recuperare lo svantaggio iniziale nei confronti dei sovietici furono ingenti e al culmine della corsa allo spazio il peso della NASA sul bilancio federale era molto più alto di oggi (anche se sempre minuscolo rispetto a quello delle spese militari).

Dall’altra parte i russi, al netto della propaganda sovietica, sapevano in effetti compensare l’arretratezza tecnologica e le minori risorse economiche impegnate nel programma spaziale con l’inventiva e il pragmatismo.

A differenza degli americani i russi non potevano contare sull’aiuto dell’inventore delle V-2 Wernher Von Braun e dei suoi più stretti collaboratori. Avevano però ottimi matematici e ingegneri, ottimamente guidati da Sergej Korolëv, il “costruttore capo”, un genio non solo nel trovare soluzioni alla portata dell’industria russa, ma anche nel destreggiarsi tra le idiosincrasie e i rischi mortali dell’ambiente politico sovietico.

Ironicamente il vantaggio iniziale dell’Unione Sovietica nella corsa allo spazio fu propiziato dall’arretratezza della sua tecnologia militare. La bomba russa all’idrogeno pesava oltre cinque tonnellate e i russi grazie a Korolëv riuscirono a sviluppare un razzo che fosse in grado di trasportare quel carico a distanze intercontinentali, l’R-7.

Gli scienziati di Los Alamos riuscirono invece a sviluppare una bomba all’idrogeno “miniaturizzata” molto più leggera e il loro primo missile balistico, l’Atlas, pronto due anni dopo l’R-7, era quattro volte meno potente. Quando americani e sovietici iniziarono i loro missili per mandare esseri umani nello spazio, i secondi avevano un vantaggio sostanziale che durò fino a metà degli anni Sessanta.

Anche la forma delle capsule per il rientro in atmosfera degli astronauti e dei cosmonauti fornisce un esempio del pragmatismo russo. Le capsule americane avevano la forma di un tronco di cono con la protezione termica posta sotto la base. Questa scelta aveva dei vantaggi ma richiedeva un complicato sistema di controllo di assetto con piccoli motori a razzo per garantire che la base del veicolo fosse sempre orientata verso la direzione del moto. In caso contrario la capsula sarebbe stata incenerita dal calore infernale sviluppato dall’attrito con l’aria. Le capsule russe avevano invece la forma di una sfera e la maggior parte del peso collocata sotto l’astronauta faceva sì che si ponessero automaticamente nella posizione corretta, senza bisogno di controllo di assetto.

I risultati ottenuti dai sovietici sono ancora più impressionanti se si pensa che fino al 1969 i loro veicoli spaziali non avevano computer digitali, ma solo calcolatori elettromeccanici dalle possibilità ben più limitate.

I successi iniziali dei russi nella corsa allo spazio nonostante la supremazia tecnologica e i grandi investimenti degli Stati Uniti furono uno shock per l’opinione pubblica americana e prepararono il terreno per la diffusione della leggenda. Come spesso accade nelle leggende metropolitane, la diffusione è favorita da un messaggio morale di fondo, in questo caso di superiorità del buon senso rispetto all’ottusità della burocrazia: forse anche noi, con un po’ di saggezza contadina, potremmo avere un’idea migliore dei cervelloni della NASA con tutti i loro soldi. Infine la leggenda forniva a coloro che contestavano il capitalismo e sostenevano il sistema sovietico una piccola occasione di rivincita nei confronti dei loro avversari ideologici. Forse non è un caso se la leggenda è ricomparsa nell’epoca in cui la guerra in Ucraina è tornata a contrapporre la Russia ai Paesi occidentali.

Andrea Ferrero

Ingegnere, lavora presso un’importante azienda aerospaziale italiana. Ha partecipato al progetto di moduli abitati della Stazione Spaziale Internazionale e di satelliti per osservazione terrestre. È coordinatore nazionale del CICAP.

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