Carlo Emanuele I e il sucarate
Giandujotto scettico n° 178 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Carlo Emanuele I regnò sul ducato di Savoia per cinquant’anni, dal 1580 al 1630. Colto e amante delle lettere, ma anche impegnato con estrema violenza nelle guerre di religione, il giovane duca era appassionato di scienze, e come molti vip dell’epoca raccoglieva reperti naturali e artificiali per arricchire la sua Wunderkammer. Oggi vi porteremo a conoscere alcuni pezzi della sua collezione e un animale bizzarro che – ve lo anticipiamo – ha un curioso legame con il Natale.
Tutto quello che esiste al mondo
Per arricchire le sue collezioni, Carlo Emanuele fece arrivare in Piemonte animali impagliati e opere d’arte. A Torino, che era diventata da poco capitale del ducato di Savoia (il padre Emanuele Filiberto l’aveva trasferita da Chambéry nel 1563), progettò la Grande Galleria, sita tra Palazzo Madama e Palazzo Reale, per ospitare la sua ricca collezione di libri e di oggetti: dipinti, volumi su ogni argomento dello scibile umano, busti romani, armature, carte geografiche, e molto altro.
Alcuni di questi libri sono ancora visibili presso la Biblioteca Reale. Si va dall’album naturalistico sui pesci, che ospita figurine di carta lunghe oltre un metro di squali e murene, sino a un incredibile plumario in cui gli uccelli, dipinti a tempera, sono rivestiti con le vere piume dell’animale che rappresentano.
Si sono conservati anche manoscritti di Carlo Emanuele stesso: poesie, lettere, elenchi di uomini e donne illustri e progetti per la decorazione della Grande Galleria. Tra le carte di argomento naturalistico, studiate dalla professoressa Franca Varallo, dell’Università di Torino, chiose e commenti a libri di zoologia (all’Archivio di Stato torinese è presente, per esempio, un foglio intitolato “uccelli che non sono nel libro del Aldobrando et che seria bene farne una gionta”), elenchi di volatili, pappagalli, animali marini, alberi da frutto e quadrupedi.
Queste liste mostrano il mondo in cui si muoveva Carlo Emanuele: un mondo in cui dalle Nuove Indie (cioè dalle Americhe) cominciavano ad arrivare i primi resoconti della fauna che viveva laggiù, spesso descritta con tratti immaginifici e fiabeschi.
Tra i quadrupedi in elenco, cavalli, cervi, dromedari, scimmie, ma anche bestie come l’unicorno, un difficilmente identificabile “animale d’India grande come cavallo con le orecchie sino al ginocchio”, o il “catoplepa o catopleponte libico ch’a del toro el veleno di serpente”, e il
“sucarate animal fiero et prudente delle Indie (che porta) mentre a paura de caciatori i suoi figli sopra il dorso coprendogli con la coda”.
Ecco… L’unicorno non ha bisogno di presentazioni; il catoblepa era un animale che era già stato descritto da Plinio il Vecchio, e veniva rappresentato talvolta come un toro con una folta criniera che viveva in Africa. È possibile che sia da identificare con lo gnu, anche se spesso era descritto con caratteristiche leggendarie (si diceva che avesse un alito velenoso o che potesse trasformare in pietra chi lo guardava negli occhi). Ma il sucarate, invece?
Sucarate: chi era costui?
Il sucarate (o succarath, o anche solo su) è menzionato da diversi viaggiatori e geografi del Cinquecento. Tra i primi a parlarne ci fu lo svizzero Conrad Gessner (1516-1565), che nella sua Historia Animalium, oltre a occuparsi di mostri di ogni genere, descriveva il su come un animale della Patagonia, feroce e pericoloso. A suo dire, veniva cacciato dai nativi per la pelliccia; questi lo uccidevano con arco e frecce, dopo averlo attirato in fosse ricoperte di foglie. Catturarlo non era facile: quando si sentiva in pericolo, il su trasportava i piccoli sulla schiena, coprendoli con la lunga coda. Gessner ne presentava anche un’illustrazione (che, nella versione tedesca del 1563, sarebbe comparsa addirittura sul frontespizio del volume): una specie di manticora con un corpo da leone, artigli e volto umano, con tanto di barba a punta. Sul dorso, coperti da una coda piumosa, ecco i suoi quattro cuccioli, pronti per essere portati via.
Pochi anni dopo, nel 1558, fu invece il sacerdote francescano André Thevet (1516-1590) a parlarne, nel Les singularités de la france antarctique. Thevet ampliava la descrizione di Gessner. Per lui l’animale (il cui nome derivava da su, cioè da “acqua”) viveva in una regione del Brasile che aveva “una temperatura simile al Canada” e passava molto tempo vicino ai fiumi. Era ferocissimo e, quando cadeva nelle fosse dei cacciatori, si rendeva conto che non c’era più via di scampo. Allora per prima cosa uccideva i suoi piccoli; poi attirava gli uomini con il suo grido straziante, e moriva lì ucciso dalle loro frecce.
Nel 1579 Amboise Paré ne parlò in Premier livre des Animaux & de l’excellence de l’homme, nel capitolo dedicato alle cure parentali del regno animale. Per lui, il succarath – che, nella sua versione era un animale della Florida – era un esempio di profondo amore materno e di istinto protettivo.
Da allora il succarath comparve in numerose mappe e libri sulla fauna del Nuovo Mondo, a volte come animale esotico e pericoloso (Perniciosa Bestia, veniva definito su un mappamondo realizzato da Johann Baptist Spiegel).
Un formichiere – no, un bradipo – o magari un opossum
Nel corso del tempo, diversi studiosi hanno provato a identificare il succarath con un vero animale – magari, sulla base della descrizione di Gessner, appartenente alla fauna della Patagonia.
In realtà, il termine su (acqua) non risulta nei primi dizionari della lingua degli indigeni Tehuelche, che usavano sì pelli per coprirsi, ma di guanaco, un pacifico quadrupede simile al lama, ben lontano dalla descrizione del succarath.
Anche il formichiere, che ha una folta coda simile a quella di alcune illustrazioni, l’opossum (che trasporta i cuccioli sul dorso, ma sembra ben più piccolo rispetto alle descrizioni) e il giaguaro sono stati proposti come corrispettivo reale del succarath. Nessuna di queste identificazioni sembra però del tutto soddisfacente. Alla fine del Diciannovesimo secolo, la nostra bestia misteriosa entrò a far parte anche della criptozoologia, cioè di quella disciplina para-scientifica che cerca di documentare presunti animali più o meno mostruosi ignoti alla zoologia. Il paleontologo argentino Florentino Ameghino (1853-1911) usò infatti il succarath per sostenere una sua personalissima teoria, secondo cui quelli descritti nel Cinquecento sarebbero stati in realtà esemplari sopravvissuti di animali preistorici che un tempo popolavano il Sudamerica – per la precisione, esemplari di Mylodon, bradipi giganti.
Più realisticamente, i primi geografi mescolavano conoscenze di prima mano con racconti raccolti da marinai, indigeni e viaggiatori. Folklore e descrizioni naturalistiche erano un tutt’uno, e non era raro che tra le bestie meravigliose del Nuovo Mondo comparissero animali leggendari o deformati dal passaparola. Il sucarate, tuttavia, da semplice esemplare della fauna americana era destinato a trovare nuova vita grazie a un genere letterario molto popolare nel Cinque-Seicento, quello dell’emblematica.
Il succarath nel presepio
Come abbiamo già detto, fu colpa di Paré se il succarath, da semplice animale misterioso delle Americhe, diventò un simbolo dell’amore genitoriale, cioè, di quei padri e madri che, pur di proteggere i figli, sono pronti a caricarseli in spalla e a portarli via dal pericolo. Con questo significato, compare in alcuni libri di emblemi, ossia, figure accompagnate da motti moraleggianti – un genere che andò di moda per quasi due secoli. Al contempo, la nostra bestia patagonica cominciò anche a essere associata sempre più a uno degli episodi biblici più celebri: la fuga in Egitto della famiglia di Gesù, appena nato.
La vicenda è raccontata nel secondo capitolo del Vangelo di Matteo, uno dei due vangeli che si dilungano sull’infanzia del Cristo: Erode, timoroso che il Re dei Re sia venuto a spodestarlo dal trono, ordina la strage degli innocenti. Ma un angelo appare in sogno a Giuseppe, esortandolo a partire al più presto per l’Egitto con moglie e figlio. Un episodio presente anche in diversi vangeli extra-canonici, come il Vangelo arabo dell’infanzia, quello Armeno, e il cosiddetto Pseudo-Matteo (in quest’ultimo, durante il suo viaggio, la famiglia incontra persino dei draghi, che si sottomettono al Figlio di Dio, in uno degli episodi di carattere fantastico ricorrenti nei vangeli dell’infanzia non entrati a far parte del canone neotestamentario).
Dunque, il succarath si prestava bene a rappresentare quella fuga per la salvezza insieme al piccolo Gesù. Non è un caso se nella Sala del Tesoro della Basilica della Santa Casa di Loreto, al di sopra dell’affresco che raffigura la fuga in Egitto, sia rappresentato anche un succarath, accompagnato dal motto “una salus omnibus“: il pittore Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio (1556-1626), lo inserì proprio con questo significato.
È con lo stesso intento che a Monaco di Baviera, all’inizio del XIX secolo, il succarath cominciò ad essere inserito tra le figurine dei presepi, che oltre alla Natività mettevano spesso in scena riferimenti ad altri episodi biblici. Secondo l’etnologa Nina Gockerell, che ne ha scritto per la rivista Österreichische Zeitschrift für Volkskunde, a iniziare la tradizione potrebbe essere stato un singolo intagliatore di Monaco; l’idea si sarebbe poi estesa ad altri artigiani della città. Ad oggi, la collezione di statuine del Museo nazionale bavarese (Bayerisches Nationalmuseum) presenta diversi esemplari di succarath intagliati nel legno e dipinti, come la figurina che vedete qui sotto, oppure queste due (forse una coppia?), o ancora questo, dalle folte sopracciglia.
La tradizione di inserire succarath nei presepi sembra sia cessata verso la metà del XIX secolo. Oggi questi animali leggendari sono quasi dimenticati, se si esclude qualche illustrazione moderna (notevole quella di Rudolf Freund, che comparve il 23 aprile 1951 sulla rivista Life, in un articolo dedicato agli animali “che sono esistiti solo nell’immaginazione dell’uomo”). I succarath figurano sporadicamente persino nei libri di criptozoologia, né sembrano aver lasciato grossi segni nella mitologia europea. Ma il folklore è una bestia mutevole: forse, prima o poi, il succarath tornerà sulle bancarelle dei mercatini di Natale. Se lo facesse, noi saremmo pronti ad accoglierlo, come omaggio a Carlo Emanuele I, al suo mondo meraviglioso e a un periodo in cui, anche nella zoologia, ogni cosa sembrava possibile.
Immagine di apertura dall’Historiae Animalium di Conrad Gessner, Wikimedia Commons, pubblico dominio