La parola fine sulla sindrome dell’Avana? Intervista a Sergio Della Sala
Quella della “Sindrome dell’Avana” è una vicenda oscura, in cui i confini tra scienza e politica, tra realtà e propaganda, appaiono da sempre fumosi. Due giorni fa, a sette anni dalla “nascita” di questo piccolo mistero, un documento pubblicato dal National Intelligence Council sembrerebbe aver portato a una svolta decisiva. Ne parliamo con Sergio della Sala, presidente del CICAP, specialista in neurologia, dottore di ricerca in psicobiologia e direttore dell’unità di Human Cognitive Neuroscience dell’Università di Edimburgo.
Della Sala, potrebbe riassumere brevemente le origini della “Sindrome dell’Avana”?
Alla fine del 2016, alcuni diplomatici statunitensi di stanza a L’Avana denunciarono di sentire strani rumori e non sentirsi bene. L’amministrazione Trump ipotizzò che tali malesseri fossero il frutto di attacchi acustici di un’arma sconosciuta e diede inizio a una crisi diplomatica con Cuba. Esperti neutrali negarono che una simile arma fosse possibile. Ma a inizio 2018 un articolo su JAMA offrì sostegno scientifico a quest’ipotesi, descrivendo la “Sindrome dell’Avana”. Noi e altri scienziati contestammo le conclusioni di questo articolo, basate su un errore statistico, per cui era impossibile non risultare patologici. Le autorità di Cuba resero inoltre noto che nessun cittadino cubano, pur lavorando nelle sedi diplomatiche USA, risultasse affetto dai sintomi descritti. In aggiunta, casi simili vennero riportati in tutto il mondo da migliaia di persone, molte non coinvolte con la diplomazia USA.
Una casistica quantomeno singolare.
Ne consegue che essere un diplomatico statunitense è necessariamente il sintomo principale per ricevere una diagnosi di Sindrome dell’Avana. La polemica tuttavia non si placa, e la scienza abdica alla politica.
A quali conclusioni giunge il documento pubblicato lo scorso primo marzo?
Il documento del National Intelligence Council dichiara che i sintomi che hanno afflitto i diplomatici USA non possono essere causati da un attacco acustico. E, di fatto, chiude la vicenda sull’esistenza di armi sconosciute che possano causare sintomi generici ma selettivi, come quelli denunciati dai diplomatici americani.
Il documento sembra preoccuparsi più di stabilire se la Sindrome dell’Avana abbia origine da attacchi di potenze straniere che di verificare la sua stessa esistenza. Cosa ci dicono gli studi scientifici in proposito?
L’esistenza di una “sindrome”, come descritta dall’articolo di JAMA, non è mai stata dimostrata. Questo non significa che alcune persone non abbiano sofferto di malessere diffuso e aspecifico, che però può avere le cause più disparate. Dal momento che l’ambito della discussione si era spostato dalla medicina, andando dalla scienza verso la politica, non sorprende che il document si concentri sulla smentita che Cuba o altri abbiano ordito un attacco subdolo contro il personale USA. La scienza non ne esce benissimo, perché si è dimostrata una volta ancora asservita alla politica, fornendole argomenti basati su dati fragili e improbabili, ma pubblicati da una rivista rispettabile e nota.
Da scienziato, cosa le sembra che possa dire questa vicenda sulle commistioni tra scienza e politica?
La mia ingenuità sarebbe eccessiva se non riconoscessi che talvolta la commistione tra scienza e politica non solo esiste ma è inevitabile. In questo caso particolare, è possibile che la Sindrome dell’Avana sia stata un pretesto per chiudere di nuovo i canali diplomatici e di collaborazione tra gli USA e Cuba. Il problema è che i processi metodologici e i meccanismi di controllo propri della disseminazione scientifica non ci hanno protetto dalla diffusione di informazioni basate su dati inaffidabili. D’altro canto, è anche bello sottolineare come parte della comunità scientifica si sia mobilitata per denunciare le carenze di queste pubblicazioni. È anche grazie a questa presa di posizione che oggi, sotto una nuova autorità politica USA, la vicenda si sia finalmente messa su un piano di razionalità. Rimane il dubbio di come e perché una rivista del calibro di JAMA abbia pubblicato dei dati chiaramente insostenibili dando così argomenti alla politica, che li ha potuti usare per sette anni.
Immagine: L’Avana, foto di alexrojas2990, da Pixabay