27 Aprile 2024
Giandujotto scettico

Giuseppe Ponza e il manicomio a colori

Giandujotto scettico n° 148 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (05/10/2023)

“Quello è uno da via Venezia”, dicevano un tempo gli alessandrini per indicare i tipi strani, sopra le righe. Tra l’odierno Spalto Marengo e via Venezia nell’Ottocento sorgeva infatti il Regio Manicomio di Alessandria, una specie di cittadella con una pianta a H: un braccio femminile e uno maschile, mentre nell’ala centrale si trovavano i servizi comuni. 

La struttura era frutto della riorganizzazione dei ricoveri assistenziali voluta da Cavour, che portò il vecchio Ospedale san Giacomo, attivo fin dal Settecento e gestito dalla Confraternita della Santissima Trinità a trasformarsi a poco a poco in una vera e propria istituzione medica. In particolare risale al 1855 la denominazione di “Regio Manicomio”, e al 1856 il nuovo regolamento che istituiva la figura del “medico capo”, nominato dalla direzione amministrativa.

Il primo medico capo della struttura fu Giuseppe Lodovico Ponza (1822-1879), che occupò quel posto dal 1856 al 1879. Ponza introdusse varie innovazioni nel trattamento dei suoi pazienti, a partire dall’ergoterapia (la riabilitazione dei pazienti tramite il lavoro). Però sperimentò anche una serie di terapie che allora sembravano all’avanguardia, ma che ai nostri occhi appaiono bizzarre e a tratti crudeli. Vale la pena di passarne in rassegna qualcuna.

Vita di P.

Giuseppe Lodovico Ponza era nato nel 1822 a Cameri, vicino a Novara, da famiglia saluzzese. La medicina era un affare di famiglia, e anche lo zio e il padre lavoravano in quel settore. Quest’ultimo aveva servito come chirurgo militare nelle armate napoleoniche; caduto l’imperatore, aveva accettato il posto di medico condotto del paesino di Cameri.

E così, figlio e nipote d’arte, Giuseppe Ponza intraprese anche lui questo indirizzo di studi, all’Università di Torino. Laureatosi nel 1846, fu nominato quasi subito chirurgo all’ospedale di Domodossola, e nel 1848 entrò a far parte del Consiglio di Sanità, che si occupava della salute pubblica. Erano gli anni delle prime, grandi epidemie di colera. Per alcuni mesi Ponza si trasferì a Milano, dove il morbo infuriava, e una volta tornato nel Novarese scrisse una memoria sulle sue osservazioni e deduzioni riguardo la cura di questa malattia. Scoppiato nuovamente il morbo nella zona di Candia, ebbe ancora modo di affrontare l’epidemia, e si guadagnò il rispetto e la riconoscenza della popolazione locale, tanto che il consiglio comunale gli regalò una tabacchiera d’oro, con su scritto 

“Al D.G.L. Ponza. In occasione del cholera, Candia riconoscente – 1854”.

Nel 1856, diventò direttore sanitario del Manicomio di Alessandria, ancora piuttosto piccolo: aveva in cura una quarantina di pazienti. Conservò tuttavia il suo incarico nel Consiglio di Sanità per una decina di anni ancora.

Secondo Francesco Villavecchia, un collega dell’Accademia di medicina di Torino che dopo la sua morte ne scrisse un lungo panegirico, le sue dimissioni da quell’incarico sarebbero avvenute per una questione di principio. Pare gli fosse stata assegnata dal governo una medaglia al valore rivolta ai “benemeriti della salute pubblica” per il suo impegno nel contenere l’epidemia di colera del 1865-67; avendo visto che altri, meritevoli quanti lui, non erano stati insigniti dello stesso onore, “offeso nel più vivo dell’animo per l’ingiustizia fatta ad amici e colleghi”, avrebbe rinunciato al premio con un lettera di fuoco, e si sarebbe dimesso dal Consiglio di Sanità.

A quanto pare, Ponza si teneva costantemente aggiornato sulle novità della sua disciplina e partecipava di continuo ad assemblee, convegni e dibattiti di un gran numero di società mediche. Fece adottare in Piemonte uno dei primi vaccini bovini, quello contro la pleuropolmonite contagiosa, ideato dal belga Louis Willems (1822-1907), e quando Willems venne in Italia, organizzò a Mortara, nel Pavese, grandi celebrazioni per accogliere lo scienziato.

Come direttore sanitario del Manicomio alessandrino, per la sua volontà di riforma Ponza si scontrò più volte con la direzione amministrativa, che intendeva intervenire nella gestione igienico-sanitaria della struttura e cercava di limitarne il ruolo. E fu a questo punto che cominciò a seguire pratiche che oggi siamo costretti a considerare pseudoscientifiche.

Curare col colore

Nel suo necrologio, Villavecchia definiva Ponza uno “spirito originale ed ardente”, sempre “entusiasta dei nuovi trovati”. Se gli si poteva riconoscere un merito, forse era nel fatto che aveva cercato di applicare metodi quantitativi alla psichiatria, cosa che all’epoca facevano in pochi. Nel 1863 Ponza scrisse infatti Intorno ad alcuni prospetti statistici del manicomio di Alessandria, una raccolta di dati sul numero di internati, sulla durata del ricovero e sulle cause dei decessi avvenuti nei sei anni precedenti, suddivisi per sesso e per tipologia di alienazione. Ma la sua opera non si limitava alla statistica. Lui voleva curare i suoi pazienti con tutte le possibilità che la medicina dell’epoca offriva. E all’epoca, offriva poco: si tentava di usare l’elettricità in vari modi per curare le affezioni psichiatriche, insieme a bromuro di potassio, cloralio, iniezioni ipodermiche di morfina… Insomma, di veri farmaci in grado di dare risultati apprezzabili c’era poco o nulla. 

Nel 1876 Ponza lesse sui giornali di una nuova teoria che arrivava dagli Stati Uniti, secondo la quale i vetri blu e violetti potevano far crescere meglio piante e animali e curare un gran numero di malattie. Era arrivata anche in Italia l’eco della grande mania dei “vetri blu”, frutto delle ricerche e delle teorie bislacche di Augustus Pleasonton. A Ponza, tutto questo suonava plausibile: lui stesso aveva osservato che quando il cielo era blu intenso, si diffondeva tra i suoi pazienti una strana “agitazione maniaca”. 

C’era forse una relazione tra la pazzia e le “vicende magnetiche” del cielo?

Il direttore del manicomio si consultò con un grande scienziato del tempo, l’astronomo e sacerdote cattolico Angelo Secchi, che lo incoraggiò a seguire la sua intuizione, definendola “molto importante” e degna di “essere coltivata”. Gli consigliò di non limitarsi alle finestre, ma di pitturare anche le pareti delle stanze con lo stesso colore dei vetri. Ponza allestì così una stanza rossa, una azzurra e una violetta all’interno del manicomio. Quella rossa, a suo dire, avrebbe dato ottimi risultati con i “lipemaniaci”, come all’epoca si indicavano i pazienti affetti da sindromi depressive di varia natura. I risultati li raccontò l’Illustrazione popolare del 27 novembre 1887:

Egli collocò quindi in una stanza tinta in rosso ed a vetri rossi, un lipemaniaco, il quale da lungo tempo era di umore tetro, né mai domandava cibo. Dopo tre ore che si trovava in quella stanza esso era gaio, sorridente e chiedeva da mangiare. Nella stessa stanza fece porre un altro lipemaniaco, che si teneva costantemente la bocca chiusa colle mani per impedire vi entrassero l’aria o le bevande, che egli credeva avvelenate. Al domani questo ammalato pure era calmo, mangiò con grande avidità, ed andò poi sempre migliorando.

Un maniaco, oltremodo agitato, fu portato in una stanza a vetri azzurri: dopo un’ora era quasi del tutto calmo. Infine, un alienato che era stato posto in una stanza tinta di violetto e coi vetri violetti, il domani disse di sentirsi guarito e pregò il direttore del Manicomio di rimandarlo alla propria casa; ove realmente tornò in buono stato di salute.

Ponza si affrettò a far conoscere i suoi risultati alla comunità medica, con una comunicazione alla Scuola medico-psicologica di Parigi. I suoi esperimenti, però, furono interrotti dall’improvviso nel 1875, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. 

Trasfusioni agnello-umane

Prima di ritirarsi a vita privata, Ponza ebbe però il tempo di infilarsi in un altro vicolo cieco della scienza: l’idea di utilizzare trasfusioni di sangue di pecora per curare i problemi psichiatrici. Occorre precisare che nel 1872, quando Ponza iniziò a occuparsene, le conoscenze in quel settore erano ancora primitive: i gruppi sanguigni e le leggi di compatibilità tra essi, saranno scoperti solo nel 1901 dall’austriaco Karl Landsteiner; prima di allora, le trasfusioni erano un autentico terno al lotto. Eppure alcuni lavori sperimentali, ai primi degli anni Settanta dell’Ottocento, già facevano intravvedere le possibilità future, e fu per questo che Ponza si lanciò con il suo solito entusiasmo nella sperimentazione.

Al fine di occuparsene degnamente, chiese alla direzione del manicomio il permesso di allontanarsi per un certo tempo e si recò a Parigi. Il consiglio provinciale decise di finanziargli il viaggio. Lì Ponza conobbe il fisiologo Claude Bernard (1813-1878) e molti altri che si stavano interessando al problema. Si recò quindi a Reggio Emilia, nel cui manicomio erano già iniziate le prime trasfusioni da agnello a uomo. Oggi ci fa orrore pensare a una sperimentazione a dir poco assai rischiosa, per di più condotta su pazienti ignari, dalle capacità cognitive spesso compromesse, senza che fosse espresso al riguardo un qualche tipo di consenso. All’epoca, però, cose del genere erano la norma.

Il 23 ottobre 1874 Ponza tenne una relazione al Convegno freniatrico d’Imola, poi pubblicata ad Alessandria: La trasfusione del sangue negli alienati. In essa, il medico alessandrino spiegava come aveva vinto i suoi dubbi, vedendo la trasfusione applicata senza problemi in molti manicomi. In effetti, in quegli anni, in Europa si era sviluppata una piccola “moda”. La trasfusione di sangue da agnello a uomo era stata sperimentata dapprima per provare a contrastare le emorragie di sangue, ma si pensò che potesse esser utile anche nei pazienti psichiatrici, e tantissimi manicomi si lanciarono in quei tentativi. In particolare, Ponza immaginava che potesse diventare un valido aiuto contro la pellagra, malattia diffusissima tra coloro che avevano una dieta basata quasi del tutto sulla polenta (è infatti provocata da una carenza di vitamine B e PP). Tra i sintomi principali della pellagra c’erano sintomi neurologici e psichiatrici di varia origine, dermatiti e diarrea – cosa quest’ultima che provocava una generale debilitazione dei pazienti. Ponza pensò che il sangue potesse agire da ricostituente, ma poi si spinse a sperimentare anche sui “lipemaniaci”, depressi e affetti da manie di persecuzione: su di loro, a suo dire, il sangue d’agnello fungeva da “vero eccitante diffusivo”. 

Il primo esperimento fu fatto il 21 giugno 1874: Ponza aveva convinto la direzione del manicomio ad acquistare un certo numero di agnelli, e per assistere all’esperimento erano arrivati medici da tutto il Piemonte; tra i più illustri, Giacinto Pacchiotti e Giuseppe Berruti

Alla presenza del Commissario Regio del manicomio, Ponza trasfuse il sangue arterioso di agnello nelle vene di tre pazienti, che tutto sommato reagirono bene alla cura, nonostante qualche problema di orticaria e di cianosi ben presto superato – chissà per quale miracolosa circostanza. Gli esperimenti proseguirono il 30 giugno e il 19 agosto, sempre alla presenza di un numeroso pubblico, cosa che non mancò di scatenare qualche polemica sui giornali. In alcuni casi l’operazione venne fatta precedere da salassi, in altri da analisi del sangue e da altre misurazioni; alcuni dei pazienti sottoposti alla trasfusione il 21 giugno furono nuovamente “operati” il 30 giugno o il 19 agosto.

In tutto si effettuarono sette trasfusioni, solo le prime tre ad opera di Ponza (nelle successive il medico preferì lasciare generosamente spazio ai colleghi torinesi).

I risultati, a detta del nostro uomo, furono eclatanti: nei pellagrosi cessava la diarrea, i depressi ricominciavano a mangiare e a prendere peso. Il primo tra i pazienti sottoposti a trasfusione (e poi a un successivo “richiamo”) tornò lucido e calmo, e poté essere dimesso il 28 luglio. Un paziente autolesionista (voleva mordersi e cercava di inghiottire la lingua), trasfuso due volte, sarebbe migliorato notevolmente. Ponza avrebbe voluto sottoporlo a una terza sessione, ma quello rispose in dialetto che non aveva più bisogno di quel “salasso al contrario”. In breve, descrisse presunti miglioramenti in tutti i malati trasfusi. 

Questi risultati, prontamente annunciati ai giornali locali e a quelli specializzati, ben presto diventarono oggetto di aspre polemiche. Sulla Gazzetta del popolo di Torino un alienista definì le operazioni di Ponza rischiose, inumane e inutili per guarire la “pazzia”. Pacchiotti – che aveva effettuato in prima persona alcune delle trasfusioni al manicomio di Alessandria – invece difese il collega affermando che si trattava di un’operazione facile, sicura e quasi indolore. Altri suggerivano che il metodo fosse errato in partenza: il cuore dell’agnello non pompava abbastanza sangue da poter arrivare alle vene dell’uomo, dal momento che la spinta era dovuta unicamente alla pressione arteriosa dell’animale, collegato al paziente tramite una cannula lasciata aperta per 20-30 secondi. 

Ponza replicava con sdegno agli oppositori, invitando i medici a sperimentare senza pregiudizi quel metodo così promettente. Quando pronunciò la sua relazione al Convegno freniatrico d’Imola, circa sessanta trasfusioni erano già state fatte in tutta Italia (oltre ad Alessandria, infatti, anche Reggio Emilia, Imola, Pesaro, Ferrara, Brescia e Bologna ebbero la loro quota di sperimentatori entusiasti). Oggi sappiamo che si trattò di un gigantesco abbaglio collettivo: la trasfusione da animale a uomo provoca allergie e rigetti, con altissimo rischio di morte. Se i pazienti si salvarono fu soltanto perché l’apporto di sangue era, tutto sommato, ben poco. Probabilmente i mezzi rudimentali non ne permettevano nemmeno un’adeguata immissione nel flusso circolatorio.

Ponza non ebbe il tempo per vedere i suoi sogni di gloria infranti e la trasfusione agnello-umana abbandonata: pochi mesi dopo le polemiche dell’estate 1876, infatti, ebbe un tracollo fisico e finì ricoverato a sua volta. 

Una fine ingloriosa

Nell’ottobre del 1875, il prefetto di Alessandria ordinò il ricovero coatto di Giuseppe Ponza per un episodio di “emormesi cerebrale”: un’espressione usata per dire che l’uomo era affetto da agitazione psicomotoria e dava in escandescenze. Fu accompagnato allo Stabilimento sanitario Biffi di Milano, una casa di cura privata gestita dallo psichiatra Serafino Biffi (1822-1899). Ponza cercò di opporsi, e nella furia ruppe uno dei cancelli dell’istituto. Fu quindi trasferito a un altro manicomio privato milanese, la Senavretta, diretta da Antonio Tarchini Bonfanti. 

Il 20 ottobre fu sottoposto a visita collegiale. Per lui si scomodarono tre importanti medici del tempo: Andrea Verga, Clodomiro Bonfigli e lo stesso Serafino Biffi. Ponza venne calmato con le “cure” del tempo: purghe, sanguisughe e bagni tiepidi – cose, nel loro complesso, capaci di uccidere un cavallo. Verga, presidente della Società Freniatrica Italiana, descrisse così la personalità di Ponza. Da quella – a suo parere – ne derivavano i malanni: 

Bell’uomo, senza tabe ereditaria, […] deve aver abusato di donne e specialmente della moglie di suo fratello e della Sig.ra Frascara dell’Abbazia di Sezzè. La sua avvenenza lo esponeva alle seduzioni femminili. Deve aver perduto per esse e nel giuoco dei denari, perché era sempre pieno di debiti […]. Era il medico dei duelli. Deve aver avuto molte impressioni e scosse. […] Ora si riempie le tasche di ciottoli che crede preziosi. […] Crede di aver fatto un romanzo, che gli frutterà 30.000 lire, e un trattato di psichiatria che gli schiuderà l’olimpo dell’Accademia delle scienze di Parigi. Invita sempre li amici per la sera al [Caffè] Cova. Scrive lettere erotiche, articoli enfatici a favore dei suoi colleghi e dello Stabilimento Tardini e Caselli.

Il ricovero giovò a Ponza, che a dicembre sembrava meno esagitato. Verga, però, rimaneva scettico sulla sua guarigione:

Questo miglioramento non ci apre l’animo a grandi speranze. Quell’esaltamento mentale che non gli permette di riconoscere le sue vere condizioni e gli fa passar giorni felici giocando solo al bigliardo e raccogliendo sassolini o scrivendo lettere su lettere ci tien sempre inquieti sull’esito della malattia. 

Le carte di Verga e le lettere di Ponza sono state digitalizzate dall’ASPI (Archivio storico della psicologia italiana). Nel febbraio 1876 spuntarono nel paziente disturbi del linguaggio: Ponza parlava ripetendo le vocali (come “anaatoomia”), e scriveva raddoppiando l’ultima sillaba di ogni parola, oppure raddoppiando le consonanti. Nonostante queste gravi manifestazioni, nell’aprile 1876 venne dimesso e affidato alle cure della madre, che lo portò prima sul Lago Maggiore, e poi a Genova. 

Dal suo soggiorno verbano, Ponza teneva aggiornato Verga sui suoi progressi: gli raccontava di essersi ormai pienamente ristabilito, e che continuava a curarsi con salassi alle tempie, bromuro di potassio e “docce spinali”. Nel frattempo, però, gli era arrivata la notizia di essere stato licenziato dal manicomio di Alessandria. Chiedeva allora a Verga di rilasciare insieme ai colleghi Biffi, Tarchini, Calastri e Bonfanti una dichiarazione medica in carta bollata che attestasse il suo pieno recupero, in modo da poter essere riammesso al suo vecchio lavoro. Il medico accettò, ma la direzione del manicomio di Alessandria continuava a essere contraria al suo reintegro: temeva che Ponza non fosse più in grado di svolgere il suo lavoro, oltre che eventuali ricadute della malattia. Per non trovarsi di fronte a un aperto rigetto della sua istanza, Ponza propose allora di accettare il congedo, rimanendo però come consulente, e con lo stesso compenso di un tempo. Nel settembre 1876 il presidente della Direzione del Manicomio si disse propenso a presentare la sua richiesta al consiglio di amministrazione, in cambio di un ulteriore certificato di piena e completa guarigione. Non sappiamo se le sue richieste furono infine accettate, ma è probabile che fosse stata individuata qualche forma di accomodamento economico. 

Ponza morirà tre anni dopo, nel gennaio 1879, all’età di 57 anni. Nel suo encomio post-mortem, Villavecchia definì gli esperimenti di Ponza sui colori “studii di importanza capitale”, destinati a

testimoniare la costante sua preoccupazione per i malati che era chiamato a curare, e le ampie vedute e le pronte deduzioni di quella sua mente, ognor vaga del nuovo e dell’ardito.

Quanto all’influenza dei colori sulla psiche, il problema sarebbe stato “risolto dall’avvenire”, che avrebbe dimostrato “se quelle del Ponza non furono che ardite ipotesi, o veri assiomi scientifici, intravveduti dalla sua mente eletta”. Oggi sappiamo che la risposta era la prima, cioè ardite ipotesi

Ma prima della strada giusta, la scienza infila spesso decine di vicoli ciechi. E Ponza, per i vicoli ciechi, ebbe un talento davvero straordinario. 

Foto di apertura di Peter H da Pixabay