29 Aprile 2024
Giandujotto scettico

I medici avvelenatori di Borgo San Dalmazzo

Giandujotto scettico n° 77 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (03/12/2020)

Era il luglio 1884, quando a Torino – sede del quotidiano Gazzetta Piemontese, che nel 1894 sarebbe diventata La Stampa – arrivarono gli echi di fatti “gravi” e “dolorosi” che si erano svolti a Borgo San Dalmazzo, a pochi chilometri da Cuneo. Si parlava di avvelenatori, di sommosse di contadini, di aggressioni ai medici. Molti non davano credito a queste voci, altri le confermavano. E fu così che un cronista del giornale, per meglio capire la questione, fece armi e bagagli e si recò sul posto. È grazie a lui – identificato nelle corrispondenze con il semplice nome di “Ernesto” – che abbiamo la descrizione di uno degli episodi più emblematici dell’epidemia di colera che imperversò, fra gli altri luoghi, anche in Piemonte, nel 1884-85. Un episodio che ci aiuta a capire le credenze e la mentalità che la accompagnarono.

La corrispondenza, datata 31 luglio, rivela tutto lo sdegno e l’orrore che doveva provare un giornalista colto e smaliziato di fronte alle manifestazioni di rabbia popolare, in cui “superstizione e malvagità si danno allegramente la mano”.

Ma cos’era accaduto? Una ragazza, già malaticcia da alcuni mesi, aveva mangiato dei fagioli. Erano sopraggiunti vomito e diarrea: i sintomi del colera. Il medico, sentito anche il parere di un collega, aveva quindi avvisato le autorità sanitarie, che avevano subito reagito: bisognava turare la latrina pubblica in cui erano state gettate le deiezioni dell’inferma. Ma, al sopraggiungere del muratore incaricato di svolgere il lavoro, le cose non erano andate come previsto:

Ne corre subito voce, capannelli animati si formano nel cortile, strane dicerie trovano facili ascoltatori, un’ira mal contenuta serpeggia fra i crocchi… Si vuole calcinare la ragazza mentre è ancor viva, si vogliono far morire i poveri. I capannelli ingrossano, s’alza, nella animazione generale, qualche grido di minaccia, si afferrano pale e randelli… Il muratore fugge impaurito.

Ora, facciamo una digressione. Il giornalista tendeva a minimizzare: per lui non era nemmeno detto fosse colera. E su questo, probabilmente, aveva torto: la malattia, giunta in Europa nel 1834, sin dal 1835 era arrivata in Italia, con il suo carico di leggende e strane storie. Nel 1884 ci fu una nuova, potente ondata che investì letteralmente il basso Piemonte, accanendosi particolarmente nelle vallate del Cuneese. Il colera arrivava probabilmente dalla Francia, dove aveva dilagato a Tolone e a Marsiglia. Importato forse già a giugno da operai rientrati da Ventimiglia, provocò oltre 1600 morti nel solo capoluogo.

Era una malattia bizzarra, agli occhi del popolino: colpiva i poveracci e risparmiava i ricchi (che avevano accesso all’acqua pulita e vivevano in condizioni igieniche meno precarie). E fu così che, da nord a sud, si accusarono i cittadini più abbienti di avvelenare i meno fortunati, con la complicità di medici corrotti. È tutto un complotto, signora mia. A fomentare gli animi era stato, secondo il quotidiano cuneese La Sentinella delle Alpi del 28 ottobre 1884, anche il governo, che con i suoi eccessi (i bollettini diffusi col telegrafo giorno per giorno, i cordoni e le quarantene alle frontiere, le guardie armate poste dai prefetti all’ingresso delle città) aveva propagato “il contagio della paura”.

Forse, come ipotizzò lo storico Paolo Preto in Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna (Laterza, 1988, pag 227-237) la decisione con cui lo Stato italiano reagì dipese anche dal fatto che nel 1883 Robert Koch aveva scoperto al microscopio il Vibrio cholerae; molti studiosi sostenevano le sue teorie, invocando la bollitura dell’acqua e risposte più energiche dalle autorità.

Questa consapevolezza, però, non arrivò subito al pubblico generale. Anzi, quest’ultimo, ancor più che nelle epidemie precedenti, aveva finito per accusare i medici di avvelenamento. Sentimento che si direbbe molto diffuso se, in una lunga e accorata difesa dei dottori contro la “diffidenza e ingratitudine”, la Gazzetta di Mondovì giunse a rispolverare i versi semplici di Arnaldo Fusinato, autore di popolarissime rime risorgimentali:

Se tu guarisci qualche ammalato
È la Madonna che l’ha salvato
Ma se per caso qualcuno ne more
T’urlano dietro: Can d’un dottore

(Gazzetta di Mondovì, 2 settembre 1884)

Queste convinzioni si rinvengono anche in ciò che accadde a Borgo San Dalmazzo nel luglio 1884. Dopo la fuga del muratore, infatti, la rabbia si volse verso l’ufficiale sanitario:

Sopraggiunge intanto l’incaricato del servizio di sorveglianza per l’igiene. “È lui che porta il veleno!”, si grida. “È lui che ha il brodo delle 11 ore”. Il mormorio della folla – sorda e paurosa minaccia – cresce; si accerchia il povero vecchio, lo si urta, gli si mostrano i pugni. Nella lotta cadono per terra due boccette: un calmante per l’inferma ordinato poco prima dal dottore e una bottiglia d’acido solforico. Il liquido si sparge per terra; l’effervescenza atterrisce gli animi e conferma i sospetti. “Ecco il veleno! Ecco!”. Lampi d’ira passano negli occhi della plebaglia, l’idea di vendicarsi sorride agli animi agitati; si incitano vicendevolmente… Ma sopraggiungono avvertiti i carabinieri e tolgono il povero vecchio di fra le mani alla folla esacerbata.

La ragione per cui un medico aveva con sé quella bottiglia è presto detta: per disinfettarsi dopo le visite ai colerosi si usava all’epoca il cloruro di calce, che veniva sciolto con l’acqua forte o lo “spirito di vetriolo”… In altre parole, l’acido solforico. Queste boccettine, peraltro, dovettero dar luogo a più di un fraintendimento. Nel romanzo storico Teresina Rodi e un medico omeopatico all’epoca del colera in Bologna (Firenze, 1856), dell’avvocato nativo di Castel San Pietro (BO) Enrico Farné, alle pp. 11-19, c’è una scena molto simile: a un dottore si rompe il contenitore dell’acido che aveva in tasca, e tutti lo sospettano di portare con sé un veleno. Sarà l’eroe della storia, Alfonso de Monty (ispirato al medico Alfonso Monti, che aveva salvato dal colera le tre figlie di Farné) a svelare alla folla il vero uso di quella bottiglietta.

Piccola curiosità: Enrico Farné ebbe una figlia, Maria Velleda Farnè, che divenne la seconda donna italiana a laurearsi in medicina, a Torino, dove il padre si era trasferito, e fu medico personale della regina Margherita di Savoia (moglie di Umberto I).

Il 7 agosto, comunque, Gazzetta Piemontese tornò sulla questione: non per aggiungere nuovi particolari, ma perché “Ernesto”, il non meglio identificato corrispondente da Cuneo che avea raccontato la vicenda, potesse difendersi dalle accuse di lesa maestà che gli avea rivolto il principale quotidiano locale, La Sentinella delle Alpi. In sostanza, il 2 agosto il giornale cuneese aveva ammesso la realtà di quanto narrato, ma ne aveva sminuito la portata, probabilmente per orgoglio campanilistico: in accordo con il sindaco di Borgo aveva deciso di non parlarne.

“Ernesto”, in un lungo pistolotto esplicativo, precisava di non aver attribuito a tutti gli abitanti della cittadina quegli eccessi, ma solo ad alcuni: quello che non gli andava giù era La Sentinella avesse trascurato quello che a lui appariva “un brutto sintomo” di regresso. L’autodifesa era seguita dalla pubblicazione di una missiva di un lettore del “paesello alle porte di Cuneo” – era proprio Borgo, dunque, quello menzionato in precedenza – che giustificava in qualche misura l’episodio spiegando che, ahimè, non si trattava affatto di un episodio eccezionale: ne stavano accadendo anche di peggiori, sia in Italia, sia in Francia, di quei fatti dovuti “alla superstizione”.

Ad ogni modo, al medico di Borgo San Dalmazzo andò bene: fino al 1911, l’ultimo colera degli untori, le accuse di questo tipo erano all’ordine del giorno, le rivolte sfociavano spesso nella violenza e persino in linciaggi. Altrove non era, come qui, “il brodo delle 11 ore” (un’espressione piemontese che indicava l’ultimo pasto dei condannati a morte, una scodella di brodo servita alle 11 del mattino, e per estensione l’ultima bevanda, quella avvelenata): a Torino si parlava della caraffina, a Napoli della pulviredda. Più di una volta ci scappò il morto. Secondo alcuni giornali, la colpa era anche di coloro che vendevano falsi rimedi contro il morbo, e che spingevano a diffidare dei medici:

Non so se pur costì, ma da noi, molti nelle campagne, avvenuto un caso, non si decidono punto di ricorrere al medico, avendo la crassa superstizione che medici farmacisti siano fra loro d’intesa per somministrare pozioni che accelerino la morte agl’infelici infermi. Colpa i soliti cerretani che, senza avere studiato medicina, hanno sempre un rimedio sicurissimo contro ogni sorta di malattie. (Gazzetta di Mondovì, 19 agosto 1884)

E di rimedi strani, in effetti, se ne vendevano. Il 23 settembre, ad esempio, la Gazzetta di Mondovì consigliava il Raspail, un farmaco francese contro il colera a base di vino e canfora (trovate qui la ricetta completa, ma vi sconsigliamo di provarla). Altrove si consigliava etere solforico, estratti di piante varie, elisir di questo o quel medico famoso.

Ma è più che possibile che tutte queste dicerie traessero origine, come in tutte le epidemie, da piccoli fraintendimenti, da congetture, ipotesi, magari modificate e amplificate dal telefono senza fili – oltre che per quella tendenza che abbiamo tutti ad avvisare gli altri, quando siamo certi di un pericolo incombente. Contro la paura del contagio (e la rabbia popolare), i giornali pubblicavano storie come quelle della peste e del viaggiatore o una variante del dissanguato per finta (un uomo moriva di suggestione pensando di dormire nel letto di un coleroso).

Ma questo non fermava le dicerie. Una delle voci più elaborate ci arriva da La Sentinella delle Alpi, che il 13 settembre 1884 – sotto l’eloquente titolo L’immaginazione del volgo – riferiva di una strana leggenda che aveva preso a circolare in un “paesello presso Cuneo”, purtroppo non meglio identificato. Ve la riportiamo per intero, perché ne vale la pena:

Questa storiella fa il giro di tutte le case, pochi sono coloro che non la credono come parola di Vangelo. Il parroco di quel tal paese, salito sul pergamo, cominciò parlare del cholera; e facendo risultare il pericolo di essere sorpresi dal male, e di morire come un cane, invitò i fedeli a munirsi dei conforti religiosi, così, tanto per precauzione; ed intanto li avverti ch’egli sarebbe rimasto fino alla mezzanotte in confessionale. Un buon vecchio, cui la predica aveva fatto effetto, si recò la sera in chiesa per presentarsi al tribunale di Dio; e postosi in un oscuro angolo, aspettando il suo turno, s’addormentò. Quando si svegliò, la mezzanotte era suonata da un pezzo; le porte chiuse, i lumi spenti, impossibile l’uscita. […]

Ma ecco d’un tratto una porticina girare silenziosamente sui cardini, apparire un lumicino, ed entrare due uomini vestiti di nero, due dottori, senza dubbio. Costoro, camminando come ombre, si diressero senz’esitanza all’altare maggiore; ed il vecchio, che trattenendo il respiro spiava ogni loro movimento, li vide aprire il tabernacolo, estrarne la pisside e vuotarne, orribile sacrilegio, il sacro contenuto in un giornale, probabilmente lo scomunicata Sentinella, farne un pacco riporselo in tasca. Estratto quindi un altro pacco d’ostie, lo vuotarono nella pisside, la riposero al suo posto, rinchiuso il tabernacolo, se n’andarono com’erano venuti.

Il vecchio, coi capelli irti per lo spavento, immobile attese il mattino. Spuntata finalmente l’alba, ed aperta la chiesa, egli corse a raccontar tutto al sacrestano, il quale, inorridito, volle constatare la verità del fatto. Presa un’ostia la porse al gatto, il quale appena l’ebbe mangiata cadde stecchito. Ugual sorte toccò al cane, il quale comunicato a sua volta, rotolò fulminato. Non c’era più dubbio! I medici non potendo altrimenti, si servivano di quel mezzo sacrilego per spargere il cholera fra la povera gente!

In un baleno il fatto corse di bocca in bocca; altri cani ed altri gatti, soli fedeli oramai che s’accostassero alla sacra mensa, furono sacrificati alla brama di esperimenti cui vollero assistere tutti gli abitanti. Oh il volgo, qual potenza d’immaginazione! A paragone suo Dumas, Montepin, Ponson du Terrail, ecc. sono un nonnulla.

Per fortuna a Cuneo queste voci, anche se allontanarono forse qualcuno dai sacramenti “avvelenati”, non furono sufficienti a scatenare la vendetta.

E nemmeno, tornando alla nostra storia, produssero conseguenze tragiche a Borgo San Dalmazzo: certo, la malata morì, e subito si disse che era stata avvelenata. Il municipio stabilì un cordone sanitario intorno alla casa della giovane, mettendo in quarantena la famiglia. Intorno, riferisce la Gazzetta Piemontese, continuavano ad aggirarsi i contadini, che brontolavano minacce. Neanche il funerale, svolto l’indomani, fece cessare i mormorii:

Vanno i contadini al lavoro, ma sotto il sole implacato bollono nei crani idee di diffidenza e di vendetta; restano davanti gli usci, lavorando, le vecchie comari, e narrano di strane e paurose storie. Alle dicerie del volgo cencioso ed ignorante danno peso ed aggiungono i racconti di persone stimate nel paese. Chi asserisce di aver visto, ritornando a casa di notte, il veterinario in ascolto presso l’uscio di casa di un ammalato, o d’avergli visto brillare tra le mani il bicchiere del veleno; un altro giura e spergiura di essersi alzato di notte e di aver udito una povera donna gridare fievolmente dietro all’avvelenatore, che fuggiva.

Sono i farmacisti che danno il veleno, ed i dottori lo ordinano. Di qui una guerra sorda, minaccie, propositi mal celati di vendetta, propalazioni ingiuriose ed inique. E così un farabutto della peggior specie può tacciare d’omicida il farmacista e, messo fuor dalla bottega, afferrarlo pe ‘l collo, ruzzolando con lui nella via; così il veterinario ieri ancora si è visto obbligato a riparare nella caserma dei carabinieri, inseguito sempre da qualcuno della canaglia.

Nonostante quest’ultima aggressione, come già accennato, a Borgo San Dalmazzo non si arrivò agli eccessi che si sarebbero prodotti altrove, ad esempio in Lucchesia (a Livignano, nel comune di Piazza al Serchio, vennero fatti ingerire a forza i farmaci a un medico; a Borgo a Mozzano, si arrivò a uccidere un sanitario). Il giornalista si stupiva della blanda reazione nel Cuneese: non una denuncia, non una predica dal pulpito, non un provvedimento dell’autorità. Il prefetto mantenne basso il livello di scontro, e i malumori, seppur non sfumarono, non sfociarono in aperte rivolte. Il cronista, però, indignato contro quelle folle superstiziose, la pensava diversamente:

Oggi è pur un semplice sospetto, quando tutto era calma nel paese. Ma eccitate le plebi, urgendo un altro provvedimento, forse più energico e generale, per tutelare la salute pubblica, è lecito domandarsi: che accadrà domani? Decisamente, il medioevo non è ancora tutto scomparso!

Per fortuna, i fatti gli diedero torto: l’epidemia, nel Cuneese, passò senza che le tensioni sociali superassero il livello di guardia, in quella che fu l’ultima grande ondata del morbo in Piemonte (le successive imperversarono maggiormente nell’Italia meridionale). Nel 1911 la violenza scoppiò, per un’ultima volta, a Verbicaro, nel Cosentino. Ma, come si suol dire, questa è un’altra storia.

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