13 Ottobre 2024
Giandujotto scettico

Trentuno, morto che parla

Giandujotto scettico n° 83 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (25/02/2021)

Voci, leggende metropolitane, dicerie: ingredienti fondamentali di molte serate al bar, oggi come nel 1931. Intorno al febbraio di quell’anno i “si dice” si concretizzarono nel salotto di un caffè di Torino, all’angolo tra via Milano e via Corte d’Appello. Tutti, là dentro, parlavano di un fatto macabro e meraviglioso, appena avvenuto nella sala anatomica degli Istituti di Medicina Legale: un “morto” si era risvegliato sul tavolo dell’obitorio!

Ce ne era abbastanza da suscitare la curiosità del maggiore giornale cittadino. E così, un cronista de La Stampa andò sul posto a indagare: il divertente resoconto comparve (non firmato) nell’edizione del 3 febbraio 1931. Ecco i fatti:

Un operaio trovato assiderato sulle sponde della Dora, e dichiarato defunto, sarebbe stato trasportato al Valentino (l’Istituto di medicina legale si trovava in via Michelangelo, a ridosso del parco, NdA) e deposto sul tavolaccio, fra due altri cadaveri. Il “morto” era sporco di terriccio e sulla faccia conservava ancora un sottile strato di brina, e perciò il custode, servendosi di una spugna che aveva immersa in un mastello di acqua calda, si era accinto a pulirlo. Con suo grande spavento il “morto” sottoposto a quel massaggio si era mosso ad un tratto, aveva aperto gli occhi e facendo forza sui gomiti si era seduto sul tavolato volgendo in giro uno sguardo esterrefatto.

Il custode, che era abituato a trattare con soggetti docili che si lasciavano voltare e rivoltare, e perfino squartare senza aprire bocca, davanti a quell’originale, che si comportava in modo così diverso dagli altri morti, era rimasto allibito, senza neppure aver la forza di fuggire. Egli sapeva di aver la porta alle spalle e altro non desiderava se non di giungervi, nella tema di venir afferrato dal “defunto”, ma le sue gambe erano diventate come di piombo. In contrasto con la sua volontà, egli era rimasto inchiodato sul posto, con la gola contratta, impossibilitato a gettare un sol grido.

Questo, almeno, è quanto avevano raccontato gli avventori del bar al cronista, condendo il tutto con considerazioni sull’emozione dell’uomo risvegliatosi in mezzo a “veri cadaveri”, e su quella del custode, che davvero non aveva mai visto un caso tanto strano. Ma loro, come avevano fatto a saperlo? E come mai ne erano tanto sicuri? Tanto per cominciare – avevano spiegato – non era la classica storiella anonima impossibile da verificare; anzi, dell’uomo si faceva nome e cognome: Giovanni Bellato, il novello Lazzaro, che abitava in un complesso di case popolari a Torino e dopo il fattaccio era rimasto per un qualche giorno a curarsi in ospedale.

A confermare la vicenda, poi, c’era un testimone: un falegname, amico del Bellato, che aveva visto la salma nella cassa, mentre questa veniva trasportata al Valentino. Una settimana dopo, mentre mangiava una pastasciutta in una trattoria della zona, ecco che gli era apparso il morto: il falegname era impallidito, aveva gridato, fatto gli scongiuri, implorato il defunto perché “tornasse nel regno delle ombre e lo lasciasse mangiare in pace”. Ci era voluto parecchio a convincerlo che non era un fantasma, ma il suo amico redivivo.

Un moderno giornalista forse avrebbe semplicemente riportato l’episodio: ma erano tempi diversi, anche i ritmi della cronaca erano più rilassati, e c’era il tempo per fare un po’ di fact-checking in più. E così il cronista si mise a caccia del resuscitato – scoprendo, però, che le cose non erano proprio come gli erano state raccontate:

Al giornalista interessava di poter parlare direttamente col “morto”, raccogliere da lui le sue particolari sensazioni quando quando, ritornando in vita, si era trovato nudo, su di una lastra di marmo in poco piacevole compagnia di cadaveri. Intanto alle case popolari, dove abita il Bellato, il cronista non riusciva a trovarlo. Poteva solamente parlare con la portinaia la quale assicurava che l’operaio, il quale abita solo, era regolarmente rincasato tutte le sere, ad ora più o meno avanzata. Un’assenza di oltre una diecina di giorni (dopo il suo ritorno alla vita l’uomo sarebbe stato curato in una clinica) non avrebbe potuto certo passare inosservata.

La storia iniziava a scricchiolare. Ma esisteva ancora un testimone da interrogare, molto più facile da trovare del redivivo: il custode degli Istituti del Valentino. Il cronista si recò anche lì, e ne uscì ancora più perplesso. Aveva raccontato la storiella del resuscitato, e il suo interlocutore aveva faticato a non scoppiargli a ridere in faccia. Gli rilasciò questa dichiarazione:

Un “morto” che parte da questo luogo con le sue proprie gambe è una cosa veramente eccezionale. Di qui i morti se ne vanno tutti, ma solamente col carro che li porta al cimitero, e non in diverso modo! Si tratta evidentemente di un uomo che ha fatto un brutto sogno, che per lui ha preso tutti i caratteri della realtà!

Insomma, niente morto, niente custode paralizzato dalla paura, niente resurrezione. Erano solo voci, dicerie, leggende metropolitane. Di quelle che circolano nei caffè, magari per burla, sotto Carnevale (quell’anno, Martedì Grasso cadeva proprio il 9 febbraio). Su come fossero sorte, il giornalista de La Stampa aveva una sua teoria:

Nell’epoca in cui sarebbe avvenuto il fatto i cui particolari, passando di bocca in bocca, sono giunti fino a noi, La Stampa aveva pubblicato, in una corrispondenza dall’Austria, il drammatico episodio di una servetta colpita da morte apparente e risuscitata di notte nella camera mortuaria del cimitero, dalla quale era uscita urlando, per correre come una pazza tra le lapidi e le croci del camposanto.

Il custode di quel sacro recinto affacciatosi alla finestra aveva veduto quel bianco fantasma e in preda ad un folle spavento, non sapendo come contenersi, aveva preso di mira lo “spirito” con un fucile e aveva sparato. Che questo macabro racconto degno della penna di Edgard Poe, sia stato letto dall’operaio mentre si trovava in uno speciale stato di animo e abbia influito sulla sua fantasia fino a persuaderlo, di esser stato egli stesso protagonista di un episodio analogo? Si tratterebbe in questo caso di un importantissimo caso di suggestione.

Il riferimento ad Edgar Allan Poe è al suo The premature burial (La sepoltura prematura), uscito nel 1844 come parte dei Racconti del terrore, che colleziona diverse storie morti apparenti: la fama di Poe era vivissima anche da noi (e infatti lo troviamo citato in altri casi misteriosi piemontesi, come il furto di tibia).

La voce che circolò a Torino è un esempio relativamente tardo della paura di venir sepolti vivi, diffusissima nell’Ottocento: un timore che si faceva più acuto in tempi di epidemie, e che circolava accompagnato da controversie mediche, aneddoti, riferimenti letterari e racconti più o meno inventati di sana pianta. Nel 1931, i criteri diagnostici per l’accertamento della morte, uniti alla professionalizzazione e alla razionalizzazione dei rituali del seppellimento, stavano rendendo meno attuali queste dicerie: eppure, storie come quella che vi abbiamo raccontato continuarono ad essere abbastanza frequenti almeno per tutti gli anni ‘50. Solo più tardi cominciarono a sbiadire.

Quanto alla vicenda austriaca che avrebbe influenzato la voce torinese, è un piccolo mistero: una storia di morte apparente comparve in effetti sul Neues Wiener Journal, uno dei maggiori quotidiani del Paese, il 16 gennaio 1931, e nei giorni successivi fu oggetto di polemiche infinite sulla sua veridicità. Venne ripresa su La Stampa il 20 gennaio e ambientata nella città tedesca di Costanza, al confine con la Svizzera, mentre in realtà i giornali viennesi dicevano fosse avvenuta a Bregenz (a meno di 100 chilometri di distanza, ma in territorio austriaco). Il guaio è che non parla di una servetta uccisa dal custode perché, uscita dalla tomba, si aggirava al cimitero, ma di un garzone svegliatosi dalla bara, fra il terrore di familiari e altre persone. Non si trovano tracce di altri redivivi sulla Stampa di quei giorni.

Forse il giornalista aveva fatto confusione: aveva mescolato due racconti di morti apparenti, portando in primo piano quello più tragico, che si concludeva con l’uccisione del “resuscitato”. Era, questa, una vicenda che probabilmente si trovava nel repertorio delle leggende metropolitane dell’epoca, e ogni tanto si riaffacciava sui giornali. A confermarlo è il fatto che una replica esatta di quegli avvenimenti venne pubblicata dai quotidiani… ben diciassette anni dopo.

Il 9 maggio del 1948, infatti, L’Illustrazione del Popolo – che poi era il settimanale della Gazzetta del Popolo torinese – raccontò un episodio con dettagli del tutto simili, ma ambientato a Cape Town (la principale città del Sudafrica). L’Illustrazione del Popolo gli dedicò addirittura la copertina, disegnata da Mario D’Antona. La didascalia recitava:

La doppia morte. Una signora, ritenuta morta e deposta nella camera ardente del cimitero di Capetown, si risvegliò nella bara aperta e si diede alla fuga vestita del solo sudario; ma un guardiano che la scambiò per un fantasma le sparò contro uccidendola.

Per quanto riguarda il nostro Paese, uno fra gli ultimi racconti del genere (frutto, come nel caso torinese, di voci e paure) apparve sui quotidiani alla fine del 1964. Sembrava che un uomo di 45 anni, morto all’ospedale di Campobasso dopo un intervento chirurgico e portato alle camere mortuarie del cimitero cittadino, fosse stato trovato dai familiari voltato di lato e con il volto segnato da graffi ed escoriazioni (tanto da far pensare che si fosse svegliato e poi fosse morto definitivamente di paura).

I Carabinieri svolsero indagini presso il custode, ma nulla emerse a corroborare la storia. Furono anche smentite le dicerie secondo cui, quella notte, la campanella della camera mortuaria aveva suonato con lugubri rintocchi… (La Stampa, 1° dicembre 1964). Dopo gli ulteriori accertamenti medico-legali, l’uomo fu sepolto senza ulteriori complicazioni.

Forse, con lui, si diede addio anche alla paura di esser sepolti anzitempo, ancora vivi, e di ritrovarsi a dover grattare le pareti di una bara. O, perlomeno, a dover suonare di notte una campanella in un edificio presso il Valentino, nel cuore di Torino.

Foto di Daniel Jensen da Unsplash