Giandujotto scettico

Le meteoriti arrivano dallo spazio? La risposta è a Torino

Giandujotto scettico n° 171 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Il Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, nel cuore della città, è ricchissimo di reperti. Alcuni, come quello di un rinoceronte bicorne che data a circa tre milioni di anni fa, sono enormi, e colpiscono immediatamente qualsiasi visitatore. Altri, invece, sono assai più piccoli, e, a uno sguardo inesperto, assai meno attraenti.

Oggi vogliamo raccontarvi l’importanza di un pezzettino di pietra conservato in quel museo. È lungo solo pochi millimetri, ma la sua importanza storica è gigantesca. Fa infatti parte della meteorite di Krasnojarsk: quella che ci ha aiutati a capire che quegli “strani sassi” arrivavano dal cielo.

Le pietre dal cielo, una storia (in)naturale

Fino a non troppo tempo fa, l’idea che un sasso potesse precipitare dal cielo era semplicemente inconcepibile. Anche perché fino al XVII secolo, nella struttura dell’universo comunemente accettata, di rocce in cielo proprio non ce n’erano. I pianeti erano corpi celesti composti di etere, che è un po’ come dire che erano fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

Pensare che dei grandi sassi potessero cadere dal cielo, quindi, era difficilissimo. Ci volle un pezzo per capire – e per accettare – la natura celeste delle meteore e, ancor più, degli aeroliti, quelli che oggi chiamiamo meteoriti. Come abbiamo raccontato in una puntata della rubrica Misteri Vintage, una delle ipotesi “intermedie” era che i “sassi” potessero arrivare sì dal cielo, ma comunque da un “posto” situato sopra di noi e non troppo distante, dal quale i pietroni e le pietruzze giungevano (magari perché scagliate da terremoti o eruzioni): stiamo parlando della Luna, che tutti intuivano essere decisamente vicina al nostro mondo.  

La svolta si ebbe fra l’ultimo quarto del Settecento e i primi anni del secolo successivo. A dare una mano ci pensò proprio il grande meteorite del quale alcuni minuscoli frammenti si trovano negli inventari del museo torinese. 

Pallas, i suoi gatti e il suo meteorite

A metà Settecento la regione siberiana che aveva al centro la città di Krasnojarsk non era esattamente il centro del mondo. Fondata intorno al 1628, l’arrivo nel 1741 della via siberiana, il tracciato più antico che collega Russia, Siberia e Cina, cominciò finalmente a cambiarne le sorti. Era ben lontana dal diventare la città di 1,1 milioni di abitanti che è oggi (la seconda per dimensioni della Siberia russa dopo Novosibirsk), ma ormai il rapporto stabile con la Russia occidentale e con l’Europa era stabilito.

Otto anni dopo la definitiva apertura della strada, un misterioso e grandissimo blocco di materiale fu scoperto presso il paesino di Medvedevo, a circa 230 chilometri a sud di Krasnojarsk. A trovarlo furono – per fortuna – due persone che di sassi se ne intendevano: il fabbro Yakov Medvedev e il minatore Ivan K. Mettikh. Era davvero grande: fu calcolato un peso di poco meno di settecento chili. La fama della strana formazione, la cui natura anomala balzò subito agli occhi delle persone colte di Krasnojarsk, si diffuse e arrivò sino a Mosca. Secondo Medvedev, le tribù tartare del luogo guardavano a quell’enorme pezzo di ferro e pietra come a una reliquia sacra, caduta dal cielo.

Ma forse il pietrone sarebbe comunque rimasto lì, come semplice curiosità, se la storia non fosse arrivata alle orecchie di uno scienziato di tutto rispetto. Fu lui a valorizzare la “strana roccia” e a sottoporla all’attenzione della comunità scientifica che, in un processo non breve né semplice, si rese conto di che cosa si trattava.

Quest’uomo si chiamava Peter Simon Pallas (1741-1811), era un prussiano di Berlino, molto attento alle ricadute del pensiero illuministico sulla scienza europea del suo tempo. Dopo essersi insediato all’Aia, presso la cui università acquistò fama come zoologo, elaborò un sistema di classificazione delle specie animali. Compresane la statura scientifica, la zarina Caterina II di Russia, sotto la quale la ricerca scientifica del suo paese aveva raggiunto rapidamente vette inattese, nel 1767 gli chiese di assumere la docenza presso l’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo. 

Fu così che, fra il 1768 e il 1774, Pallas diresse la prima di due fondamentali spedizioni naturalistiche attraverso la Russia europea e la Siberia. Fra le altre cose, descrisse per la prima volta un curioso felino selvatico dal muso piatto e dalla pelliccia foltissima, osservato presso il lago Baikal: il gatto di Pallas, appunto, detto anche gatto delle steppe.

Finalmente, nel 1772 lo scienziato arrivò a Krasnojarsk. Raggiunse la località in cui il sasso giaceva da circa ventitré anni: era una massa pietrosa-ferrosa, con incluse delle parti che sembravano cristalli. Era completamente diversa da tutto il materiale geologico dei dintorni. Doveva essere arrivata da qualche parte, conficcandosi nella terra: era troppo pesante per poter essere trasportata fino a quel punto remoto e disabitato. Era forse stata proiettata fino a lì, lanciata in un modo ancora difficile da determinare? Fece arrivare il masso a Krasnojarsk, ne fece estrarre un grumo di circa diciotto chili che appariva fuso dal calore e lo fece giungere a San Pietroburgo, dove arrivò nel 1773. Quattro anni dopo quella parte del pietrone di Krasnojarsk fu collocata nella Kunstkamera, la raccolta di reperti e campioni iniziata sotto Pietro il Grande e che stava ormai diventando parte del Museo dell’Accademia delle Scienze. 

Quanto a Pallas, descrisse quel curioso enigma geologico in uno dei volumi della serie Reise durch verschiedene Provinzen des Russischen Reichs (“Viaggio attraverso varie province dell’Impero russo”), apparso per la prima volta in tedesco a San Pietroburgo nel 1773, ma rapidamente tradotto in russo e in francese. Fu così che la sua scoperta entrò nel dibattito europeo sulla natura dei “sassi celesti”.

Ernst Chladni, William Thomson e i sassi dallo spazio profondo

Il clamore fu subito notevole: frammenti del meteorite furono prelevati e inviati a musei e istituzioni scientifiche di tutto il continente.

La spiegazione decisiva sulla loro natura giunse nel 1794 da un connazionale di Pallas, il fisico sassone Ernst Chladni (1756-1827), anche lui figlio della Germania del nord e del clima generale di ammirazione per la tecnica e le scienze. Ci siamo occupati di Chladni nella puntata di Misteri Vintage che abbiamo citato in apertura, quando abbiamo ricordato le idee errate sulla provenienza lunare delle meteoriti, e della miglior comprensione che Chladni ebbe della natura del fenomeno rispetto al suo contemporaneo, il senese Ambrogio Soldani. Chladni usò la descrizione del meteorite siberiano per formulare l’ipotesi che poi si rivelò esatta: che quella pietra avesse origine cosmica. La inserì in un testo fondamentale, Über den Ursprung der von Pallas gefundenen und anderer ihr ähnlicher Eisenmassen und über einige damit in Verbindung stehende Naturerscheinungen (“Sull’origine del ferro di Pallas e di altri simili e su alcuni fenomeni naturali associati”), uscito nel 1794. 

La meteorite di Krasnojarsk i cui frammenti sono a Torino è un po’ la madre della sua categoria, le pallasiti, appunto, dal nome del loro scopritore. E proprio un altro pezzo della meteorite siberiana, studiata da uno scienziato inglese che lavorava a Napoli permise di fare una scoperta importantissima per la definitiva accettazione della teoria dell’origine cosmica delle “pietre celesti”.

Viaggio al centro della pallasite

Era il geologo William Thomson (1760-1806): intorno al 1803, esaminando uno dei pezzi del meteorite e ripulendolo con dell’acido nitrico, ne notò delle strutture curiose e intricate, e, agli inizi dell’anno successivo, per primo ne pubblicò la descrizione in francese, sulla rivista Bibliothèque Britannique (vol. 27, 1804, pp. 135-154). Poco tempo dopo il lavoro pionieristico di Thomson comparve anche, tradotto, nel nostro paese (“Saggio di G.Thomson sul ferro malleabile trovato da Pallas in Siberia”, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Siena, tomo 9, 1808, pp. 37-57)

Si tratta di strutture a striscia, poi chiamate dal nome dell’altro descrittore, il tedesco Alois Widmanstätten (1754-1849), “figure di Widmanstätten” (ma Thomson lo precedette). La loro presenza nelle componenti metalliche di meteoriti come le pallasiti e le ottaedriti permette di provarne l’origine extraterrestre. Non è tuttavia vero il contrario: ci sono classi di meteoriti metalliche che non contengono le figure di Thomson-Widmanstätten, pur arrivando dallo spazio esterno anche quelle.

Foto di Waifer X, da Wikimedia Commons, licenza CC BY 2.0.

Vista l’importanza della meteorite di Krasnojarsk, i suoi frammenti furono per tutto l’Ottocento oggetto di scambio tra gli studiosi e poi di collezionismo. Oggi, in Italia, numerosi musei e università ne possiedono degli esemplari, dal Museo di Storia Naturale di Milano al Real Museo Mineralogico di Napoli, dal Reale Museo di fisica e storia naturale di Firenze al Museo di Mineralogia di Parma. La provenienza originaria del pezzettino torinese ci sfugge: è possibile ricostruirne solo la parte più recente del percorso. Stando ai cataloghi delle raccolte del Museo Regionali di Scienze Naturali (p. 120), nella seconda metà dell’Ottocento faceva parte della raccolte del mineralogista Giorgio Spezia (1841-1920), che fu docente all’Università di Torino e inventore di un metodo per creare quarzi artificiali; poi passò a un altro collezionista piemontese, Aldo Giuseppe Roggiani (1914-1986): alla morte di quest’ultimo, giunse al museo torinese. 

Il pezzetto per ora non è visibile nelle vetrine dell’istituzione della città piemontese, le cui attività e strutture sono in corso di profondo rinnovamento e stanno cominciando a offrire al pubblico un’offerta all’altezza delle concezioni museologiche correnti. Dalle informazioni che abbiamo assunto presso il Museo, tuttavia, dovrebbe esserlo in futuro. È anche il nostro auspicio. Visto il significato di quella pietruzza, sarebbe bello procurarle un angolino nel quale poterla ammirare. 

Si ringrazia Fulvio Giachino per le informazioni fornite. Immagine di apertura da WikiCommons, pubblico dominio