Guglielmo Baldessano: i gesuiti, la Compagnia di San Paolo e i “mostri” piemontesi
Giandujotto scettico n° 156 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Negli anni ‘60 del Cinquecento le guerre di religione fra cattolici e protestanti devastavano l’Europa. Anche l’Italia settentrionale ne era colpita: qui le forze cattoliche erano in netta prevalenza. A farne le spese furono soprattutto i valdesi, nelle valli occidentali del Piemonte, che dal 1532 avevano aderito alla Riforma protestante, dando vita a una chiesa ad ordinamento calvinista. Sebbene le violenze a sfondo religioso dei secoli XVI e XVII abbiano toccato gran parte d’Italia, ben poche altre zone del nostro paese videro persecuzioni religiose così gravi come quelle nel territorio dei Savoia.
È su questo sfondo generale che si colloca la figura di Guglielmo Baldessano, autore di un curioso manoscritto intitolato Trattato dei monstri.
Il contesto storico
Per capire meglio di cosa si tratta, possiamo affidarci alla storica Elisabetta Lurgo, attualmente professore associato presso la Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Strasburgo. Particolarmente interessata alla storia religiosa piemontese e delle aree di confine con la Francia nel lungo periodo delle guerre di religione europee, fra i suoi innumerevoli contributi uno in particolare ci è parso potesse essere di specifico interesse per i lettori del Giandujotto scettico. Si tratta di “Luterani, zwingliani, calvinisti, politici: i monstri di Guglielmo Baldessano”, pubblicato nel 2009 nella Rivista di Storia del Cristianesimo (vol. 6, n. 2, pp. 435-488).
Nel 1563, a Torino – così esordisce il lavoro – accadde un fatto fondamentale per capire il testo di Baldessano. Quell’anno, infatti, nacque quella che poi si chiamerà Compagnia di San Paolo. Un’organizzazione basata su un modello di fede che vedeva al centro la concezione cattolica del sacramento eucaristico, ma – anche – una lotta senza quartiere ai protestanti italiani e a chi chiunque manifestasse idee religiose diverse da quelle della chiesa di Roma, che aveva appena chiuso il concilio di Trento, punto di coagulazione delle idee e della riorganizzazione della Controriforma cattolica.
Insieme, nota Lurgo, la nascita della Compagnia e l’avviamento dei collegi gesuiti in Piemonte erano parte importante del programma di restaurazione del dominio cattolico che vide in prima linea il sovrano del tempo, il duca Emanuele Filiberto. Con queste azioni il duca voleva anche riaffermare il suo controllo su Torino, contro la presenza militare francese e le autonomie locali. Cercare di sopprimere con le armi la chiesa valdese, radicata ai confini occidentali del ducato, voleva dire anche far prevalere il suo potere.
È in questo quadro che operò il personaggio che ci interessa e che Elisabetta Lurgo ha studiato: Guglielmo Baldessano.
Figlio di tempi violenti
Nato intorno al 1545 a Carmagnola, a lungo sotto il dominio francese, Baldessano risentì probabilmente del timore diffuso che la presenza delle truppe d’oltralpe facilitasse la diffusione del protestantesimo. Per questo, dopo essersi addottorato in medicina, entrò nella Compagnia di San Paolo, diventò sacerdote nel 1580 e, anni dopo, giunse ad essere canonico della cattedrale di Torino. Lurgo nota che la produzione di Baldessano fu poco considerata dagli storici, sia per la qualità non eccelsa della scrittura, sia per il fatto che sul piano dell’attendibilità storiografica era largamente carente e indulgeva in ogni genere di forzatura. Questo, però, agli occhi di Lurgo (e, per quel che vale, anche dei nostri) non lo rende meno interessante.
Nelle opere edite, in effetti, Baldessano mette insieme ogni genere di credenza, leggende su reliquie, santi e martiri, dando tutto per vero, a partire dalla storia della legione tebea, che si sarebbe convertita al cristianesimo sotto la guida del guerriero (e poi santo cattolico) Maurizio. Ma se Baldessano dà credito a queste leggende, è per seguire un programma politico preciso e tutto contemporaneo a lui: la promozione a leader politico della cristianità cattolica del duca Carlo Emanuele I, figlio e successore di Emanuele Filiberto. Così, la guerra condotta dall’esercito sabaudo contro le popolazioni protestanti piemontesi diventava un parallelo delle mitiche lotte antiche della legione tebea contro il culto di Iside, negli stessi territori…
I mostri in Piemonte, minaccia alla fede
Il testo con il quale Baldessano trascende anche questa dimensione però è un altro. Si tratta del manoscritto, mai concluso e pubblicato, della Historia ecclesiastica della più occidentale Italia e Chiese vicine.
Baldessano lavorò a lungo a quell’opera, almeno sino al 1607, anno più tardo menzionato in quelle pagine. È probabile, argomenta Lurgo, che Baldessano volesse contrapporla a un’opera protestante di successo in quegli anni, l’Ecclesiastica Historia del teologo luterano Mattia Flacio Illirico (1520-1575) e dei suoi collaboratori tedeschi. Un confronto improbabile, vista la differenza di statura intellettuale fra i due personaggi. Anche se ovviamente Illirico si muoveva nell’ambito del quadro confessionale che gli era proprio, le sue opere sotto molti profili sono da considerarsi come uno dei fondamenti delle moderne teorie interpretative delle fonti, e hanno inciso a lungo sulla nascente storiografia tedesca. Le pagine di Baldessano, invece, non mostrano nessun interesse di quel tipo. Anche così, tuttavia, sono utili per capire il clima in cui furono prodotte. Per Baldessano, era come se il Piemonte, una regione abbastanza marginale nell’Europa del tempo, fosse destinata a essere non solo il centro del continente, ma dell’intera storia mondiale.
Dopo la morte di Baldessano, un suo collaboratore, il gesuita Bernardino Rossignoli, avrebbe dovuto continuare il manoscritto e darlo alle stampe, ma lui stesso scomparve pochi anni dopo, nel 1613. Per questo, il lavoro rimase inedito e pochissimo conosciuto se non agli specialisti. L’ultima parte dello scritto di Baldessano è rappresentato da una Giunta, una specie di supplemento piuttosto disordinato. Ebbene, questa parte si apre con un curioso e breve scritto, il Trattato dei monstri.
Le nascite mostruose nel Cinquecento: un problema teologico
Per Elisabetta Lurgo è proprio la fonte principale usata da Baldessano per il suo Trattato a indicarne da subito e con chiarezza l’intenzione. Il riferimento è al De monstris, uscito a Parigi nel 1570 a firma del vescovo e teologo cattolico Arnauld Sorbin. Un’opera con la quale s’intendeva reagire alla moda del “mostruoso” che, partita dalla Germania, stava dilagando anche in Francia dopo l’uscita delle Histoires prodigeuses, pubblicate dieci anni prima dal nobile Pierre Boaistuau. Quello che non andava a genio a Sorbin era il fatto che si stesse affermando un gusto dell’insolito, dei casi insoliti, di cronaca o su eventi sconcertanti, descritti nei dettagli con gusto barocco, e anche dei “mostri” intesi come curiosità, visti come un angolo sconosciuto della realtà. Il “mostro”, per Boaistuau è un qualcosa di raro, con il quale spaventarsi ricordandoci quel che comporta la nostra condizione di esseri caduti dalla condizione perfetta in cui eravamo nell’Eden, ma non senza ammiccamenti alla passione per il “meraviglioso”.
Sorbin reagisce a tutto ciò, e cerca di contrastare l’influenza culturale di Boaistuau: la comparsa dei mostri per lui va letta in chiave strettamente teologica. In funzione dei tempi tremendi – le guerra di religione – il fatto che si moltiplichino è un indice dell’ira divina per il caos portato in Europa, centro della cristianità, dalla rivoluzione protestante.
Nessuno si faccia illusioni, comunque. Processi culturali e psicologici che inducevano a una violenza estrema erano in corso un po’ ovunque sui fronti religiosi contrapposti. In altre parti d’Europa, infatti, a soccombere e a essere oggetto di dicerie assurde, di persecuzioni e di fantasie più o meno incredibili erano i cattolici. Ne abbiamo mostrato un esempio, e nemmeno dei più estremi, nelle storie raccontate dal teologo luterano svedese Joen Petri Klint, attivo proprio negli stessi anni in cui lo era Baldessano. Anche lui, proprio come l’italiano, produsse un manoscritto (a dire il vero, molto più importante di quello di Baldessano), in cui meteore e prodigi di ogni tipo erano indice di ciò che di peggio poteva esserci nell’Europa e nella cristianità: il papato, i preti e il sacramentalismo stabilito dal Concilio di Trento. L’Europa meridionale e i suoi riti erano lontanissimi, un mondo remoto geograficamente e sotto ogni altro profilo.
I mostri come “segno” di ciò che deve accadere
Per tornare a Baldessano e al lavoro di Lurgo, non va dimenticato, nell’occuparsi del Trattato dei monstri, un altro aspetto importante del gusto per la teratologia allora imperante nel continente: quello divinatorio.
I “mostri” erano segni di eventi futuri, e potevano quindi essere utilizzati, in specie in area tedesca, per capire cosa doveva accadere. La rivalutazione umanistica della divinazione greco-romana, così intensa nel Rinascimento, faceva il resto. Quei mostri, comunque, erano intesi come creature reali, umane e animali, davvero presenti nel mondo: il gusto per l’esotico, per certi versi già virante verso l’attrazione per la curiosità scientifica e per la tassonomia scientifica, si faceva sempre più presente.
Dunque, a seconda di chi se ne occupa, in quel tempo le due interpretazioni sono in tensione più o meno forte tra loro: il “mostruoso”, l’insolito, sono fonte di diletto e d’insegnamento, oppure, sono instrumentum regni politico e religioso. Ed è proprio l’attrazione per la curiosità, la descrizione dettagliata e l’attenzione per il grottesco che, nel loro insieme, Sorbin e il suo allievo piemontese Baldessano respingono. Quei “segni” per loro non sono altro che ammonimenti. Possono forse avere origine interamente nel mondo della natura, ma se ci sono è proprio perché, ammessi da Dio, servono per rafforzare la fede. La natura ha il suo ruolo, in tutto ciò, ma soltanto perché è uno specchio, una versione visibile – commenta ancora Lurgo – di ciò che attende i singoli e il mondo intero.
Nascite mostruose e dove trovarle
È ancora Lurgo a far notare che in Italia l’interesse per queste cose comparve abbastanza tardi: la celebre Monstrorum Historia di Ulisse Aldovrandi, pur scritta negli ultimi anni del XVI secolo, fu pubblicata soltanto diversi decenni dopo. E se è vero che di norma la comparsa della mostruosità nella pubblicistica di quegli anni era letta come evidenza del peccato sessuale da parte della donna che li aveva generati (perché, di nuovo, questi “mostri” in sostanza sono un prodotto dell’umanità), Baldessano con il suo manoscritto fa eccezione: i mostri nel mondo non sono un fatto “individuale”; sono la conseguenza concreta di una situazione generale gravissima, alla quale i Savoia, per grazia di Dio, stanno cercando di porre un argine.
Tuttavia, dal punto di vista religioso Baldessano era talmente zelante da non preoccuparsi troppo di esprimere velate critiche persino alla corte sabauda che pure magnifica. Quando in Francia, nel ducato di Berry nacque un “mostro”, argomentava Baldessano, ne era signora Margherita di Valois, che nel 1559 aveva sposato il duca di Savoia, ossia Emanuele Filiberto I, uno dei campioni assoluti della difesa della fede cattolica contro i protestanti. Ebbene, il religioso suggeriva che la comparsa del mostro nel ducato di origine di Margherita fosse una sorte di avvertimento alla corte torinese, perché lei – inutile dirlo, per mera ingenuità – vi aveva ospitato persone con “opinioni repugnanti alla fede catolica”. Su come interpretare la nascita del mostro, argomentava Baldessano, all’Università di Torino si erano scontrate opinioni diverse: per fortuna, alcuni dei dotti, “dotati di zelo della religione catolica accompagnato da luce soprannaturale” ne avevano compresa la funzione di monito.
Quello che Baldessano temeva come la peste era la possibilità di un qualsiasi accordo, tregua o compromesso con i protestanti calvinisti (cioè, con la chiesa valdese e le sue milizie). Per questo, occorreva dar retta ai segni rappresentati dalla nascita dei mostri: i politiques, invece, come li chiamava lui, non si rendevano conto che la convivenza con i nemici ne avrebbe permesso il radicamento nel ducato.
Prodigi celesti e un vitello con tre teste a Torino
A confermare questa idea, Baldessano citava un caso specifico. Nelle campagne torinesi era nato un vitello con tre teste, e sulla sua natura ferveva il dibattito all’Università. Per lui si trattava di una chiara figurazione delle controversie teologiche in corso. Forse si trattava di un ammonimento contro gli attacchi alla dottrina della trinità divina da parte del teologo saluzzese Giorgio Biandrata (1516-1588), che girava l’Europa e che, peraltro, a Ginevra si era messo in rotta anche con i protestanti calvinisti. Per altri, le tre teste simboleggiavano la lotta fra concezioni diverse del sacramento dell’Ultima cena, quella luterana, quella diffusa da Zwingli nella Svizzera tedesca e quella cattolica, oppure l’inconciliabilità fra i modi di organizzare la chiesa proprie del cattolicesimo e delle due ali maggiori del protestantesimo, il luteranesimo e il calvinismo. Per Baldessano il guaio era che, comunque stessero le cose, nessuno aveva dato retta al messaggio inviato da Dio: la ricerca di una “dannevole pace” con i protestanti era una vera e propria sciagura.
In Piemonte però c’erano stati però anche prodigi celesti, che avevano annunciato la nascita del mostro nel ducato di Berry – quello fatto per ammonire il circolo di Margherita, moglie di Emanuele Filiberto. A Fossano, nel Cuneese, erano comparse “moltiplicate comete”; a Centallo, nella stessa provincia, in cielo si erano viste “numerose schiere di cavalieri”, mentre sangue era piovuto a Pancalieri, nel Torinese, e in altre località della regione. D’altro canto, in contemporanea, nel 1577, nota Lurgo, lo storico Filiberto Pingone pubblicava la sua storia di Torino, Augusta Taurinorum, nella quale i fenomeni atmosferici che tanto preoccupavano Baldessano erano letti da uno dei principali maggiorenti della corte sabauda come presagi non necessariamente sfavorevoli. Nel giugno del 1561 nel cielo della città erano comparse “comete, e, intorno al Sole, cerchi di vari colori”: per lui, presagio del fatto che Torino sarebbe stata risparmiata da un’epidemia di peste che infieriva nel ducato e altrove. Insomma, non è che per forza Baldessano si muovesse su un terreno condiviso da tutti.
Una nascita anomala nel Vercellese
C’è però un altro “mostro” sul quale Elisabetta Lurgo si sofferma con particolare attenzione, perché Baldessano lo lesse in un modo differente dal suo solito. Il “parto mostruoso” sarebbe avvenuto nel 1583 a Livorno Ferraris (Vercelli): si trattava di un bambino simile a un’anatra nella parte inferiore del corpo, e con due ali mozzate al posto delle braccia. Secondo il racconto, si era messo a camminare appena nato, e la madre lo aveva nascosto. Il fatto però sarebbe giunto a una persona importante originaria proprio della Livorno piemontese, cioè Giacomo Rossignolo, pittore di corte di Emanuele Filiberto, specializzato proprio nella rappresentazione di esseri di fantasia e celebre per le sue grottesche – le decorazioni di quel genere – che ne fece una rappresentazione per il sovrano. Anche questo parto era interpretato come monito contro le machinationi dei protestanti in Piemonte, contro le quali per fortuna si ergeva la muraglia dei gesuiti; ma ecco che a quella spiegazione Baldessano ne aggiungeva un’altra, di segno diverso.
La donna, infatti, aveva rotto una promessa di matrimonio per un uomo più facoltoso. Per questo, Dio l’aveva punita direttamente. Aveva partorito un bambino del tutto diverso però da un essere umano. E non era l’unico caso, aggiungeva lo zelante Baldessano: a una donna adulterina piemontese era nato un essere “con le corna in capo e con le mani, piedi e altri membri che rappresentavano un demonio”.
Insomma, conclude Lurgo: il signum della mostruosità per Baldessano di norma è usato come una clava violentissima per sostenere le ragioni della sua confessione e della stabilizzazione del ducato sabaudo nel pieno delle guerre di religione europee. Ciò non esclude, tuttavia, che in qualche occasione – al bisogno – Baldessano non tornasse a una visione più tradizionale, se si vuole meno moderna e inutilmente colpevolizzante verso la madre, di ciò che usciva da un ordine naturale divinamente stabilito: il controllo dei comportamenti individuali, in specie di quelli privati della donna, punita nella sua intimità in maniera tremenda, per violazione di norme di purità o di gestione della propria sessualità.
Altro, Guglielmo Baldessano, figlio di tempi violenti, non riusciva a intravedere.
Immagine in evidenza: By Sailko – Own work, CC BY 3.0, dalla Monstrorum Historia di Ulisse Aldovrandi.