1 Novembre 2024
Giandujotto scettico

La bestia piemontese del maggio 1931

Giandujotto scettico n° 153 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (14/12/2023)

Nel pomeriggio del 7 maggio 1931, nella città di Torino si diffondeva una strana voce: nei pressi di Carmagnola e di Villastellone, nelle pianure a sud della città, si stava svolgendo una battuta di caccia grossa. Un centinaio fra cacciatori e carabinieri erano impegnati nelle ricerche di qualcosa di davvero insolito: una misteriosa bestia feroce poco distante dalla maggiore città del Nord-Ovest! 

La Gazzetta del Popolo del giorno seguente fu la prima a occuparsi di quanto stava accadendo. Anzi, fu proprio quel quotidiano a dare grande enfasi all’intera storia di cui oggi ci occuperemo. Né il maggior quotidiano torinese, La Stampa, e nemmeno i periodici locali delle zone interessate da questa vicenda gli dedicarono un’attenzione paragonabile a quella datole dalla Gazzetta.

Panico fra i contadini

La redazione della Gazzetta del Popolo, dunque, quel pomeriggio si mise in contatto telefonico con i comuni al centro delle voci arrivate fin nel cuore di Torino, ed ebbe subito conferma di quanto stava capitando. Da quindici giorni, gli abitanti dell’area compresa fra Villastellone, Carignano e Carmagnola sostenevano che l’uccisione di diversi cani da guardia (anche di grossa taglia!) e di parecchi animali domestici era dovuta a una bestia non ben classificata, ma comunque dotata “di potenti artigli e di formidabili zanne” che si aggirava nella zona impunemente.

Fin dal primo momento, la Gazzetta del Popolo non ebbe particolari remore a identificare quel presunto animale con un felino: doveva essere fuggito da qualche gabbia, scriveva, e ora stava riacquistando tutte le sue peggiori abitudini, in precedenza sopite dalla cattività. 

C’era da aver paura, soprattutto per i bambini!

La situazione, comunque, precipitò la mattina del 7 maggio. In quelle ore, un agricoltore si trovò vicino alla bestia, e per la paura si rifugiò su un palo telegrafico lungo una strada provinciale. Per lo spavento non riuscì né a vederla bene, né tantomeno a descriverla; ma ormai la frittata era fatta. Fu infatti questo episodio di quasi-avvistamento a innescare la prima di una serie battuta di caccia, tutte volte a catturare quella che noi abbiamo chiamato la bestia del maggio

A rendere tutto più plausibile, nei ragionamenti dei protagonisti della storia, era già intervenuto un tipico meccanismo di razionalizzazione a posteriori, e cioè la ricerca di un elemento precedente alla comparsa delle dicerie sulla presenza della bestia, che, dapprima ignorato, adesso diventava fondamentale. Sembra che intorno al 22 aprile il serraglio di un circo con animali esotici avesse sostato a Carmagnola per una notte; al mattino seguente era ripartito.

Qualche giorno dopo, un grosso cane da guardia della cascina San Marco (presso Borgo Cornalese, fra Villastellone e Carmagnola), appartenente ai conti De Maistre, era stato ritrovato sbranato e in parte divorato. I resti erano raccapriccianti. Due giorni dopo, un altro grosso cane da guardia era stato sbranato in località Tetti Faule. Il suo padrone lo aveva seppellito, ma al mattino dopo la fossa risultava scavata, e il cadavere in parte divorato.

Fu a quel punto, a quanto pare, che la voce assunse tratti precisi. Doveva trattarsi di una iena fuggita dal serraglio passato da Carmagnola, e al quale allora nessuno aveva finora fatto caso!

Notti dopo, un altro agricoltore di Tetti Faule aveva sentito il suo cane abbaiare furiosamente. Era sceso nell’aia e aveva udito un “grido famelico, come mai aveva udito prima”. Aveva cercato di aizzare il cane in direzione del grido, ma niente: il cane si era rifiutato di uscire di casa, terrorizzato. Alla fine, era giunto un vero quasi-avvistamento, quello fatto da una guardia campestre della tenuta De Maistre. Aveva intravisto un animale grosso, dalle orecchie appuntite, che sembrava procedere a balzi. Dopo pochi secondi, però, la bestia era sparita in un campo di meliga, nel buio della notte. La mattina del 7 maggio, poi, la vicenda di cui vi abbiamo già parlato, quella dell’uomo che si era rifugiato sul palo telegrafico, dopo aver scorto “una bestia dall’aspetto assai poco rassicurante” in località Verna. Prima di sparire, l’animale gli aveva ringhiato contro. Appena aveva potuto, l’uomo era corso alla stazione dei Carabinieri di Villastellone, dove aveva descritto al maresciallo comandante “una bestia dal muso piuttosto rotondo, ed un corpo striato di giallo e di nero”. 

Fu il comandante di questo presidio, maresciallo Garino a decidere la prima battuta di caccia e a convocare a tambur battente i cacciatori della zona. A quel punto, la storia giunse a Torino, e dal giorno seguente assunse un’enorme rilevanza pubblica. 

Così, a Villastellone, si assistette nelle prime ore del pomeriggio a uno spettacolo davvero insolito: da Carmagnola, da Carignano e fino da Santena, i cacciatori affluirono con tutti i mezzi di locomozione: automobili, motociclette, biciclette, e sfilarono rapidi, dirigendosi a Borgo Cornalese, dove il maresciallo dei Carabinieri aveva costituito, diciamo così, il quartier generale della grande battuta. Quivi erano stati preceduti dai cacciatori di Villastellone, ed in breve oltre un centinaio di uomini armati si trovarono pronti a battere la campagna. Il maresciallo prese la direzione, coadiuvato dal brigadiere, da quattro carabinieri e da parecchi militi nazionali, e la caccia incominciò dalla frazione Verna fin verso Trofarello.

Furono quasi subito trovate delle impronte, piuttosto grosse, che furono associate all’incontro fatto al mattino – quello del palo telegrafico. Avrebbero mostrato “potenti unghie, e qualcuna di esse allungata dall’impronta di parte della gamba”. La cosa impressionò parecchio, tanto che dalla prima ipotesi, quella della iena fuggita dal serraglio ambulante, si passò a quella di una grossa tigre. Una voce in crescita col trascorrere della giornata del 7 maggio.

La grande battuta non fruttò altro. Evidentemente, commentò fiduciosa la Gazzetta del Popolo, il “grosso animale” si era nascosto, oppure era sfuggito alla battuta allontanandosi dalla zona. A sera, tornati indietro senza niente se non le impronte scoperte subito, le discussioni dei cacciatori non erano più sulla reale presenza di una bestia – iena, tigre, o anche pantera – ma sulla sua natura. Tutti sembravano certi che ci fosse.

Con una nota interessante: avrebbe potuto trattarsi anche di “una bestia nostrana”, una bestia che “non osa assalire l’uomo”. Anni prima, scriveva c. p., l’autore del chilometrico articolo e di quelli che seguiranno, una di quelle bestie aveva ucciso dei cani, prima di essere abbattuta a sua volta. A quale animale faceva riferimento? Beh, a un tasso canino. 

Tassi canini, tassi porcini e altre bestie fantastiche

Forse, soprattutto se avete rapporti con le culture meno urbanizzate, del “tasso canino” avrete ancora sentito parlare. Il tasso (Meles meles) è un grande mustelide comune in parecchie zone d’Italia. Può raggiungere dimensioni ragguardevoli, e peso che in qualche occasione può superare i 20 chili, specie nei maschi. 

Quello che ci interessa, però, è l’appellativo attribuitogli con grande fiducia dalla Gazzetta del Popolo: la bestia poteva essere un “tasso canino”, specie ben distinta dal “tasso porcino”. 

Li si trova entrambi menzionati in libri e racconti, sul web, nei ricordi di un gran numero di persone, soprattutto quelle legate alla memoria della cultura agricola o delle aree montane. Si distinguerebbero fra loro perché il tasso canino sarebbe carnivoro, dalle carni amare e dal naso a punta, mentre il tasso porcino sarebbe vegetariano, più grosso, dal naso corto, buono da mangiare.

La credenza non è moderna, e non è certo limitata all’Italia. Una menzione antica, proveniente dall’Europa meridionale, è in una fonte illustre: tasso canino e tasso porcino sono descritti nel 1555 dall’umanista religioso cattolico svedese Olao Magno (1490-1557), che si era trasferito a Roma dopo la vittoria della Riforma protestante nel suo paese. La sua Historia de gentibus septentrionalibus raccoglie storie, conoscenze zoologiche e naturalistiche svedesi – a volte molto fantasiose – e fu tradotta in italiano dieci anni dopo la sua uscita. In quest’opera, Olao Magno dà per scontata l’esistenza di tassi canini e porcini, spiegando nel libro diciottesimo che il primo è tale perché ha l’unghia fessa, mentre il secondo ha le unghie divise, come il cane. 

Il libro del grande umanista ebbe fortuna notevole nel nostro paese e in mezza Europa. L’attribuzione della “bestia del maggio” a una specie di tasso fantastico è notevole, perché si tratta di una fusione tra il folklore tradizionale, quello sui vari tipi di tassi, e il folklore contemporaneo sui felini misteriosi, oggi ubiquo in parecchie parti del mondo. 

Il panico dilaga: tutti cacciatori!

Il 9 maggio del 1931 la Gazzetta del Popolo non sembrava in grado di trovare spazio sufficiente per le proprie corrispondenze, tanta era l’attenzione che dedicava alla bestia. Vero – scriveva c.p., il cronista ormai narratore unico della storia – c’erano gli scettici, ma la paura estrema che i testimoni avevano provato in realtà garantiva per loro, e proprio il fatto che le descrizioni fossero poco chiare era una conferma di quanto doveva essere insolito ciò che avevano visto. Anzi, era proprio il fatto che gli agricoltori conoscessero bene (?) com’erano fatti il tasso canino, o persino una lince (a differenza di quanto avveniva con la fauna esotica, per esempio una pantera) a convincerlo che in quei posti si aggirasse qualcosa di mai presente prima di allora. 

Da lontano che cosa sembrava, chiedeva c. p. ai testimoni: “Beh, a un grosso cane lupo rinselvatichito!” E da vicino?: “Ah, si rimescolava il sangue, non sono in grado di descriverla!”

Insomma, l’emozione, la paura e la sensazione di qualcosa di terribile vissuto dai testimoni diventava la chiave per interpretare tutto. In tempi più recenti, la stessa logica diventerà consueta per fantocci, sagome o cose simili scambiate magari per un alieno sceso da un Ufo. Lo era già da molto tempo per gli avvistamenti di fantasmi.

I discorsi che si possono leggere sulla Gazzetta del Popolo del 9 maggio sono davvero da manuale:

Quando la bestia è vicina, colui che la guarda comincia, tutto d’un tratto, a vedere delle cose completamente differenti: uno vede un palo telegrafico, che gli fa venire l’idea di arrampicarcisi sopra; un altro, trovandosi su un carro, afferra la frusta e si mette a guardare la groppa del cavallo mentre ci picchia sopra; un terzo, vede la strada davanti a sé, ma dalla parte opposta rispetto a quella dove si trova un animale, ed intanto, automaticamente, le sue gambe lavorano con la massima velocità; un quarto, infine, si ricorda che ha la rivoltella, ed istintivamente la toglie di tasca e spara, mancando il bersaglio.

Si potrebbe trovare un’elegia migliore della soggettività della testimonianza umana? 

Nel frattempo, gli incontri si moltiplicavano a dismisura, sempre inconcludenti. A Verna la bestia era stata intravista da un carrettiere, a Carignano da un motociclista che per qualche istante aveva illuminato “un grosso cane, o simile”, a Pomaretto, di nuovo verso Verna, c’era un animale che aveva saltato un muretto, dileguandosi; di mattina presto, ancora a Verna, una donna era scappata dopo che una grossa forma oscura aveva fatto un balzo verso di lei, mentre più tardi un’ombra era stata vista nella nebbia dai primi cacciatori giunti per dare manforte alla gente del posto…

Insomma, una vera ondata di segnalazioni nel giro di 36 ore. 

Al pomeriggio fu organizzata una seconda, vasta battuta, stavolta con l’intervento diretto delle autorità politiche, nella forma di un manipolo di Camicie Nere; ma niente. Ecco il motivo di quella caccia infruttuosa, spiegava c. p.: ormai l’animale si era spostato verso Villastellone! Un uomo proprio in quel comune aveva visto una grossa bestia presso il Po: per lui, aveva un manto grigio-striato. Fu il primo a prenderla di mira per ucciderla, esplodendo due colpi di rivoltella, ma senza esito. Al mattino, peraltro, c’era stata una prima segnalazione in una zona diversa, ma la notizia era arrivata in ritardo. Si trattava delle campagne di Moncalieri, sul torrente Sangone, dove era stato ritrovato un grosso cane da pastore sbranato. Forse la bestia assassina, dunque, non era andata a Villastellone, cioè a est, ma verso nord, a Moncalieri!

Dopo tutta questa sarabanda, tornavano le consuete ipotesi: la iena sfuggita da un serraglio – brutta com’è, poteva spiegare la repulsione dei testimoni e la loro confusione (!), oppure un grosso cane lupo randagio, che aveva vagato tempo prima alla periferia di Torino e che poi era stato catturato, battezzato Lampo e infine regalato a un abitante di Fossano (Cuneo), dalla cui custodia però si era sottratto, sparendo. Un cane, questo Lampo, che diventerà rapidamente uno dei protagonisti involontari di questa breve, ma concitatissima saga.

Malgrado qualche altro pezzo sporadico (L’Arco, Chieri, 9 maggio) la Gazzetta del Popolo continuava a farla da padrone, nel silenzio assordante del resto della stampa di città e di provincia.

Prenderla viva, o morta?

Nella sua prosa inarrestabile c.p., il 10 maggio, introduceva nella nuova paginata per la Gazzetta del Popolo nuovi elementi narrativi, forse perché la noia era già in agguato. 

C’erano ulteriori avvistamenti della bestia e ritrovamenti delle sue presunte tracce, ma siccome la voce dilagante produceva segnalazioni da zone piuttosto diverse fra loro, la cronaca si faceva difficile da seguire. La bestia misteriosa sembrava essersi avvicinata a Torino, spostandosi nel comune di La Loggia. Per spiegarne la quasi ubiquità, il cronista faceva ricorso a un artificio retorico: la “furbizia quasi diabolica dell’animale”. Un aspetto talmente accentuato da far apparire la “bestia” come qualcosa di “non naturale”, in grado di sfuggire a tutto e a tutti. Al mattino del giorno prima un contadino l’aveva vista fissarlo negli occhi, “con l’atteggiamento mezzo sornione e mezzo prepotente”. Altri allarmi si erano susseguiti in aree diverse nelle ore successive. Forse la belva era persino “invulnerabile”, dato che per due volte, quel giorno, uomini della Milizia l’avevano vista nelle campagne di Villastellone e le avevano sparato invano con la pistola. 

Falsi allarmi, dunque? Frutto della paura? Ma no, rassicurava il giornalista. La descrizione, ormai, dopo tutti quegli eventi, stava diventando coerente: si trattava di una bestia di colore grigio scuro, con delle strisce fulve, orecchie corte appuntite, pelame irto intorno al collo, testa ampia e muso lungo, coda lunga e assai folta, “con un’espressione particolare piuttosto sconcertante, completamente diversa da quella di tutti gli altri cani”. Insomma, un kit di dettagli, fusi per dare l’idea di qualcosa di davvero insolito – non un cane, e nemmeno il mitologico tasso canino – ma un bestione la cui natura diventava sempre più incerta. 

La vera novità della giornata però era un’altra, ed era di tutt’altro genere. Si stava delineando uno scontro culturale tutto sommato “moderno”, che, dietro la questione della caccia alla fiera fantomatica, lasciava scorgere idee del tutto diverse sul concetto di natura e sul rapporto con essa. 

La mattina del 9 ottobre, infatti, il presidente della Società venatoria, l’avvocato Ubertis, aveva dato veri e propri ordini militari ai capi delle sezioni di Moncalieri, Villastellone e Carignano perché iniziassero una serie di battute ancora più vaste e sistematiche delle precedenti, con munizioni per la caccia grossa. La disposizione era chiara, e senza equivoci: abbattere l’animale. A questo atteggiamento però ne faceva da contraltare un altro: quello della Società protettrice degli animali, entrata in scena in maniera del tutto particolare. In realtà, nemmeno i difensori degli animali chiedevano di risparmiare il misterioso bestione: sostenevano però che la bestia… tale non era. Per loro era il pastore tedesco fuggito da Fossano, Lampo. Grosso, affamato, ma non certo un grande felino esotico.

Il vice-presidente della Società, un altro avvocato, Francesco Garizio, si era recato a La Loggia insieme a un agente giurato per provare a convincere i testimoni che ciò che avevano intravisto era solo un cane, e poi si era spostato a Moncalieri, per sostenere la stessa tesi con il comandante della stazione dei Carabinieri, maresciallo Farinelli, organizzatore delle battute nella zona di sua competenza.

C’è bisogno di dirlo? Dalla giornata, quelli della Società protettrice degli animali ne uscirono ancora più convinti che l’animale fosse un cane, i cacciatori, invece, sicuri che si trattasse di un animale esotico – magari anche soltanto di una iena, se non di una tigre o di qualcosa di altrettanto grande. 

Gli amici degli animali però stavano organizzando una loro… contro-battuta, senza armi, persuasi di riuscire a catturare il cane e di poterlo riaddestrare. Offrivano anche un premio di cento lire per chi avesse fornito indicazioni utili alla cattura, oppure per chi avesse riportato il presunto cane sano e salvo ai suoi proprietari.

Si è quindi aperta una specie di gara fra la Società protettrice e la Società venatoria, cioè fra quelli che vogliono la “belva” viva e quelli che invece la vogliono morta.

Proprio in questo conflitto tra modi diversi di approcciare la questione sta, a nostro parere, la parte più originale di questa vicenda. Risalendo a tempi ormai remoti, questa tensione suggerisce che lo scontro su come agire nel caso di presunti animali non ben identificati ma ritenuti pericolosi fosse già presente da molto tempo. Probabilmente, già nella prima parte del secolo scorso sottendeva una divisione culturale, magari fra aree urbane e aree rurali, oppure fra individui che esercitavano professioni diverse, alcune di tipo più intellettuale, altre legate alla gestione diretta del territorio, o all’ordine pubblico. 

Per il resto, la Gazzetta del Popolo non mollava. La mattina dell’11 maggio si susseguirono gli ormai consueti mezzi avvistamenti, ormai in numero davvero incredibile; da notare quello di una donna che, recandosi a messa, aveva visto la bestia passare accanto a sé: per lei era un cane. Un volpino, invece, a quanto pare era sfuggito a mala pena alle fauci della bestia misteriosa. E così via, in un raggio di parecchi chilometri a sud di Torino, in un continuo scambio di telefonate, di incontri fra testimoni su strade di campagna e riunioni concitate sulle aie. Forse il solerte cronista, c. p., però ormai presagiva che la storia stava per sgonfiarsi: la colossale battuta del giorno prima, quella organizzata dall’avvocato Ubertis, si era risolta nel nulla. Se non altro, scriveva quasi per giustificare tutte quelle colonne di piombo, era stata “una bella manifestazione venatoria”. 

La descrizione della grande battuta, a leggerla con occhi disincantati, assumeva toni a metà fra le cronache grottesche delle manifestazioni ginniche fasciste e i raduni da circolo lavorativo alla Fantozzi, con “automobili, motociclette, biciclette” che sfrecciavano in ogni direzione in caccia della bestia, mentre si rincorrevano ordini e richiami. Un industriale di Moncalieri molto ricco, che aveva un piccolo campo di volo di sua proprietà, era decollato con il suo aereo privato, sporgendosi verso il basso per cercare d’individuare la bestia.

Qualcuno ne aveva intravisto di nuovo l’ombra, nel buio, e ancora erano stati esplosi colpi di pistola e fucilate; ma la bestia aveva confermato la sua invulnerabilità. Intanto, insisteva c. p., “nei paesi vicini” si andavano mobilitando “il grosso delle forze” e si radunava lo stato maggiore della società venatoria, a dare gli ordini. Quelli di Villastellone, a quanto pare, volevano avere l’onore dell’uccisione.

L’impressione che abbiamo è che c. p. – chiunque egli fosse – se all’inizio pensava, o intendeva far pensare di credere alla reale presenza di un grosso felino, col passare dei giorni, visto l’andazzo, la dispersione delle testimonianze e la mancanza di riscontri chiari, aveva ritenuto più divertente concentrare lo sguardo sugli uomini impegnati nella caccia, lasciando in disparte la sagoma indistinta della bestia imprendibile. Alla loro partenza c’era

“Sventolar di cappelli, salutare di donne, e bimbi dalle porte e dalle finestre”. 

Ogni tanto qualcuno sparacchiava in aria, e si approntavano esche di ogni tipo. Poi, finita la finta guerra, tutti erano sciamati verso trattorie ed osterie. Solo in seguito, a quanto pare, assai meno numerosi e chiassosi, erano giunti quelli della Società protettrice degli animali, armati di qualche catena – caso mai avessero catturato il presunto cane – e di cibo da offrire all’animale, presumibilmente affamato.

Il tramonto dei fieri cacciatori

Il 12 maggio, in cronaca di Torino, Stampa Sera rompeva il silenzio sulla vicenda. Fino a quel momento il maggior quotidiano torinese non si era pronunciato in nessun senso. Ora, invece, con un lungo articolo, (“Caccia grossa”), prendeva in giro senza ritegno sia l’autore delle cronache senza fine della Gazzetta del Popolo, sia il nugolo dei testimoni. Lo faceva immaginando avvistamenti farlocchi di una “bestia feroce” nel pieno centro di Torino, in piazza San Carlo, e poi altrove, sino alla periferia, a Nichelino, e più in là, con ritrovamenti di tracce, colpi di pistola sparacchiati a caso, la sirena della Fiat scambiata per il fischio di un serpente a sonagli… Non mancava nemmeno la rievocazione di un presunto episodio che si sarebbe verificato dieci anni prima, nel 1921-1922, nell’Astigiano e nell’Albese, dove si sarebbe sparsa la voce della presenza di branchi di lupi famelici, con avvistamenti, ritrovamenti di animali sbranati, donne e bambini chiusi in casa e conseguenti cacce grosse organizzate da centinaia di uomini. Non fu mai trovato nulla; un uomo avrebbe poi confessato di esser stato lui, tempo prima, in un bar di Asti, a raccontare di aver visto un grosso lupo in quelle zone, mentre in realtà si trattava di un grosso cane sfuggito dal canile di un allevatore. 

La storia è interessante, e perfino troppo allettante per degli scettici come noi. Ma c’è da stare attenti: questo genere di racconti razionalizzanti possono essere anch’essi parte delle discussioni complessive che insorgono in casi come quello che vi stiamo raccontando. Per capire i meccanismi di questi cicli di voci e di informazioni ambigue, forse è più utile l’ultimo articolo che Gazzetta del Popolo dedicò alla nostra storia quello stesso 12 maggio 1931. 

Visto che l’ultima grande caccia alla bestia non aveva dato risultati, scriveva il quotidiano (e stavolta il pezzo non era firmato), tra la popolazione della zona si era diffusa la convinzione che la bestia non attaccasse l’uomo, e, di conseguenza, un po’ ovunque la tranquillità stava tornando. A questo punto, chiosava ancora la Gazzetta, per la Società protettrice degli animali sarebbe stato più facile catturarla… Gli esponenti dell’associazione avevano persino fatto vedere una foto di Lampo, il cane fuggito da Fossano, a un testimone di Villastellone, e a quello era parso che fosse proprio lui, l’animale fantasma. Del resto, a Villastellone un bambino era corso a casa dai genitori dicendo di aver visto l’animale da vicino, ma la bestia se l’era data a gambe, senza aggredirlo. Davvero, forse non c’era nulla di cui preoccuparsi. Forse era meglio dimenticare. Si era diffusa addirittura la voce dell’uccisione della bestia a Moncalieri da parte di due camicie nere, ma – purtroppo per il giornalista della Gazzetta – la notizia si era rivelata falsa. 

Insomma, la calma stava tornando, sì, ma stava tornando forse ancora di più nei luoghi in cui l’agitazione era stata ben accolta e coccolata, ossia nelle stanze della redazione della Gazzetta del Popolo. L’idea che la colpa fosse di Lampo, il cane altrettanto introvabile della “bestia” ma ferocissimo con gli altri animali, fu accolta il 13 maggio anche dal settimanale cuneese La Fedeltà, che in realtà non faceva altro che ripetere quanto ipotizzato dal cronista del quotidiano di Torino. 

In questo modo, il ciclo principale della voce della “bestia di maggio” si poteva dire concluso. 

La dinamica generale è quella ricorrente in queste storie: ad una fase concitata di panico per la “minaccia”, ne subentra una di razionalizzazione. Per non negare in maniera radicale la presenza di qualsiasi tipo di bestia anche solo un pochino insolita, dopo aver vagato fra tigri e tassi canini, ecco venire in soccorso un po’ a tutti, ma in specie a c. p, Lampo, cane fantasma anche lui, ma dal nome adeguato, e con un’identità risolta. In fondo, il povero Lampo, per quanto grosso e in fuga, forse poteva anche venir lasciato scorrazzare. Al massimo, se ne sarebbero occupati gli amanti degli animali, con i loro metodi dolci.

Le altre bestie di maggio – e di giugno

Con l’ondata di storie sulla “bestia del maggio” si mise in moto anche un secondo meccanismo ben noto agli studi su questi fenomeni psicosociali: il contagio degli avvistamenti di “bestie” ad altre aree geografiche, con conseguente moltiplicazione di altri cicli narrativi, ognuno con una sua struttura e un suo contesto. Possiamo dire che la fase pubblica della storia principale, quella della zona a sud di Torino, durò dal 7 al 12 maggio, e che fu preceduta da una fase di trasmissione orale, cioè non documentata da fonti scritte, forse della lunghezza di una decina di giorni. Dopo, a partire dal 20 maggio e per quasi un mese, nelle province di Torino, Alessandria e Cuneo si ebbero almeno tre ulteriori serie di storie di “bestie misteriose”.

Cominciò il giorno 20 Stampa Sera: questa volta, si diceva nella pagina di cronaca cittadina, si era aperta la caccia alla bestia che uccideva conigli e polli in un comune vicino alla città, quello di Baltoira – un comune che, però, non esiste. Si trattava di una faina? Di un grosso lupo? Un grosso cane lupo? Il panico si era diffuso tra i contadini, finché un diciottenne, Eligio Lazzatore, era riuscito a uccidere l’animale – che, esaminato, si era rivelato un comune gatto selvatico. Avendo esercitato abusivamente la caccia, il ragazzo si era visto condannare da un pretore, ed era stato difeso dall’avvocato A. Raffaele Rossi (che esercitò davvero la sua professione nella città piemontese). Rimane da capire dove si svolsero realmente i fatti. Il tono complessivo, comunque, era scanzonato: quello che si faceva notare era che le cacce alle bestie misteriose in certe occasioni potevano portare a conseguenze indesiderate – un probabile richiamo polemico alle grandi mobilitazioni delle settimane precedenti. 

Poco dopo, la paura delle “bestie del maggio” faceva capolino in una zona decisamente diversa del Piemonte, e cioè ad Alessandria. Il 23 maggio, il settimanale Il Piccolo annunciava che da parecchi giorni nella zona di Borgo Cittadella, alla periferia nord della città, si temeva la presenza di un grosso felino dal pelo fulvo, che qualcuno però riteneva un lupo: aveva morso un uomo a una mano, aveva ridotto a mal partito un cane, aveva costretto altri passanti a darsi alla fuga. Erano intervenuti i vigili urbani. Si pensava che il “felino del Torinese” avesse cambiato provincia, e che quello di Alessandria quindi fosse lo stesso di qualche settimana prima. La caccia si protrasse per un po’, e alla fine il povero animale fu abbattuto a pistolettate. Niente felini o lupi, ma un pastore tedesco con catena al collo, probabilmente idrofobo. 

Ma la “bestia del maggio” doveva riservarci un’altra sorpresa: una quarta storia a scoppio ritardato di bestie misteriose. Stavolta a raccontarla nella sua edizione del 20 giugno 1931 era il quotidiano cuneese La Sentinella d’Italia. La bestia, la misteriosa bestia della zona di Carignano, quella cui si era data la caccia furiosa descritta dalla Gazzetta del Popolo, da qualche giorno si era trasferita nella Provincia Granda, e più esattamente nella zona di Cherasco, tra le frazioni dei Picchi e di San Giovanni. Qualcuno diceva di averla vista, altri di averne sentito i grugniti, mentre i cani di notte abbaiavano furiosamente. Dopo diversi giorni di voci, era giunta la notizia: la belva era stata uccisa da un cane di una cascina della frazione San Giovanni. Il cronista, recatosi sul posto, ebbe la conferma. La bestia era davvero morta. 

Ebbene, volete sapere di che cosa si trattava, secondo La Sentinella d’Italia?

La bestia famosa era un tasso, un magnifico tasso, grande quanto un porcellino. 

Insomma, un perfetto ritorno nel mito, quello della zoologia fantastica del tasso, che era saltato fuori durante la vicenda principale. Soltanto che c’era stato un errore tipologico, a Torino. I cuneesi erano stati più precisi dei torinesi, forse meno avvezzi già da allora alle cose della natura. Non si trattava di un tasso canino, ma di un tasso porcino

Una chiusura davvero magnifica per una storia di animali di fantasia, di felini fantasma, di cacce feroci e di tentativi di salvataggio di cani scappati, e, persino loro, mai ripresi – come il povero Lampo fuggito da Fossano, che non è neppure troppo lontana da Cherasco.

Si ringrazia Dora Damiano per le fonti fornite. Foto di minka2507 da Pixabay.