11 Aprile 2024
Antologia dell'inconsueto

Il colera degli untori tra Verga e De Roberto

Rileggendo alcune novelle di Giovanni Verga – e nello specifico Quelli del colera, racconto tratto dalla raccolta Novelle Rusticane (pubblicate a Torino dall’editore Casanova nel 1883) – torna alla mente la straordinaria tecnica stilistica utilizzata dallo scrittore siciliano (il discorso rivissuto) per far affiorare la prospettiva popolare e raccontare le vicende in modo che l’intervento del narratore si riduca al minimo, quasi eclissandosi nelle voci dei personaggi (il cosiddetto “artificio della regressione” che nei Malavoglia raggiunge la soluzione stilistica migliore). E questa operazione consente di portare in superficie ogni angolo prospettico del modo in cui quei personaggi interpretano il reale (e vedono il mondo in cui vivono), tra cui il pregiudizio e la ricerca dei capri espiatori per cercare di dare una spiegazione al male che li circonda. In questa circostanza parleremo del colera attraverso i punti di vista degli attori in scena che sulla falsa riga dei personaggi dei Promessi Sposi tentano di comprendere la diffusione di un morbo (per loro) inspiegabile (con varie reazioni di violenza).

Alcuni biografi dello scrittore siciliano ritengono che Verga possa essere nato non a Catania, ma in un podere di campagna vicino al centro abitato di Vizzini perché nell’estate del 1840, essendosi abbattuto su Catania il colera, la famiglia si era trasferita sulle colline per tentare di sfuggire all’epidemia e consentire alla madre di Giovanni (Caterina di Mauro) di partorire in condizioni di maggiore sicurezza. Ma quell’ondata di colera si era – quasi sicuramente – già esaurita a partire dal 1837 (almeno da quelle parti); non vi sono, quindi, certezze in merito al luogo preciso in cui Verga è venuto al mondo.

Può essere una curiosità interessante ricordare un’annotazione di Verga apposta sull’occhiello di una copia della prima edizione delle Novelle Rusticane dedicata a Capuana in cui si legge: «A Luigi Capuana “villano” di Mineo – Giovanni Verga “villano” di Vizzini». La dedica può essere, naturalmente, una semplice dimostrazione di affetto verso una località di provincia che lo scrittore frequentava sin da bambino e non costituisce affatto una prova che sia nato a Vizzini; fatto sta che la nascita è stata registrata in Via Sant’Anna, 8 a Catania (ore 5 del mattino).

Il colera ritorna un’altra volta nella vita di Giovanni Verga (dopo l’ipotesi sul luogo di nascita) nel 1854, quando l’epidemia si affaccia di nuovo a Catania e la famiglia si sposta nella campagna di Tèbidi, nei pressi di Vizzini (stessa cosa avverrà l’anno dopo). Dall’esperienza di vita in mezzo ai pastori e agli abitanti del contado, nascono molte della sue novelle e della produzione letteraria verista. Ma ecco nuovamente il colera nella sua vita che lo costringe – dopo la diffusione di una nuova ondata epidemica nel 1867 – a trovare rifugio nelle proprietà familiari di campagna fuori Catania.

Tra il 1880 e il 1889 possiamo dire che si consuma la stagione verista dello scrittore: del batterio se ne parla anche nei Malavoglia, per esempio, a proposito della morte della Longa (Maruzza, moglie di Bastianazzo) e della credenza popolare che attribuiva la diffusione del morbo all’operato di individui cinici e malvagi (come il frate parroco, don Giammaria, che incolpa addirittura il farmacista). In questo contesto ricordiamo, invece, lo speziale che deride la convinzione dei popolani secondo la quale il morbo veniva gettato volutamente per le strade e dietro le porte come dei novelli untori di manzoniana memoria. Ma in questa sede ci interessa, soprattutto, la novella ricordata sopra, dal titolo Quelli del colèra.

Attraverso una prospettiva dal basso, lo scrittore siciliano racconta la reazione di due comunità paesane di San Martino e di Miraglia nella parte orientale della Sicilia, colpite dall’epidemia di colera del 1837 (lo stesso anno in cui arrivò a Roma). La folla è terrorizzata dalla diffusione del contagio e reagisce trovando come capro espiatorio una compagnia itinerante di teatranti e una famiglia di zingari: in questo racconto le vittime del contagio sono le vittime del pregiudizio collettivo e dell’ignoranza.

Dopo una carrellata sui presunti casi di diffusione del morbo, la narrazione si sofferma sui fatti di San Martino, dove la morte di alcuni abitanti fa inferocire la folla che si scaglia contro alcuni attori di passaggio, additandoli come i responsabili della volontaria trasmissione della malattia. La scena si sposta, successivamente, a Miraglia, dove a farne le spese sono, ancora una volta, dei forestieri, individuati in alcuni girovaghi. In questo caso la rivolta è molto violenta e a perdere la vita sarà una giovane madre intenta a proteggere il suo bambino dalla ferocia dei paesani. Il punto di vista della novella è focalizzato sulla confusione generata dalla reazione degli abitanti delle zone colpite dall’epidemia; anche nel racconto Fantasticheria (Vita dei campi, 1880) si cita il colera che insieme al tifo e ad altri eventi nefasti, rappresentano – secondo questa prospettiva – una delle peggiori sciagure dell’umanità (in questo senso possiamo ricordare anche la novella Malaria, tratta dalle Novelle Rusticane). Per chi volesse leggere o rileggere alcune porzioni di testo della novella Quelli del colèra, riporto qui dei passi molto interessanti dove la voce narrante si fonde con quella dei personaggi in scena:

«Il colèra mieteva la povera gente colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe, per tutto il contado; e anche dei ricchi: il parroco di Canzirrò, ch’era scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa, a sole alto, l’aveva pigliato nell’ostia consacrata; a don Pepè, il mercante di bestiame, gliel’avevano dato invece in una presa di tabacco, alla fiera di Muglia, un sensale forestiero — per conchiudere il negozio — diceva lui. Cose da far rizzare i capelli in testa! Avvelenata persino la fontana delle Quattro Vie; bestie e cristiani vi restavano, là! A Rosegabella, venti case, un bel giorno era capitato il merciaiuolo, di quelli che vanno in giro colle scarabattole in spalla, e quanti misero il naso fuori per vedere, tanti ne morirono, fin le galline. Ciascuno badava quindi ai casi propri, collo schioppo in mano, appiattato dietro l’uscio, accanto la siepe, bocconi nel fossatello, per le fattorie, nei casolari, da per tutto. Quelli di San Martino s’erano anche armati, uomini e donne. Volevano morir piuttosto di una schioppettata, o d’altra morte che manda Dio. Ma il colèra, no! non lo volevano!»

[…]«La folla cominciava ad ammutinarsi a misura che cresceva. — Cristiani del mondo! Che ci vogliono far morire davvero come bestie nella tana? — Uno, colla faccia stralunata, raccontava come Zanghi avesse acchiappato il male, nella baracca dei commedianti. L’aveva visto lui, coi suoi occhi, il vecchio che lo tirava per la falda del vestito perché gli pareva che volesse passare a scappellotto. — Anche comare Barbara! che pur non si era mossa di casa! — E quell’infame Capo Urbano che andava dicendo «Non è nulla, non è nulla,» e mostrava la carta bianca! Quella era la carta del Sotto Intendente che ordinava di lasciar spargere il colèra! — Ah! volevano proprio farli morire come bestie nella tana, cristiani di Dio!»

[…]«Quelli del baraccone stavano facendo cuocere quattro fave, a ridosso del muricciuolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: — Dàlli! dàlli! — e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. — Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! — Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i figlioletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. — No! no! non li ammazzate ancora! Vediamo prima se sono innocenti! vediamo prima se portano il colèra!» (“Vagabondaggio”, G. Barbèra, 1887).

A Giovanni Verga affianchiamo l’altro big della letteratura verista, il napoletano Federico De Roberto, nato nel 1861 e poi trasferitosi con la famiglia a Catania nel 1870 (e qui morto nel 1927). Ricordiamo, intanto, la novella San Placido pubblicata nel 1887 all’interno della raccolta La sorte in cui si parla anche del colera e si affrontano i temi della nobiltà decaduta e della piccola borghesia in ascesa che ricorda, per i temi trattati, soprattutto, il Mastro-don Gesualdo di Verga. Il romanzo più noto di De Roberto ha per titolo I Viceré ed è ambientato nel Meridione al tempo delle vicende risorgimentali narrate attraverso la storia degli Uzeda di Francalanza, una famiglia nobile di Catania discendente dai Viceré spagnoli di Sicilia al tempo di Carlo V.

I capitoli quinto e sesto della prima parte del romanzo sono dedicati al morbo del colera, raccontato attraverso il discorso indiretto libero e il filtro delle varie voci popolari che tentano di dare una spiegazione alla malattia. Ecco alcune porzioni testuali tratte dal capitolo cinque:

«Ogni altro interesse cedé come per incanto dinanzi all’universale inquietudine per la salute pubblica, giacché della notizia portata da Don Giacomo, sulle prime smentita, poi confermata, non fu possibile più dubitare quando, di lì a qualche giorno, non si parlò più di casi sospetti a Siracusa, ma del divampare del morbo a Noto.»

[…]«gli Uzeda erano scappati alla loro villa sulle pendici della montagna, e poiché il colera non arrivava mai lassù, erano certi di liberarsene.»

[…]« I Fersa non sapevano ancora dove fuggire il colera: il principe consigliava loro di prendere in affitto una casa al Belvedere, per essere vicini.»

[…]«Nonostante l’allarme cagionato dalla pestilenza, l’intrinsichezza delle due famiglie si strinse ancora più in quei giorni.»

[…]«per fuggire il colera»

e dal capitolo sei:

«Il castigo di Dio! Tutta colpa dei nostri peccati! Eran più di dieci anni che vivevamo tranquilli! Assassini del governo! La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugare il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull’origine della pestilenza, sulla fuga generale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’ «italiani», untori quanto i Borboni».

(…) «la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l’insorta città. E sui monticelli di breccia, disposti lungo la via, al filo d’ombra proiettata dai muri, dalla cui cresta sporgevano le pale spinose dei fichi d’India, i fuggenti sedevano un poco, discutendo di queste cose, mentre continuava la sfilata delle carrozze, dei carri e dei pedoni non ancora stanchi. Alcuni tra questi, i più poveri, avevano caricato tutta la loro casa su un asinello, e uomini, donne e bambini seguivano a piedi, con fagotti di cenci in capo, o sotto il braccio, o infilati ad un bastone, la bestia lenta e paziente. I conoscenti si fermavano, notizie e commenti erano scambiati anche tra sconosciuti con la solidarietà del pericolo nella comune miseria. Le donne ripetevano ciò che avevano udito dire dai preti: il colera era la pena dei tempi peccaminosi: gli scomunicati non avevano fatto la guerra al papa? La Chiesa non era perseguitata? E adesso, per colmar lo staio, c’era la legge che spogliava i conventi! La fine del mondo! L’anno calamitoso! Chi avrebbe creduto una cosa simile! Tanti poveri monaci buttati in mezzo a una via? I luoghi santi sconsacrati? Non c’è più dove arrivare» (Galli, 1894).

Da queste porzioni testuali emergono (certamente) la confusione e lo smarrimento dei personaggi che cercano un possibile luogo sicuro non raggiungibile dal morbo. Ma ecco che si affaccia l’idea del castigo di Dio a causa dei tempi peccaminosi, e delle malefatte del popolo nei confronti della Chiesa e dei preti.

Non mancano le credenze nei malefici e nel veleno sparso per ordine delle autorità politiche: la colpa è variamente distribuita tra gli Italiani e i Borbone (o Borboni). Quando non si conosce il male bisogna comunque attribuire una colpa, trovare un capro espiatorio (talvolta più di uno) e fornirsi di una spiegazione che possa, in qualche modo, dare senso a quanto sta accadendo.

Il romanzo I Viceré (pubblicato per la prima volta nel 1894 dall’editore Galli di Milano), che rappresenta anche la delusione della storia italiana tra il Risorgimento e l’Unificazione, copre un lungo arco temporale che va dal 1855 al 1882, cioè proprio gli anni in cui gli scienziati dell’epoca stavano studiando il batterio del Vibrio cholerae (grazie agli studi epidemiologici del medico inglese John Snow, dell’anatomista italiano Filippo Pacini – che identificò il batterio nel 1854 – e del microbiologo tedesco – nonché premio Nobel per la medicina nel 1905 – Robert Koch che scoprì anche l’agente eziologico della Tubercolosi); ma per queste persone del popolo l’untore è ovunque, così come la punizione divina e il veleno distribuito volontariamente dalle autorità assassine.

Immagine: colera a Palermo durante l’epiedmia del 1835, Wellcome Collection

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