L’alba dell’omeopatia: la lunga storia di una pseudoscienza di successo
Paola Panciroli è nata a Parma nel 1991. Si è laureata in Scienze Filosofiche all’Università di Bologna con una tesi in Storia del pensiero scientifico incentrata sullo sviluppo dell’omeopatia in Italia, da cui è nato il suo volume 200 anni di omeopatia: storia di un equivoco? Si interessa di bioetica e di storia della medicina, con particolare riguardo all’evoluzione storica dei rapporti tra medicina scientifica e medicine alternative. Docente di scuola secondaria, ha collaborato con la cattedra di bioetica dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Oggi è dottoranda in Beni Culturali, Formazione Territorio presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. In occasione della Giornata mondiale dell’omeopatia, che ricorre il 10 aprile, Sofia Lincos l’ha intervistata per noi.
L’omeopatia nasce e si sviluppa nel corso dell’Ottocento da Samuel Hahnemann. Puoi dirci qualcosa di più sugli esordi?
L’omeopatia venne fondata a cavallo tra Settecento e Ottocento da Samuel Hahnemann, un medico tedesco che, come molti suoi colleghi del tempo, era fortemente disilluso nei confronti delle capacità curative della medicina. Hahnemann non aveva tutti i torti: nonostante gli sviluppi nei campi dell’anatomia, della patologia e della clinica, la terapeutica era ancora segnata da mezzi invasivi e dannosi. In seguito alla lettura e alla traduzione del Trattato di Materia Medica di Cullen e alla sperimentazione su se stesso della china per comprenderne più a fondo le proprietà antifebbrili, Hahnemann arrivò nel 1796 ad affermare il principio di similitudine, secondo cui il simile si cura con il simile. Si trattava di un’idea già diffusa in ambito medico e popolare, in cui spesso l’uso di rimedi a base di erbe si rifaceva a ragionamenti di tipo analogico: per esempio erbe e radici di colore giallo erano indicati per l’ittero. La sua opera principale, l’Organon, risale però al 1810. È al suo interno che viene presentato il secondo principio dell’omeopatia, quello delle dosi minime, secondo il quale la sostanza curativa dev’essere diluita varie volte in un rapporto di 1 a 100 con un solvente. Nella sesta e ultima edizione del 1842 Hahnemann avrebbe introdotto anche le cosiddette diluizioni cinquantamillesimali (1:50.000).
In cosa consisteva il vitalismo, la corrente cui Hahnemann si ispirava? Leggendo l’Organon oggi, ci sono idee e concetti che risultano ormai datati o fuorvianti?
Il vitalismo è una corrente di pensiero nata in Francia nella seconda metà del Settecento, con l’intento di spiegare il funzionamento degli organismi viventi ricorrendo a un principio intermedio tra materia e anima: la forza vitale. Essa era considerata una proprietà fisico-fisiologica della materia. Per comprendere la concezione dell’organismo, della salute e della malattia espresse da Hahnemann è indispensabile fare riferimento alla corrente vitalistica e ai suoi sviluppi in epoca romantica. Hahnemann riteneva, infatti, che salute e malattia corrispondessero rispettivamente a uno stato di equilibrio e di squilibrio della forza vitale immateriale, per agire sulla quale era indispensabile che le stesse sostanze curative assumessero una forma dinamica e immateriale, per mezzo delle diluizioni. Per spiegare l’azione dei rimedi diluiti Hahnemann si rifaceva a fenomi naturali come l’attrazione gravitazionale e il magnetismo, le cui azioni si dispiegavano senza bisogno di supporti materiali. Il medico tedesco riteneva inoltre che la patologia, espressa attraverso i sintomi, fosse unica per ogni individuo e che, di conseguenza, dovesse esserlo anche la cura.
Ovviamente i concetti espressi nell’Organon, dalla visione dell’organismo all’idea che le malattie non siano suscettibili di classificazione, non corrispondono più al nostro modo di pensare e possono essere compresi solo collocando l’opera nel contesto culturale e scientifico di duecento anni fa.
Qual era lo stato della medicina “convenzionale” all’epoca?
Come anticipato, la medicina dell’epoca si caraterizzava per alcuni avanzamenti. Basti pensare all’opera di Morgagni, con cui veniva fondata la moderna patologia, ovvero l’indagine delle malattie post mortem attraverso lo studio e l’osservazione degli organi. Ulteriori avanzamenti, in campo clinico, erano rappresentati dall’auscultazione e dall’invenzione dello stetoscopio nel 1816, con cui diventava possibile indigare più approfonditamente i sintomi di alcune patologie. Di fatto, però, la medicina difficilmente riusciva a curare: le indagini in campo clinico e patologico non avevano ancora ricadute terapeutiche. Questa era proprio una delle critiche che Hanemann muoveva alla medicina del tempo: riteneva infatti che il suo compito fosse curare i pazienti, non indagare le cause delle malattie dopo la loro morte. Così, la terapeutica continuava ad appoggiarsi al modello galenico dei quattro umori e all’uso di mezzi “eroici” come salassi, purganti, vomitivi e di sostanze debilitanti come oppio, mercurio ecc…
In quel periodo muovevano anche i primi passi i vaccini, in particolare l’antivaiolosa di Edward Jenner. Come fu presa questa novità dai seguaci dell’omeopatia?
Il vaccino antivaioloso venne accolto da Hahnemann positivamente. Il medico tedesco, infatti, in assenza di spiegazioni scientifiche sulla sua efficacia, riteneva che il funzionamento della vaccinazione si basasse proprio sul principio di similitudine. Nessun riferimento veniva fatto al tema dell’assenza di diluizioni secondo le regole stabilite nell’Organon. Questa posizione ambigua avrebbe portato gli omeopati ad assumere nel corso del tempo visioni eterogenee sul tema del vaccino. Se si prende in considerazione il caso italiano, gli omeopati non adottarono mai nel corso dell’Ottocento un atteggiamento antivaccinista. Addirittura alcuni di essi ricoprirono ruoli formali nelle commissioni di vaccinazione. Solo a partire dalla metà del secolo, in concomitanza con un dibattito nazionale e internazionale sulla sicurezza dei vaccini, avanzarono l’ipotesi di un vaccino per bocca diluito, che evitasse i rischi connessi all’inoculazione di braccio in braccio, con la quale si poteva facilmente trasmettere la sifilide.
Da questo punto di vista il movimento pro-omeopatia sembra aver un po’ cambiato idea, viste le recenti posizioni no-vax di diverse associazioni di settore. Ci sono altre cose su cui l’atteggiamento dei seguaci dell’omeopatia è cambiato?
L’omeopatia nel corso del tempo ha subito svariate rielaborazioni e, pur non avendo abbandonato i due principi fondamentali di similitudine e delle diluizioni, ha rinunciato a molti costrutti teorici e filosofici su cui le sue leggi si basavano. Per esempio, ha progressivamente accolto, già nel corso dell’Ottocento, una visione classificatoria e materialistica delle malattie. Molti omeopati (non tutti) collocavano determinati disturbi in organi specifici, senza più particolari riferimenti alla forza vitale. Anche per quanto riguarda la pratica odierna, si può affermare che gli omeopati non adottino più una visione individualizzata della cura paragonabile a quella di Hahnemann. I rimedi omeopatici in questo senso hanno subito una sorta di standardizzazione, parallelamente all’accoglimento di una visione classificatoria delle patologie. Ne è un esempio l’oscillococcinum impiegato per gli stati influenzali.
Tra i successi dell’omeopatia, molti citano il suo impiego nelle epidemie di colera che flagellarono l’Ottocento. Ci dici qualcosa di più?
L’omeopatia si diffuse in Italia soprattutto durante l’epidemia di colera di metà Ottocento. Il colera era una malattia sconosciuta, giunta dall’India in Europa a inizio secolo. Se ne ignoravano le cause e, oltre ai mezzi preventivi dell’isolamento e della disinfezione (oggi a noi ben noti), la medicina ricorreva a un ampio spettro di rimedi di tradizione galenica. Di fronte all’uso di clisteri, salassi, purganti ecc… il ricorso ai rimedi omeopatici appariva ben più allettante e sicuramente meno dannoso. Una curiosità è data dal fatto che il rimedio più diffuso in Italia, a base di canfora, non era diluito. Su questa evidente contraddizione rispetto ai principi fondamentali dell’omeopatia non mancarono ovviamente le polemiche.
Quando si è cominciato a capire che l’omeopatia non funzionava? E, soprattutto, come?
L’idea che i successi dell’omeopatia fossero da ridimensionare rispetto a quelli vantati dai suoi sostenitori emerse già nella prima metà dell’Ottocento, in seguito ad alcuni rudimentali tentativi di sperimentazione controllata e all’impiego delle statistiche per confrontare la mortalità di alcune cliniche omeopatiche con altre di indirizzo convenzionale. Tra le prime sperimentazioni controllate con esito negativo per l’omeopatia si possono citare quella di Napoli, di Lipsia e di Parigi, condotte tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. Interessante anche la sperimentazione di San Pietroburgo (1829), che per la prima volta vide l’introduzione di più gruppi di controllo: un gruppo curato con la medicina convenzionale, uno con l’omeopatia e uno con il placebo. Il risultato migliore? Quello del gruppo curato con il placebo, cioè con pillole di pane, cacao e lattosio.
Come arrivò l’omeopatia in Italia? E quando?
L’omeopatia arrivò a Napoli nel 1821, al seguito delle truppe austriache chiamate da Ferdinando I, sovrano delle Due Sicile, a sedare alcune insurrezioni antiborboniche. All’interno dell’armata c’erano diversi medici omeopati e tra questi giocò un ruolo fondamentale Necker di Melnik, un medico comune, del quale non si hanno molte informazioni. Egli convertì all’omeopatia Cosmo Maria De Horatiis, medico personale di Francesco I (salito al trono nel 1825) e professore della clinica chirurgica dell’Università di Napoli. Una figura centrale per la storia dell’omeopatia in Italia, nonché promotore della sperimentazione napoletana del 1829.
Era praticata più dalle fasce alte della società o da quelle popolari?
Uno studio sistematico su quali fossero le tipologie di pazienti in Italia ancora non esiste. Certamente i legami con le famiglie nobiliari sono innegabili e hanno consentito all’omeopatia di ricevere i primi riconoscimenti, anche formali. Nicholls ha condotto uno studio sulla Gran Bretagna, nel XIX secolo, ipotizzando che il ricorso ai rimedi omeopatici definisse, insieme ad altri elementi, lo status e la posizione sociale delle elite. Attraverso legami con esponenti di fasce alte della società venivano inoltre aperti istituti e dispensari omeopatici a cui potevano accedere persone provenienti da classi basse, che diversamente non avrebbero potuto permetterselo. Esitevano, inoltre, una serie di pubblicazioni mediche di carattere popolare, le cosiddette guide domestiche (diffuse anche in Italia), che fornivano indicazioni di autodiagnosi e autocura. Il target a cui si rivolgevano era rappresentato soprattutto dalla borghesia, in particolari le madri e le mogli responsabili della salute famigliare.
C’erano specialità mediche in cui era più usata di altre?
L’omeopatia era ampiamente praticata nell’ambito della medicina generale. Già nel corso dell’Ottocento, però, trovò applicazione in ambito veterinario e sul finire del secolo in campo psichiatrico. In Italia, per esempio, il noto psichiatra e antropologo criminale Cesare Lombroso era un suo fautore.
Come influì sull’affermarsi dell’omeopatia nel nostro Paese la frammentazione in più Stati? L’unità nazionale così tarda ebbe riflessi anche in quell’ambito?
L’omeopatia si diffuse in Italia, come in altri Paesi, soprattutto grazie ai legami con il ceto nobiliare. I diversi Stati, nel corso del tempo, la riconobbero formalmente favorendone una limitata istituzionalizzazione. Per esempio, vennero fondate accademie omeopatiche (una delle prime a Palermo) e vennero aperte farmacie omeopatiche. La frammentazione politica, tuttavia, non favorì la costituzione di un’associazione nazionale di omeopati forte paragonabile, ad esempio, a quella nata negli anni quaranta negli Stati Uniti. La prima associazione nazionale di omeopati nacque in Italia solo dopo l’unificazione, senza riuscire ad ottenere legittimazioni importanti, mentre i precedenti riconoscimenti andavano progressivamente scomparendo con le nuove riforme sanitarie, promosse da un Parlamento in cui la percentuale di medici era significativa rispetto ad altre professioni.
C’è qualcosa che ci insegna o ci ha lasciato la storia dell’omeopatia?
Approfondire la storia dell’omeopatia, così come di altre medicine non convenzionali o eretiche, ci fa capire quanto nel passato i confini tra i diversi sistemi medici fossero molto più sfumati e come spesso si verificassero casi di integrazione o contaminazione. Questo porta anche a un’altra riflessione: la distinzione tra medicina scientifica e pseudomedicine è recente e non può essere applicata all’Ottocento. La nascita della medicina scientifica non si è caratterizzata infatti per un percorso lineare, segnato dalla contrapposizione tra vincitori e vinti, idee giuste e sbagliate. Piuttosto è stata segnata da una contaminazione di idee, interpretazioni, correnti filosofiche, talvolta influenze di carattere religioso o politico. Analizzare questi aspetti ci fa comprendere come tutto quello che è stato acquisito sia frutto di un percorso complesso e affascinante.