In vino veritas? Limiti e guai della comunicazione scientifica sui media
Nelle scorse settimane, sui media prima e sui social network poi, ha avuto molto spazio una polemica sulla pericolosità del vino per la salute che ha coinvolto diversi esponenti del mondo scientifico. Uno degli aspetti più interessanti dell’intera vicenda, al di là delle considerazioni nel merito dei fatti, è quello che riguarda la comunicazione della scienza, le modalità con cui questa querelle sia nata e si sia poi sviluppata. Ne parliamo con Fabio Turone, direttore dell’agenzia di giornalismo scientifico “Zoe” e del Center for Ethics in Science and Journalism, nonché corrispondente dall’Italia per Research Professional e collaboratore di Nature e Medscape.
Turone, la prima cosa che le chiederei è di provare a ricostruire la polemica per aiutare i lettori a orientarsi.
“A quanto sono stato in grado di ricostruire, l’immunologa Antonella Viola (che ha acquistato una notevole fama mediatica durante la pandemia da Covid-19), ha commentato alla radio la decisione delle autorità sanitarie irlandesi di segnalare sulle etichette degli alcolici in vendita la relazione tra alcol e tumori mortali. Lo ha fatto nel corso di una trasmissione radiofonica mattutina di Radio 1 RAI di cui è spesso ospite, che ho voluto ascoltare in podcast. Viola ha parlato a lungo, spendendosi in dettagli anche approfonditi, e ha ribadito più volte un dato: non esiste una “dose sicura” di alcolici, come da anni segnalano anche le autorità sanitarie che elencano l’etanolo tra le sostanze in grado di causare il cancro. Ha citato anche uno studio recente che segnala che chi beve uno o due bicchieri di vino al giorno ha in media un volume del cervello ridotto rispetto a chi non beve, e a un esame approfondito mostra alterazioni di vario genere”.
Abbiamo assistito a una contrapposizione tra esperti, che sui media hanno presentato punti di vista opposti su uno stesso argomento, in questo caso Matteo Bassetti contro Viola. Un fenomeno che avevamo già osservato durante la pandemia. Quali possono esserne le cause?
“A me pare che questa vicenda mostri un ulteriore degrado della qualità dell’informazione in Italia. Durante la pandemia, almeno all’inizio, la diversità di posizioni poteva almeno in parte essere giustificata dalla scarsità di dati scientifici e dalla notevole complessità di un’emergenza che ha paralizzato il paese. La situazione imponeva di considerare quel poco che si sapeva del virus e delle modalità di diffusione, dell’efficacia delle misure di contenimento, dei vaccini e delle terapie ecc. Partendo da queste considerazioni con ampio margine di incertezza, occorreva provare a fare un bilancio rispetto agli altri rischi di ogni tipo associati all’adozione di misure di prevenzione, dal lockdown all’introduzione dell’obbligo vaccinale. Troppo spesso, gli esperti invitati dai media a fornire un’opinione informata hanno snocciolato all’opinione pubblica dati che erano tutt’altro che certi e affidabili, scelti in un mare di pubblicazioni scientifiche contrastanti per dare una patina di scientificità a posizioni in gran parte preconcette. Con la pandemia, fra l’altro, gli abituali controlli delle riviste scientifiche sull’affidabilità degli studi sono stati molto allentati, per non rischiare di ritardare la diffusione di potenziali terapie o informazioni utili. Sono stati inoltre sdoganati i cosiddetti “pre-print”, con la pubblicazione di articoli non ancora revisionati da nessuno. Questo avrebbe dovuto invitare tutti alla prudenza, anche perché ogni nuovo dato avrebbe dovuto essere valutato nel contesto delle altre conoscenze disponibili. Molti scienziati hanno invece optato per il cosiddetto “cherry-picking”: hanno pescato quasi quotidianamente una qualche nuova pubblicazione (di valore da determinare) da cui estrarre cifre con cui sostenere la propria posizione più o meno “aperturista” e più o meno a favore della vaccinazione a tappeto della popolazione, tanto per citare alcuni dei temi più controversi. È in quel periodo che Viola e Bassetti hanno visto crescere moltissimo la propria popolarità mediatica, insieme a tanti altri “virologi-star” spesso invitati a battibeccare in televisione.
E quali sono state le conseguenze per la formazione dell’opinione pubblica?
“Le conseguenze negative sono numerose: una delle principali è la confusione. Questa vicenda recente legata al vino secondo me è ancor più scoraggiante, perché le conoscenze che abbiamo sugli effetti negativi per la salute dell’assunzione di alcolici sono molto più consolidate rispetto a quelle sul Covid-19, e perché il presunto ‘battibecco’ tra Viola e Bassetti non c’è nemmeno mai stato: è stato creato ad arte, andando a pescare una frase scritta da Bassetti su un social network e presentandola come ‘replica’. Oggi chi interroga i motori di ricerca con le parole chiave ‘Viola, Bassetti, alcol’ trova centinaia di pagine di testate che per abitudine continuiamo a chiamare ‘autorevoli’, che invece di provare a fare chiarezza gonfiano la polemica. È difficile dire se lo abbiano fatto per non essere da meno dei concorrenti nella spasmodica ricerca di click, per la scarsa competenza dei redattori incaricati di scrivere, o per compiacere gli inserzionisti che pubblicizzano bevande alcoliche, ma sta di fatto che l’unico effetto di tanto ‘inchiostro’, per usare quella che oramai è una metafora, non è stata informazione ma aumento della confusione”.
L’immagine del cervello “rimpicciolito” è molto forte. È possibile che anche tra gli esperti prevalga, sulla qualità dei contenuti, il desiderio di ‘colpire’ chi ascolta? Se è così, questo può dipendere anche da una visione riduzionista dell’opinione pubblica, vista come capace di cogliere solo certi tipi di argomenti e discorsi?
“Certamente questo è uno dei meccanismi che determinano oggi il successo mediatico, non solo in Italia. Viola nella trasmissione alla radio ha detto moltissime cose giuste, confermate da ampia e solida letteratura scientifica, ma non ha resistito alla tentazione di citare anche lo studio di Nature Communications secondo cui chi beve moderatamente avrebbe in media il cervello più piccolo. Io non ricordavo quello studio, e l’ho cercato. Per provare a valutarne affidabilità e significato ho poi trovato alcuni articoli giornalistici americani che segnalavano numerosi punti critici. Innanzitutto l’autore principale non è un neurologo ma insegna marketing della business school dell’Università di Madison. Inoltre è significativo che il dato sui consumi di alcol si limiti all’anno precedente al test (un periodo davvero breve), e soprattutto che i ricercatori non abbiano potuto valutare se i soggetti esaminati svolgevano un’attività cognitiva più o meno intensa. In sintesi, secondo alcuni esperti della relazione tra alcol e salute quel risultato va sicuramente preso con le molle, in attesa di studi più rigorosi. Però l’immagine del cervello rimpicciolito per aver bevuto un bicchiere di alcol ha ovviamente avuto un grande risalto sui giornali, e suscitato reazioni forti in chi leggeva”.
Come può un giornalista bilanciare la necessità di chiarezza e comprensibilità con la qualità degli argomenti che presenta, quando si parla di argomenti scientifici o si intervista un esperto? C’è qualche modo per orientarsi?
È difficile rispondere. In molti degli articoli che ho letto io su questa polemica, che sono una frazione minima di quelli censiti da Google, appare chiaro che l’intento dei giornalisti fosse il titolo forte, non fare chiarezza sul tema. Da lettore, un esercizio che può essere utile è chiedersi perché è stato scelto quell’interlocutore per parlare di alcol e salute. Qui Viola parlava nella sua veste di autrice e divulgatrice scientifica, su un tema di cui non si occupa professionalmente, e le cose che ha detto (comprese le forzature che nei corsi di giornalismo scientifico e di comunicazione della scienza si insegna a evitare) sono finite sui giornali perché lei è un personaggio famoso, a cui è stato contrapposto un altro personaggio famoso. Nei giorni seguenti ne abbiamo lette di tutti i colori, e anche alcuni esponenti di governo hanno detto e scritto sciocchezze (qualcuno potrebbe chiamarle “fake news”) sulla presunta innocuità del “consumo moderato”, anche se persino il sito del Ministero della Salute chiarisce che il consumo di alcol andrebbe evitato o ridotto al minimo.
Perché è così difficile riuscire a parlare di rischi, in questo caso per la salute?
Qualche anno fa su una rivista di epidemiologia fu coniata l’espressione “medical misinformation mess” per descrivere il mare magnum di pubblicazioni scientifiche basate su ricerche di modesta qualità metodologica, che giungevano a conclusioni spesso contraddittorie le une con le altre. Questo è uno dei motivi per cui negli ultimi decenni sono uscite e sono state ampiamente descritte sui media ricerche che ipotizzavano, per esempio, effetti benefici sulla salute cardiovascolare legati al consumo di vino rosso e formaggi, ovvero il cosiddetto “paradosso francese”. Più tardi si è capito che c’erano altre spiegazioni molto più plausibili rispetto al consumo di vino e formaggi per comprendere il dato sulla bassa mortalità cardiovascolare in Francia, ma intanto quell’idea aveva messo radici. Il concetto di rischio è molto complesso, perché nessuno studio è in grado di prevedere che cosa succederà a noi se adottiamo o non adottiamo un certo comportamento. Il cosiddetto “rischio zero” è un’illusione. Oggi la stessa pagina del Ministero della Salute che raccomanda di limitare gli alcolici descrive come “a basso rischio” un consumo di due unità alcoliche al giorno per gli uomini e una unità alcolica al giorno per le donne (una oltre i 65 anni e nessuna prima dei 18 anni).
Esistono delle buone pratiche per parlare adeguatamente di rischio?
Il primo comandamento consiste nel quantificare adeguatamente il rischio, e metterlo nel contesto. Per molti anni le riviste di medicina hanno pubblicato studi che usavano il cosiddetto “rischio relativo”, e dicevano per esempio che un certo rischio (o beneficio) raddoppiava o si dimezzava usando un certo farmaco o adottando un certo comportamento. Questo da un lato permetteva di capire subito l’entità del rischio, o del beneficio, ma dall’altro rischiava di mettere sullo stesso piano rischi molto frequenti e molto rari. Per esempio, se una certa misura di prevenzione (farmacologica o di altro tipo) riduce del 10% il rischio di morire per una malattia che uccide 100.000 persone ogni anno è chiaro non è paragonabile a una che riduce anche del 50% il rischio di morire per una rara infezione, che uccide una o due persone all’anno. Proprio per aiutare a capire meglio il significato reale di questi numeri, negli ultimi anni gli statistici hanno raccomandato di riportare anche il cosiddetto “rischio assoluto”, e altri parametri utili come il “number needed to treat”, ovvero il numero medio di pazienti che devono ricevere il trattamento perché uno di loro ottenga il beneficio. Molti altri elementi complicano di sovente il quadro, perché spesso gli studi quantificano l’aumento di rischio che un certo evento si verifichi in un determinato numero di anni rispetto alla popolazione generale. Anche per questo è importante per chi si occupa di giornalismo o divulgazione individuare interlocutori competenti.
Un’altra questione emersa riguarda l’expertise per parlare di un certo tema. Come avviene il processo di selezione degli esperti da parte delle redazioni? E anche in questo caso, ci sono delle linee guida o buone pratiche da seguire?
Ci si interroga da molto tempo su questo, non solo nelle redazioni dei mass media. Recentemente mi è tornato alla mente un articolo pubblicato da tre tra i massimi esperti di evidence-based medicine (tra cui il compianto Alessandro Liberati, fondatore del gruppo Cochrane italiano) sul numero di Natale 2004 del British Medical Journal, che per tradizione ha un tono scherzoso. L’articolo è una “field guide to experts”, una guida da campo scritta imitando quelle per appassionati di bird-watching, ed è firmato a nome del “World artifexology group”, ovvero a nome degli studiosi di esperti. La loro critica, esilarante, prendeva di mira i molti clinici sempre pronti a fornire un “parere esperto” (spesso su richiesta di un generoso produttore di farmaci) anche se in contrasto con le prove di efficacia disponibili nella letteratura medico-scientifica. L’articolo offre anche succose citazioni, per esempio dell’astrofisico Stephen Hawking (“Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione della conoscenza”), del filosofo Nicholas Murray Butler (“Un esperto è qualcuno che sa sempre di più su sempre meno cose”) e dello scrittore di fantascienza Robert Heinlein (“Ascolta sempre gli esperti. Ti diranno che cosa non può essere fatto e perché. Poi fallo”). Ovviamente, al di là dello scherzo, quella di Liberati e dei suoi colleghi era una critica mossa nel nome della scienza fatta come si deve, appunto la cosiddetta evidence-based medicine, la medicina basata sulle prove, alle affermazioni fatte impropriamente nel nome della scienza da chi sembra avere i titoli per farlo. Tale fenomeno è stato chiamato per assonanza “eminence-based”, ovvero medicina basata sull’eminenza, sulla posizione sociale. Dopodiché anche Liberati spiegava che per leggere e interpretare uno studio clinico o una revisione sistematica con metanalisi occorre affidarsi agli esperti, non tanto della malattia ma della metodologia della ricerca clinica. E la drammatica spaccatura del gruppo Cochrane in anni recenti dimostra che anche tra questi ultimi le divergenze di opinione possono essere devastanti.
Il protagonismo di chi fa ricerca o anche solo pratica clinica rischia di limitare il ruolo di chi fa giornalismo e divulgazione. Come ristabilire dei confini? E dove dovrebbero essere tracciati?
Non credo che l’immagine dei confini sia utile, perché a chi fa giornalismo o divulgazione serve essere in costante dialogo con chi fa ricerca e, nel caso della pratica clinica, con chi si trova ad applicarne i risultati nella realtà. E viceversa. Anche qui mi viene in mente una brillante vignetta del collega giornalista inglese Ed Yong (con un passato di ricercatore) che già anni fa descriveva la tendenza che abbiamo tutti, scienziati e giornalisti, a concentrarci sugli esempi peggiori del “campo avverso”, mentre i nostri colleghi colpevoli dei comportamenti inappropriati pensano a tutt’altro. Io trovo che la situazione italiana attuale sia abbastanza disperata, e credo che ci sia spazio per tutti coloro che hanno a cuore la qualità dell’informazione e della divulgazione scientifica, con una sola raccomandazione, che forse vale un po’ più per gli scienziati che per i miei colleghi comunicatori: occorre tenere sempre a mente che comunicare la scienza è un compito difficile, e mentre ci vuole tempo e costanza per costruire un rapporto di fiducia con il pubblico (condizione preliminare per una comunicazione efficace), basta davvero poco per comprometterlo.