30 Ottobre 2024
Approfondimenti

Ma la vitamina D serve davvero contro la Covid-19? Facciamo ordine!

articolo di Antonio Crisafulli, medico, professore associato di Fisiologia umana

L’integrazione con vitamine è una pratica abbastanza diffusa in medicina. Sono tantissimi i composti a base di vitamine (A, B, C, D, E…) prescritti dai medici oppure venduti come prodotti da banco o come integratori alimentari. Tuttavia, non sempre l’assunzione di supplementi di vitamine ha portato ai risultati sperati. Ne è un buon esempio l’uso di betacarotene (precursore della vitamina A) somministrato in passato come antiossidante in pazienti oncologici. L’utilizzo di questa vitamina è stato sospeso in alcuni trial clinici perché i pazienti affetti da tumore al polmone, a cui venivano somministrati, avevano una prognosi peggiore rispetto a quelli di un gruppo di controllo.

Da ciò si intuisce quanto la complessità delle interazioni e dei processi biologici e metabolici rendano non facilmente prevedibili a priori gli esiti delle terapie farmacologiche. Questo è uno dei motivi per cui i trial clinici sui farmaci prevedono sempre un gruppo di controllo a cui viene somministrata una terapia di cui sia nota l’efficacia, oppure, in mancanza di questa, un placebo. Non è detto che ciò che funziona in teoria o in laboratorio funzioni poi in pratica nell’individuo in toto; per cui l’unica vera dimostrazione dell’efficacia di un farmaco o di un integratore è la misura diretta dei suoi effetti nei pazienti.

Durante la pandemia in corso dovuta al SARS-CoV-2, si è assistito con cadenza quasi quotidiana alla scoperta di soluzioni “miracolose” per l’infezione da coronavirus. Talvolta, tali scorciatoie sono state proposte anche dal mondo della ricerca scientifica con pubblicazioni di articoli in riviste più o meno autorevoli. I mass media e i social hanno poi contribuito all’amplificazione di messaggi spesso fuorvianti sulla presunta efficacia di alcune terapie, enfatizzando spesso gli esiti positivi e tralasciando frequentemente i limiti e gli esiti negativi delle sperimentazioni. Ne sono un esempio l’idrossiclorochina, la lattoferrina, l’eparina, l’ozono, il favipiravir … Questa lista è ovviamente per difetto, ma nessuno di questi farmaci ha raggiunto un’evidenza clinica di efficacia tale per cui ne sia stato raccomandato l’utilizzo sistematico nei pazienti con COVID-19.

Anche alcune vitamine sono state proposte come “utili” per combattere l’infezione da SARS-CoV-2. In questo caso ne è un esempio la vitamina C. Ultimamente poi sembra andare molto di moda la vitamina D. Ma ci sono reali evidenze scientifiche riguardo la sua efficacia? Prima di analizzare queste evidenze, diamo alcune informazioni generali su questa vitamina. La vitamina D è una vitamina liposolubile, cioè si scioglie bene nei grassi e poco nell’acqua, proprio come gli oli alimentari. Il nostro fegato è in grado di accumularne una discreta quantità, per cui non è di norma necessaria la sua assunzione regolare ad ogni pasto se il fegato ne ha fatto scorta. Questa vitamina si trova in natura in diverse forme, ma le più importanti per l’uomo sono la vitamina D3 (nota anche come colecalciferolo) e la D2 (ergocalciferolo). Normalmente con il termine generale di vitamina D si indicano entrambe le forme, che hanno circa la stessa attività nell’uomo. Gli organismi animali sono in grado di sintetizzare da soli la vitamina D3, mentre la vitamina D2 è presente nei vegetali. Le principali fonti alimentari per l’essere umano sono alcuni pesci grassi (per esempio il merluzzo), il latte e i suoi derivati, le uova, alcune carni (il fegato in particolare) e le verdure verdi. Se si è esposti ai raggi solari, buona parte della vitamina D necessaria al nostro organismo è sintetizzata nella cute a partire dal suo precursore 7-deidrocolesterolo che, sotto l’azione dei raggi solari, diventa vitamina D3. La quantità presente nel nostro organismo dipende dunque da quanta ne assumiamo con il cibo e da quanta ne produciamo nella pelle. Quest’ultima quantità dipende a sua volta dall’esposizione ai raggi solari.

Il fabbisogno giornaliero di vitamina D varia a seconda dell’età e della situazione del soggetto. È infatti maggiore nei bambini e nelle donne in gravidanza e allattamento. Per quanto riguarda la quantità presente nel sangue, un livello inferiore ai 20 ng/mL è considerato come insufficiente, tra i 20–30 ng/mL ci troviamo di fronte ad una situazione al limite della normalità, mentre un livello al di sopra di 30 ng/mL è giudicato sufficiente per le normali funzioni del nostro organismo. C’è tuttavia da considerare che livelli insufficienti o al limite del normale sono trovati spesso nelle popolazioni che vivono nei paesi nordici, negli anziani, in alcune categorie di pazienti (diabetici ed obesi in particolare) e nei pazienti ricoverati o allettati da lungo tempo [1].

Ma a cosa serve la vitamina D?

Più o meno tutti sanno che ha un ruolo fondamentale nel metabolismo del calcio e nella calcificazione delle ossa. La sua carenza causa infatti rachitismo e osteomalacia, condizione quest’ultima che porta a facilità alle fratture. Meno noto è il fatto che la vitamina D eserciti anche un’azione antiinfiammatoria e che un suo deficit sia implicato in alcune patologie autoimmuni, cardiovascolari e nel diabete mellito. Inoltre, ridotti livelli di vitamina D nel sangue sono stati correlati con una ridotta risposta immunitaria alle infezioni. Nello specifico, un suo deficit è stato associato ad una maggiore sensibilità al virus influenzale e alle infezioni del tratto respiratorio in genere. Non solo, alcuni studi hanno riportato che la sua integrazione sia utile nel ridurre la gravità e la mortalità dovuta a queste malattie [2].     

Ci si è posti quindi la legittima domanda se una integrazione di questa vitamina potesse essere d’aiuto nella cura e prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. Le basi razionali per un suo possibile effetto ci sono e, schematicamente, sono queste:

  • La vitamina D ha azioni antinfiammatorie e immunomodulanti;
  • La vitamina D si è dimostrata in passato utile per la cura e prevenzione di altre patologie respiratorie;
  • Spesso i soggetti con deficit di vitamina D (anziani e malati cronici, in particolare diabetici e persone obese) sono anche quelli che hanno una prognosi peggiore nel caso di COVID-19 [1,2];
  • Infine, è interessante notare come le regioni del mondo gravate dalla più alta letalità da COVID-19 siano anche quelle che hanno una latitudine simile, con condizioni climatiche paragonabili, ma soprattutto dove la radiazione solare ultravioletta scende d’inverno al di sotto del 34% di quella che si trova all’equatore. Questo fatto suggerisce che la ridotta esposizione alla radiazione solare possa avere un ruolo nelle ridotte concentrazioni di vitamina D che si trovano in queste popolazioni e supporta l’ipotesi che la ridotta concentrazione ematica di questa vitamina possa spiegare, almeno in parte, gli elevati tassi di letalità in alcune nazioni come quelle europee, gli USA, l’Iran, ma anche la regione di Wuhan in Cina [1,2].

L’ipotesi di somministrare vitamina D non appare dunque campata in aria, e sull’argomento si è recentemente espressa anche l’autorevole rivista Lancet con un editoriale [3]. Tuttavia, se avere un’ipotesi è più che legittimo, diverso è dimostrare con misure cliniche se quell’ipotesi sia corretta. Non c’è infatti nessun male nel formulare un’ipotesi. Nelle scienze e in medicina, i problemi sorgono non nella formulazione di ipotesi, ma quando non si è in grado di accettare che la propria ipotesi si sia rivelata sbagliata.   

Vediamo di capire adesso se, ad oggi, si abbiano delle prove dirette in favore dell’uso della vitamina D nella COVID-19, tenendo presente che si tratta di una problematica in continua evoluzione e che potrebbero a breve esserci ulteriori sviluppi. A tal proposito, è proprio di questi giorni la notizia della deposizione di un preprint (cioè, un articolo non ancora sottoposto a valutazione da parte di revisori indipendenti) sulla piattaforma di Lancet che riporta una riduzione significativa dei casi di COVID-19 che finiscono in terapia intensiva e dei decessi dopo somministrazione di vitamina D [4].  

Ma torniamo a parlare dell’editoriale comparso di recente sulla rivista Lancet [3]. Secondo questo editoriale, non esistono evidenze solide per un ruolo di questa vitamina nella prevenzione e terapia delle infezioni respiratorie in generale, e della COVID-19 in particolare. Gli autori dell’editoriale si rifanno ad una recente trial clinico australiano condotto su oltre 20.000 soggetti e pubblicato su Lancet Diabetes & Endocrinology [5]. I risultati dicono che la somministrazione mensile vitamina D non ha ridotto in maniera significativa la durata e gravità dei sintomi dovuti a infezioni acute del tratto respiratorio. L’unico risultato positivo è stato una modesta riduzione (solo 0.5 giorni!) della durata dei sintomi. Questo effetto è veramente troppo modesto per concludere che supplementi di vitamina D abbiano un qualche effetto clinico rilevante. C’è da considerare che non ci sono stati effetti collaterali. Per cui il rischio di tale integrazione è basso. Gli autori prendono poi in esame un articolo di metanalisi in preprint che analizza i risultati di studi clinici randomizzati e controllati su oltre 46.000 partecipanti in 42 trial clinici. Gli autori di questa metanalisi trovano solo un modesto effetto dell’integrazione con vitamina D rispetto al placebo, con grande eterogeneità nei risultati degli studi. Inoltre, gli autori non riportano effetti neanche sui pazienti che partivano con livelli deficitari di vitamina D nel sangue [6]. A risultati molto simili arriva anche una recente review con metanalisi comparsa sul British Medical Journal [7].

Insomma, nonostante le buone premesse, non pare proprio che ad oggi ci siano prove convincenti che l’uso sistematico di supplementi di vitamina D abbia un qualche effetto clinico rilevante sulla prevenzione e terapia della COVID-19. C’è però da notare che mancano studi rigorosi e, soprattutto, mancano studi focalizzati sui pazienti ad alto rischio. Solo con studi mirati si potrà dunque rispondere con discreta certezza sull’effettiva utilità della vitamina D nelle patologie infettive respiratorie e nella COVID-19 in particolare.  L’autore del presente articolo di Query vuole segnalare che l’integrazione con qualunque vitamina non dovrebbe essere presa in considerazione in soggetti che non abbiano deficit accertati di quella specifica vitamina. Infatti, per quanto la somministrazione di vitamina D si sia dimostrata priva di rischi, c’è da considerare che l’eccesso di questa vitamina nel sangue può provocare calcificazioni diffuse a livello di vari organi e tessuti, tra cui il rene e l’apparato circolatorio. Sono anche descritti casi di vomito, diarrea e spasmi muscolari. La Food and Nutrition Board of the Institute of Medicine of the National Academies degli USA raccomanda una somministrazione non superiore alle 4000 unità internazionali/die ed inoltre suggerisce che i livelli circolanti di vitamina D non dovrebbero mai superare i 125–150 nmol/L [8].

Concludendo, l’uso di supplementi di vitamina D nella prevenzione e cura dell’infezione da SARS-CoV-2, per quanto poggi su basi razionali abbastanza convincenti, ad oggi non è ancora supportata da prove definitive. Per cui ulteriori ricerche sono necessarie per stabilire se possa avere un qualche ruolo nella cura di questa patologia. Considerato però che spesso nei pazienti anziani e con malattie croniche è presente un deficit di tale vitamina, appare ragionevole la sua somministrazione in questi soggetti, anche considerando il suo ruolo in termini di salute generale dell’organismo e la sostanziale innocuità della sua assunzione nelle dosi corrette. Allo stato attuale non pare invece ragionevole somministrarla “a tappeto” in tutta la popolazione.

Infine, si ricorda che esiste un metodo naturale molto efficace per raggiungere il fabbisogno dell’organismo di vitamina D: esporsi giornalmente alla luce solare.

Per approfondire:

[1] Autumn COVID-19 surge dates in Europe correlated to latitudes, not to temperature-humidity, pointing to vitamin D as contributing factor. Walrand S. Sci Rep. 2021 Jan 21;11(1):1981. doi: 10.1038/s41598-021-81419-w.

[2] Can Optimum Solar Radiation Exposure or Supplemented Vitamin D Intake Reduce the Severity of COVID-19 Symptoms? Abraham J, Dowling K, Florentine S. Int J Environ Res Public Health 2021; 18(2):740.

[3] Vitamin D and COVID-19: why the controversy? The Lancet Diabetes Endocrinology. Lancet Diabetes Endocrinol. 2021 Feb;9(2):53. doi: 10.1016/S2213-8587(21)00003-6. Epub 2021 Jan 11

[4] Calcifediol Treatment and COVID-19-Related Outcomes. https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3771318

[5] The effect of vitamin D supplementation on acute respiratory tract infection in older Australian adults: an analysis of data from the D-Health Trial. Pham H, Waterhouse M, Baxter C, Duarte Romero B, McLeod DSA, Armstrong BK, Ebeling PR, English DR, Hartel G, Kimlin MG, Martineau AR, O’Connell R, van der Pols JC, Venn AJ, Webb PM, Whiteman DC, Neale RE. Lancet Diabetes Endocrinol. 2021 Feb;9(2):69-81. doi: 10.1016/S2213-8587(20)30380-6.

[6] https://www.medrxiv.org/ content/10.1101/2020.07.14.20152728v3

[7] Effect of micronutrient supplements on influenza and other respiratory tract infections among adults: a systematic review and meta-analysis. Abioye AI, Bromage S, Fawzi W. BMJ Glob Health. 2021 Jan;6(1): e003176. doi: 10.1136/bmjgh-2020-003176.

[8] Vitamin D—Health Professional Fact Sheet. Available online: https://ods.od.nih.gov/factsheets/VitaminDHealthProfessional/ (accessed on 23 December 2020).

 

Un pensiero su “Ma la vitamina D serve davvero contro la Covid-19? Facciamo ordine!

  • C’è un piccolo problema, in tutti questi studi: quando si presenta sulla scena un facilitatore di polmoniti come il Covid 19, i nostri organismi dovrebbero già averne immagazzinata di vitamina D in quantità più che sufficente. Se cominciamo ad assumerne a pandemia iniziata, prima che riusciamo (forse) a migliorare le nostre difese immunitarie il virus, magari, sarà scomparso da sé. Certo, se ci sentiamo meglio ad assumerne, il fatto stesso di sentirsi meno ansiosi, meno tristi, meno terrorizzati ci aiuterà a non ammalarci. Ma anche su questa mia banale affermazione mancano studi clinici randomizzati, policentrici, su scala mondiale, in doppio cieco.

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