Giandujotto scettico

Un teschio di cristallo a Torino

Giandujotto scettico n° 134 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (09/03/2023)

Recita una “profezia” che ha avuto il suo massimo di popolarità durante la mania per l’anno 2012: quando i tredici teschi di cristallo saranno riuniti, segneranno l’avvento di una Nuova Era Cosmica. Ben pochi sanno che un reperto di questo tipo, attribuito alla cultura mixteca, si trova esposto nel cuore di Torino, anzi, in una sede prestigiosa come quella di Palazzo Madama. Ma che cosa ci fa lì un oggetto del genere? E come hanno fatto i teschi di cristallo a guadagnarsi una fama così strabiliante e di portata planetaria? E si tratta di gloria meritata?

Un teschio scolpito dal “popolo delle nuvole”?

Oggi il teschio si trova a Palazzo Madama, presso il Museo di Arte Antica. È custodito in una teca, nella cosiddetta “Torre dei Tesori”, al piano seminterrato. È un po’ più piccolo del suo omologo che si trova al British Museum: è lungo appena 3,4 cm (quello del British misura 5 cm) e ha un foro sulla sommità. Potete vederne alcune foto sul blog della Civetta di Torino (Manuela Vetrano), instancabile collezionista di curiosità piemontesi.

Stando alla descrizione, il reperto arriva dal Messico, e sarebbe stato scolpito da un blocco di cristallo di rocca in un arco di tempo compreso tra il 1200 e 1521 d.C. Nei cataloghi del Museo, il teschio è classificato soltanto come “ornamento”, senza alcuna spiegazione ulteriore sulla sua funzione. Viene inoltre considerato appartenente alla cultura mixteca, che si sviluppò in epoca precolombiana nelle regioni di Oaxaca, Puebla e Guerrero.

Il termine “mixtechi” deriva da una parola in lingua nahuatl: mixtecah, cioè il popolo delle nuvole. Questa cultura costruì diversi edifici dei complessi di Monte Albán e Mitla. Scriveva la sua storia su pelli di cervo, con un sistema di geroglifici chiamato ñuiñe (i codici mixtechi sono tuttora importantissimi per ricostruire la storia del Messico prima dell’arrivo degli spagnoli). Era suddivisa in regni, che rivaleggiavano tra loro e con i vicini zapotechi; al culmine dell’impero azteco furono in parte assoggettati, per poi essere definitivamente spazzati via dal conquistador Pedro de Alvarado. I prodotti del loro artigianato erano assai ricercati già in epoca precolombiana: i mixtechi producevano complessi mosaici con tessere di turchese e madreperla, ma erano anche i principali orafi della Mesoamerica, e componevano raffinati gioielli in legno, metallo, pietre dure e cristallo di rocca. 

Ma il nostro teschietto arriva davvero da questa civiltà? E come sarebbe giunto a Torino?

Zaverio Calpini, un imprenditore-collezionista

Nato nel 1820 a Vanzone, in val d’Ossola (Verbania), Zaverio Calpini emigrò in America molto giovane, insieme al fratello Francesco. Il settimanale L’Ossola dell’11 marzo 1905 menziona un terzo fratello, Angelo, forse rimasto in patria.

Arrivati a Città del Messico, i fratelli piemontesi aprirono una bottega specializzata in strumenti tecnici d’importazione (soprattutto lenti e altra componentistica ottica, ma anche oggetti per il disegno e per l’ingegneria): la “Calpini Opticos”, sita in calle Plateros (oggi Madero) 34.

Fecero fortuna, e ottennero diversi riconoscimenti sia dal governo messicano (tra cui una medaglia al Valor civil unica en su genero, conferita a Zaverio nel 1861), sia da quello italiano (Zaverio venne nominato console onorario d’Italia).

Nel frattempo, nel 1852, il nostro uomo era rientrato per breve tempo in patria per sposare Marietta Pirazzi. Tornato in Messico con la moglie, proseguì nel commercio, aprendo nuove succursali a Guadalajara e Monterrey e richiamando in America numerosi amici e collaboratori vanzonesi. Alla sua ditta si deve il primo microscopio importato in Messico, un Salmoiraghi di Milano. La prima lente graduata fabbricata in quel paese venne fusa proprio in un forno di “Casa Calpini” (Le Rive, 30 aprile 2010). La ditta esiste tuttora. In Messico, Zaverio collezionò cimeli e reperti precolombiani: vasi, armi, amuleti, gioielli antichi.

Nel 1867 l’industriale piemontese decise di ritirarsi dagli affari e rientrò a Vanzone, anche se aveva appena 47 anni. Donò al museo Galetti di Domodossola diversi oggetti antichi, come alcune “preziose staffe azteche” e “un basamento arcaico tolto da un tempio del sole” (La libertà, 28 febbraio 1905). A questi si aggiunsero numerosi uccelli, mammiferi e serpenti impagliati provenienti dalla fauna centroamericana. In patria, l’ex commerciante ottenne il titolo di cavaliere (gli fu conferita la Croce dei S.S. Maurizio e  Lazzaro) e si buttò in politica. Pare fosse molto religioso (i giornali raccontano che “non isdegnava d’intervenire in Chiesa alle funzioni religiose a cui assisteva con edificante pietà”). Venne eletto consigliere di Vanzone e poi, nel 1897, alla morte del sindaco Giovanni Pinaglia, fu indicato dal consiglio comunale come suo successore (L’Ossola, 22 maggio 1897). Tra i suoi meriti, la missione compiuta nel 1884 a Roma per chiedere a re Umberto I il completamento della ferrovia da Borgomanero a Domodossola, e il ritrovamento nel 1874, durante i lavori per la costruzione del cimitero, di diversi reperti di epoca romana, anche questi finiti al museo Galetti (Oscellana, 1 aprile 1992). 

Morì nella sua Vanzone il 24 febbraio 1905, recitando il Nunc dimittis

Ma, prima di quel giorno, Zaverio pensò di mettere a disposizione di tutti la ricchissima collezione che aveva raccolto nei suoi anni messicani. Nel 1874 ne propose la vendita al Museo Civico di Arte Antica di Torino, per diecimila lire; ma erano troppe, e l’affare si concluse con un nulla di fatto. Nove anni dopo, nel gennaio 1876, Calpini decise di donare i reperti, purché le spese di imballaggio e trasporto dall’America all’Europa fossero a carico del museo. In questo modo, al prezzo di circa 3000 lire, arrivarono a Torino 1518 reperti archeologici ed etnografici, per lo più appartenenti alla cultura azteca (ma anche un paio di figurine olmeche, urne zapoteche, un vaso huasteco, un incensiere tolteco, una placca di giadeite Maya…).

Eric Taladoire, professore di archeologia delle Americhe presso l’Università di Parigi, elenca tra i pezzi più pregiati: una scultura di Quetzalcóatl in pietra verde, un vaso treppiede, uno specchio di pirite, diversi molcajetes (mortai), pintaderas, spirali, numerose figurine (o frammenti) e pezzi di ossidiana (coltelli, punte, nuclei). I reperti mixtechi sono dodici, ma “eccezionali”, come quelli in oro e cristallo di rocca. 

E così, grazie a Calpini, anche Torino ebbe il suo teschio di cristallo…

La leggenda dei teschi di cristallo

Sul conto di questi enigmatici reperti è stato detto e scritto di tutto: sarebbero in grado di curare il cancro, dare allucinazioni, produrre suoni simili a campanelle, muoversi da soli nelle loro teche. Guardando nelle loro orbite, si avrebbe la visione di un’antica città. Ben prima che il quarto film del franchise Indiana Jones li collegasse a improbabili viaggiatori alieni, i teschi di cristallo erano già stati considerati come il prodotto di un’antica civiltà atlantidea, o di saggi maestri cosmici, oppure di extraterrestri dalle incredibili capacità tecnologiche. Per capire i voli di fantasia intorno a questi reperti, riportiamo ad esempio questo breve estratto, dal sito ArcheoWorld:

Secondo Carlos Barrios, storico, antropologo e ricercatore, sacerdote officiante e guida spirituale, questi teschi misteriosi sono come dei geni, una specie di megacomputer che conterrebbero tutta l’informazione riguardante lo sviluppo tecnologico raggiunto da una razza che ci ha preceduto. Ogni teschio possiede una conoscenza, una parte di quella straordinaria tecnologia e la capacità di vedere nel futuro. Tutta la conoscenza è depositata all’interno dei teschi. Secondo Barrios ci sarà un giorno in cui i saggi, i guardiani e i custodi dei teschi, si riuniranno intorno a un lago dove saranno raggiunti da un uomo che attraverserà il lago camminando ed estrarrà la testa maestra che si trova all’interno di una caverna, dietro una cascata. Barrios ipotizza che i teschi di cristallo potrebbero essere la chiave di volta quindi, un tassello perfetto che si incastrerà, quando l’uomo sarà pronto per aprire la porta del futuro. 

Nel 2012 la popolarità di questi reperti ebbe un ritorno di fiamma: si raccontava che, secondo un’antica profezia Maya, unendone 13 si sarebbe potuta evitare la fine del mondo (o, secondo altre versioni, ci avrebbero traghettati verso una Nuova Era Cosmica). Peccato che della “profezia Maya” non ci siano tracce prima del 1970.

In realtà, gran parte della fama “paranormale” dei teschi di cristallo si deve a una donna: l’inglese Anna Mitchell-Hedges, proprietaria di quello che ha chiamato teschio del destino. La donna raccontò di aver scoperto lei stessa questo reperto nel 1927, il giorno del suo diciassettesimo compleanno, mentre con il padre Frederick, che l’aveva adottata, partecipava agli scavi archeologici di una città Maya, Lubaantun (Belize). Sembra invece dimostrato che il padre di Anna abbia acquistato il teschio a un’asta di Sotheby’s a Londra il 15 ottobre 1943, dal mercante d’arte londinese Sydney Burney. L’uomo aveva raccontato del suo acquisto anche al fratello, in una lettera del dicembre 1943.

Secondo la proprietaria, il teschio Mitchell-Hedges sarebbe dotato di incredibili facoltà paranormali: tenderebbe a vendicarsi dei suoi detrattori, a muoversi da solo, e avrebbe dato alla donna la premonizione dell’assassinio del presidente Kennedy.

Al di là di questo reperto (vi rimandiamo a questo articolo in due parti di Sergio de Santis per approfondirne la storia) ce ne sono diversi altri, sparsi per il mondo: e, per la cronaca, sono ben più di tredici. Viste le leggende sul loro conto, alcuni sono entrati in possesso di guru New Age e di praticanti di medicine alternative. Famosi ad esempio sono il teschio “Max”, che avrebbe rivelato di chiamarsi così alla sua proprietaria (la signora Jo-Ann Parks di Houston), e quello che sarebbe stato misteriosamente scoperto dal “detective psichico” Nick Nocerino. Altri teschi, invece, appartengono a musei: ce n’è uno al British Museum, uno al  Musée du Quai Branly (Parigi), uno presso quello della Smithsonian Institution (Washington)… E parecchi altri sono sparsi per le collezioni di tutto il mondo, spesso etichettati come reperti Aztechi.

Il problema è che, ogni qual volta si è provato a indagare sull’autenticità di questi reperti, il responso è sempre stato lo stesso: si tratta di falsi. Ed è qui che la nostra storia incrocia in modo decisivo un enigmatico antiquario-archeologo di origine francese, Eugène Boban (1834–1908).

L’uomo che inventò i teschi di cristallo

Se volete un panorama completo su tutto ciò che riguarda i teschi di cristallo, vi consigliamo caldamente questo libro: The Man Who Invented Aztec Crystal Skulls: The Adventures of Eugène Boban, di Jane MacLaren Walsh e Brett Topping (2019). Negli anni ‘90 l’antropologa Jane Walsh, dello Smithsonian’s Museum, cominciò a indagare sul teschio di cristallo entrato in possesso di quell’istituzione. Il reperto era arrivato come donazione anonima, accompagnato da una lettera secondo cui sarebbe appartenuto al dittatore messicano Porfirio Diaz, morto nel 1915. Approfondendo la sua storia, la studiosa ha scoperto che il teschio era saltato fuori dal nulla nel corso del Diciannovesimo secolo, e che era già stato catalogato come un falso: un uomo di nome Eugène Boban aveva cercato di venderlo al Museo del Messico nel 1886.

Anche il teschio del British Museum, può essere ricondotto alla stessa persona: venne acquistato dalla prestigiosa Tiffany & Co di New York, che ne era giunta in possesso nel 1897 tramite un’asta. La vendita era stata organizzata – che combinazione – da Eugène Boban. Il reperto, ritenuto autentico, venne a lungo esposto nel prestigioso museo di Londra. Solo di recente le analisi hanno stabilito che si tratta di un falso: le analisi degli isotopi hanno rivelato che il blocco da cui fu intagliato arriva dal Brasile, non dal Messico; inoltre sulla sua superficie ci sono tracce di strumenti moderni, disponibili nel Diciannovesimo secolo ma non in epoca precolombiana.

Insomma: tra tutti i teschi di cristallo sparsi per il mondo, non ce n’è uno che provenga da uno scavo archeologico legittimo. Provengono tutti dal mercato collezionistico, e sono comparsi in un periodo compreso fra il 1860 e il 1890. Nei casi in cui i reperti sono stati sottoposti ad analisi, si è immancabilmente scoperto che si trattava di oggetti moderni. Quando si dispone di documentazione sulle loro origini, tutte le ricerche conducono a una sola persona: Eugène Boban.

Ma, dunque, chi era costui?

Nato nel 1834, poco più che ventenne si trasferì in Messico, dove lavorò come archeologo per l’imperatore Massimiliano I del Messico, lo sfortunato principe Asburgo che per qualche anno fu posto a capo di quel paese, salvo finire fucilato dai repubblicani; Boban fece anche parte della Commissione scientifica francese in Messico. In quel periodo, i musei europei guardavano con insaziabile desiderio ai reperti precolombiani. Molti cercavano di accaparrarsi i pezzi più pregiati, e il mercato antiquario era più fiorente che mai. In questo clima, cominciarono a circolare innumerevoli falsi (anche un reperto della collezione Calpini, l’incensiere tolteco, probabilmente lo è). Dall’alto delle sue conoscenze archeologiche, Boban fungeva da consulente per diverse istituzioni; fu così che cominciò a piazzare anche molti dei suoi pezzi, per i quali inventava false storie di acquisto. E, tra questi, c’erano i nostri “misteriosi” teschi di cristallo. 

Dove li prendeva? Nel loro libro, Walsh e Topping fanno un’ipotesi. Si trattava probabilmente di oggetti devozionali cattolici: teschi usati come memento mori che facevano parte dei rosari messicani, affluiti sul mercato con la demolizione dei conventi messa in atto dal presidente anticlericale Benito Juárez negli anni ‘60 dell’Ottocento. Questi oggetti sono rappresentati in alcuni dipinti, come il San Pietro di Alcántara e Santa Teresa d’Avila dell’artista boliviano Melchor Pérez de Holguín. L’ipotesi, tra l’altro, spiegherebbe perché molti dei teschi attualmente custoditi in tutto il mondo sono forati. 

D’altra parte, per gli acquirenti l’esistenza di reperti di questo tipo era credibile: si sapeva che l’arte precolombiana era piena di teschi e di loro rappresentazioni, e che gli artigiani del tempo avevano acquisito grandi capacità nella lavorazione delle pietre dure. Dunque, anche i teschi di cristallo suonavano plausibili. Il consenso attuale tra gli archeologi, però, è di segno del tutto opposto: Boban non produsse semplicemente dei falsi a imitazione di altri oggetti precolombiani, ma inventò un’intera categoria di reperti che prima non esisteva. Non è mai stato trovato alcun reperto di questo tipo che provenga con sicurezza da uno scavo, o per cui si possa indicare un’origine azteca incontrovertibile. 

I teschi di cristallo precolombiani, semplicemente, non esistono.

Il teschio di Torino è vero o falso?

Dopo questo excursus nella storia dei teschi di cristallo, capirete i condizionali di cui abbiamo infarcito il primo paragrafo. Il teschio conservato a Palazzo Madama è stato catalogato come un reperto di origine mixteca, ma probabilmente non è mai stato sottoposto a analisi come quelle dei suoi più celebri colleghi. Non si può affermare, quindi, se sia anche questo un memento mori moderno, oppure, in qualche modo, un’autentica testimonianza delle culture precolombiane. Certo, se fosse un vero manufatto mixteco, sarebbe unico nel suo genere. E sarebbe curioso.

Nel loro libro Jane Walsh e Brett Topping ipotizzano comunque l’esistenza di un rapporto tra il collezionista che riportò in Italia il teschio, Zaverio Calpini, e Eugène Boban: 

L’indirizzo dei Fratelli Calpini era all’angolo tra via san Francisco e callejón (vicolo) del Espíritu Santo, ad appena due porte di distanza dal negozio di Boban. […] Dal momento che erano vicini, i Calpini e Boban dovevano conoscersi, e potrebbe essere che il teschio ora a Torino sia un altro di quelli venduti da Boban. 

Qualunque sia la sua origine, rimane un reperto indubbiamente interessante, dietro al quale si possono intuire storie incredibili. Forse non avrà i “poteri paranormali” del teschio di Anna Mitchell-Hedges, o la notorietà di quello del British Museum, ma, per quanto ci riguarda, vale una visita: se passate da Palazzo Madama, ricordatevi di andare a vederlo.

Si ringrazia Roberto Labanti per le fonti fornite. Foto di benjamin lehman da Unsplash