9 Ottobre 2024
Antologia dell'inconsueto

Antologia dell’inconsueto: strane cavalcature

In un’antologia dell’inconsueto poteva mancare Franz Kafka (1883-1924)? La domanda è retorica, dunque oggi è il suo turno.

Le sue narrazioni bizzarre si dipanano intorni a situazioni che sembrano i brutti sogni di un impiegato che ha mangiato pesante la sera: sono perfettamente inseriti nel suo mondo e nel suo tempo, ma sono pure completamente sui generis. L’alienazione dell’individuo (La metamorfosi, 1915), l’assurdità della condizione umana (Il processo, 1925) sono resi tramite avvenimenti senza uscita e quasi senza senso. È la situazione kafkiana, quella che, da una logica paradossale, diviene fonte di estrema ansia.

La nostra scelta cade però su un racconto un po’ meno ansiogeno: Il cavaliere del secchio (1917), spesso considerato adatto anche a lettori giovani.

Anche qui abbiamo una narrazione che ha forti radici nel reale, sia pur con uno svolgimento limite. Come spiega Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (1988), in particolare nella dissertazione sulla leggerezza, l’inverno del 1917- un inverno di guerra – fu particolarmente duro per l’Impero austriaco. Il protagonista del racconto esce con il suo secchio in cerca di carbone per riempire la stufa e scacciare il freddo, ma proprio il secchio vuoto solleva da terra il proprietario, che si ritrova a cavalcarlo (in volo) per le vie del paese. Dal venditore di carbone, la distanza tra il negoziante e il cavaliere non permette una chiara comunicazione: i due non si sentono, il cavaliere del secchio è troppo in alto, i due tentano di parlarsi senza successo, finché la moglie del carbonaio non scaccia il cavaliere.

Un volo magico, come nella migliore tradizione delle favole. La cavalcatura non è delle migliori, o delle più eleganti ma è sempre volante e decisamente incantata, anche se il lettore non sa come il protagonista sia giunto in possesso di un secchio magico o come il vecchio contenitore venga incantato. Nemmeno il nostro protagonista, del resto, sembra dotato di un qualsiasi potere magico.

Pure l’esito non è dei migliori: il carbonaio non ha venduto (nemmeno a credito) il suo carbone, e il secchio rimane vuoto, portando il protagonista ancora più lontano da casa, tra le montagne, dove comunque il lettore può credere si trovi in salute e a suo agio, visto che il racconto è fatto in prima persona.

Per Calvino siamo di fronte ad una delle “controindicazioni dell’elevarsi”: nel caso del cavaliere del secchio si tratta di un problema fisico, di altezza dal suolo. Però Calvino si sofferma anche su un problema più legato ai moti dell’animo umano: se ci solleviamo troppo, non è che gli altri smettono di sentirci, vista l’altitudine? Certo, potremmo pensare si esserci elevati al di sopra dell’egoismo umano, ma in questo modo, le persone a cui chiediamo aiuto (e a cui eventualmente possiamo darlo) rimangono a terra, mentre noi saliamo sempre più in alto. I nostri consimili smettono di sentire la nostra voce e ad un certo punto rischiano di perderci di vista in maniera.

Ma per Calvino le interpretazioni possibili e lecite del Cavaliere del secchio sono davvero molteplici. Alcune riguardano la lingua, che invece di unire, separa, oppure concernono la distanza incolmabile tra gli animi, troppo diversi per conciliarsi persino nel bisogno. Ma, a parte questa pluralitò di sguardi, quello di Kafka un racconto meraviglioso per l’animo umano.

Circa il significato, voi siete abilitati a trovarlo.

 

Il cavaliere del secchio

Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto. Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato; dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me; perciò devo andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal carbonaio. Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere; devo dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento. Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi dell’ultimo caffè; similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma sotto il raggio del comandamento “Non uccidere!”, dovrà scaraventarmi nel secchio un’intera badilata.

Già il mio decollo sarà decisivo; e dunque mi metto a cavalcare sul secchio. Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido; i cammelli sdraiati bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade congelate; spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano; non scendo mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo tavolino scrivendo; per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta.

“Carbonaio!” grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle nuvole di vapore del mio respiro, “per favore carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii buono. Appena posso te lo pago.”
Il carbonaio mette la mano all’orecchio. “Ho sentito bene?” chiede da sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, “ho sentito bene? Ci sono clienti.”
“Io non sento proprio niente”, dice la donna, respirando tranquilla sopra i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena.

“Oh sì”, grido io, “sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele, solamente, per il momento impossibilitato a pagare.”
“Moglie”, dice il carbonaio, “è così, c’è proprio qualcuno; non posso ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore.”

“Che ti prende, marito?” chiede la donna, e riposandosi un attimo preme sul petto il suo lavoro a maglia, “non c’è proprio nessuno; il vicolo è vuoto; tutti i nostri clienti sono stati riforniti; potremmo anche chiudere il negozio per giorni interi e riposarci.”
“Ma io sono qui, seduto sul secchio” grido, e lacrime insensibili di freddo mi velano lo sguardo, “per favore, guardate in su; mi troverete subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se lo sentissi già risuonare nel secchio!”

“Vengo”, dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il braccio e dice: “Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa. Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni. Vado io.” “Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi.” “Va bene”, dice la moglie, e sale nel vicolo. Naturalmente mi vede subito.

“Signora carbonaia”, grido, “i miei saluti più devoti; solo una palata di carbone; subito qui nel secchio; me la porto a casa da solo; una palata del peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non subito.” Che suono di campane, nelle due parole “non subito”, e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile.

“Allora, cosa vuole?” grida il carbonaio. “Niente”, gli risponde la moglie, “non c’è nessuno; non vedo nessuno, non sento nessuno; solo hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile; c’è da prevedere che domani avremo molto lavoro.”
Non vede niente e non sente niente; però scioglie il grembiule e agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce. Il mio secchio ha tutti i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare; ma non ha capacità di resistenza; è troppo leggero; basta il grembiule di una donna per cacciarlo a gambe levate.

“Cattiva!” le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, “cattiva! Ti ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data.” E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.

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