Esoterismo e occultismo fanno l’uomo ladro: le prodezze di Max ne «Il fu Mattia Pascal»
Dell’aspetto esoterico di Luigi Pirandello se ne è già occupata, in modo egregio, Monia Marchettini in un articolo di questa rubrica che risale al mese di giugno del 2019, dal titolo “Antologia scettica: il figlio cambiato (novella)“, riferendosi proprio all’omonimo racconto dello scrittore siciliano.
Pirandello si è interessato anche allo spiritismo e all’occultismo, potremmo dire, cercando, in questo modo, di penetrare all’interno di ogni crepa psicologica dell’edificio umano, al di là del fatto se lo facesse a scopo antropologico-letterario (e quindi da affabulatore per il montaggio di un testo) o anche perché affascinato e magari incline a credere a possibili dimensioni paranormali.
Nel libro Mondo occulto, a cura di Simona Cigliana, sono raccolti alcuni scritti di Luigi Capuana intorno a tematiche spiritiche e occultistiche, come Spiritismo, Mondo occulto, La religione dell’avvenire, Il Di là, La medianità, Lettera aperta a Luigi Pirandello, A proposito di un fantasma, I misteri dello spiritismo, I pianeti abitati secondo un illuminato. E di questa particolare dimensione di Capuana (noto come il padre del Verismo, Maestro di Giovanni Verga, e grande divulgatore della letteratura naturalista francese in Italia) se ne è occupata ancora Monia Marchettini nell’articolo “Il primo marito” (in Antologia dell’inconsueto, 23 dicembre 2020) in cui parla anche dei rapporti dello scrittore di Mineo con Cesare Lombroso, chiamato, nel 1891, a far parte di una commissione di controllo per esaminare la famosa, sedicente, medium Eusapia Palladino.
Capuana tenta di applicare, si sa, il metodo scientifico allo stile di scrittura, considerato il più idoneo per far parlare direttamente il reale, senza eccessivi filtri narrativi ed emotivi da parte dell’autore (quasi un testo mimetico, per dirla con Aristotele). Introduce, così, il canone dell’impersonalità nella struttura del discorso narrante, dando spesso la parola ai personaggi in scena, e questa tecnica sarà perfezionata da Giovanni Verga nel suo stile di scrittura, raggiungendo il culmine soprattutto nel romanzo capolavoro: “I Malavoglia” (si pensi al Discorso rivissuto).
Ma se da una parte Capuana si prodiga affinché si abbia una prosa il più possibile scientifica, dall’altra è attratto da molti interessi e fermenti culturali del periodo, dalla fotografia (anche dei defunti) alla fisiologia, dal futurismo alla parapsicologia, dalla fantascienza all’estetismo irrazionale, fino a ridimensionare il Verismo (da lui divulgato) per considerarlo uno dei tanti ismi contemporanei presenti in quel momento.
E Luigi Pirandello non sarà da meno nel tentativo di scrutare l’universo e i suoi misteri da utilizzare come materiale per la sua sterminata produzione letteraria. Lo scrittore di Agrigento si interessa di teosofia, spiritismo, occultistica e nel testo di Capuana, Lettera aperta a Luigi Pirandello (citato sopra), si parla proprio di una seduta spiritica avvenuta in casa di un nobile romano che potrebbe aver ispirato la famosa scena spiritica ne Il fu Mattia Pascal.
Il protagonista del famoso romanzo – divenuto nel frattempo Adriano Meis – dopo una cospicua vincita a Montecarlo (nel tentativo di cambiare vita e identità) trascorre un periodo di convalescenza (in seguito a un’operazione chirurgica all’occhio storto) nella casa romana del signor Anselmo Paleari, che durante varie conversazioni ha modo di spiegare la sua particolare teoria della lanterninosofia, che poi è una metafora per spiegare il modo in cui leggiamo la realtà all’interno della quale ci troviamo a navigare:
«Un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la Terra, e ci fa vedere il male e il bene, un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spinto alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremmo noi piuttosto alla mercé dell’essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione» (capitolo XIII, Il lanternino).
Ci troviamo di fronte un connubio di teologia e filosofia: nella casa di Paleari si parla spesso di vari misteri come le dottrine sull’aldilà, e si pratica dello spiritismo, come la seduta nel capitolo XIV del romanzo (Le prodezze di Max).
Stando alla teoria della lanterninosofia (esposta nel capitolo XIII) la nostra esistenza è come una lanterna che irradia una luce che altera la nostra conoscenza della realtà che ci circonda. Ogni lanternino è diverso dall’altro, così come ogni persona è differente dall’altra, ogni modo di percepire la realtà, di sentire e di osservare. Nulla è riconoscibile oggettivamente. Ogni epoca, poi, proietta intorno a noi una luce diversa che ci fa vedere il mondo in una continua pluralità di lumi, per cui fissare una realtà precisa diventa impossibile, e con la morte tutto diventa buio.
Fatto sta che alla seduta spiritica del capitolo XIV del romanzo pirandelliano succede di tutto, tra cui un bel pugno in faccia alla signorina Caporale; al termine del Luna Park medianico, nel capitolo successivo, Mattia Pascal (ora Adriano Meis, come ricordato sopra) scopre che durante la seduta spiritica qualcuno ha approfittato della situazione per forzare la sua cassaforte e trafugare ben dodici mila lire delle sessantacinquemila rimaste della fortunata vincita al Casinò di Montecarlo (cap. XV, Io e l’ombra mia).
Si crederà pure ai fantasmi, saranno anche affascinati dall’esoterismo e dai misteri, ma l’occasione fa l’uomo ladro, e ciò che resta di concreto, e davvero realistico di quell’esperienza, è il furto perpetrato ai danni del povero protagonista del romanzo (che non può denunciare il furto perché non ha un’identità).
Ma rileggiamo adesso (se volete) il movimentato capitolo XIV con le prodezze di Max (Edizione di riferimento, L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Treves, 1919).
Il fu Mattia Pascal, capitolo XIV
Apprensione? No. Neanche per ombra. Ma una viva curiosità mi teneva e anche un certo timore che Papiano stèsse per fare una pessima figura. Avrei dovuto goderne; e, invece, no. Chi non prova pena, o piuttosto, un frigido avvilimento nell’assistere a una commedia mal rappresentata da comici inesperti?
« Tra due sta, — pensavo: — o egli è molto abile, o l’ostinazione di tenersi accanto Adriana non gli fa veder bene dove si mette, lasciando il Bernaldez e Pepita, me e Adriana disillusi e perciò in grado d’accorgerci senza alcun gusto, senz’alcun compenso, della sua frode. Meglio di tutti se n’accorgerà Adriana che gli sta più vicina; ma lei già sospetta la frode e vi è preparata. Non potendo starmi accanto, forse in questo momento ella domanda a sè stessa perchè rimanga lì ad assistere a una farsa per lei non solamente insulsa, ma anche indegna e sacrilega. E la stessa domanda certo, dal canto loro, si rivolgono il Bernaldez e Pepita. Come mai Papiano non se ne rende conto, or che s’è visto fallire il colpo d’allogarmi accanto la Pantogada? Si fida dunque tanto della propria abilità? Stiamo a vedere. »
Facendo queste riflessioni, io non pensavo affatto alla signorina Caporale. A un tratto, questa si mise a parlare, come in un leggero dormiveglia.
— La catena, — disse, — la catena va mutata…
— Abbiamo già Max? — domandò premurosamente quel buon uomo del signor Anselmo.
La risposta della Caporale si fece attendere un bel po’.
— Sì, — poi disse penosamente, quasi con affanno. — Ma siamo in troppi, questa sera…
— È vero sì! — scattò Papiano. — Mi sembra però, che così stiamo benone.
— Zitto! — ammonì il Paleari. — Sentiamo che dice Max.
— La catena, — riprese la Caporale, — non gli par bene equilibrata. Qua, da questo lato (e sollevò la mia mano), ci sono due donne accanto. Il signor Anselmo farebbe bene a prendere il posto della signorina Pantogada, e viceversa.
— Subito! — sclamò il signor Anselmo, alzandosi. — Ecco, signorina, segga qua!
E Pepita, questa volta, non si ribellò. Era accanto al pittore.
— Poi, — soggiunse la Caporale, — la signora Candida…
Papiano la interruppe:
— Al posto d’Adriana, è vero? Ci avevo pensato. Va benone!
Io strinsi forte, forte, forte, la mano di Adriana fino a farle male, appena ella venne a prender posto accanto a me. Contemporaneamente la signorina Caporale mi stringeva l’altra mano, come per domandarmi: « È contento così? » — « Ma sì, contentone! » — le risposi io con un’altra stretta, che significava anche: — « E ora fate pure, fate pure quel che vi piace! ».
— Silenzio! — intimò a questo punto il signor Anselmo.
E chi aveva fiatato? Chi? Il tavolino! Quattro colpi: — Bujo!
Giuro di non averli sentiti.
Se non che, appena spento il lanternino, avvenne tal cosa che scompigliò d’un tratto tutte le mie supposizioni. La signorina Caporale cacciò uno strillo acutissimo, che ci fece sobbalzar tutti quanti dalle seggiole.
— Luce! Luce!
Che era avvenuto?
Un pugno! La signorina Caporale aveva ricevuto un pugno su la bocca, formidabile: le sanguinavano le gengive.
Pepita e la signora Candida scattarono in piedi, spaventate. Anche Papiano s’alzò per riaccendere il lanternino. Subito Adriana ritrasse dalla mia mano la sua. Il Bernaldez teneva tra le dita un fiammifero e sorrideva, tra sorpreso e incredulo, mentre il signor Anselmo, costernatissimo, badava a ripetere:
— Un pugno! E come si spiega?
Me lo domandavo anch’io, turbato. Un pugno? Dunque quel cambiamento di posti non era concertato avanti tra i due. Un pugno? Dunque la signorina Caporale s’era ribellata a Papiano. E ora?
Ora, scostando la seggiola e premendosi un fazzoletto su la bocca, la Caporale protestava di non voler più saperne. E Pepita Pantogada strillava:
— Gracie, segnori! gracie! Acquì se dano cachetes!
— Ma no! ma no! — esclamò il Paleari. — Signori miei, questo è un fatto nuovo, stranissimo! Bisogna chiederne spiegazione.
— A Max? — domandai io.
— A Max, già! Che lei, cara Silvia, abbia male interpretato i suggerimenti di lui nella disposizione della catena?
— È probabile! è probabile! — esclamò il Bernaldez, ridendo.
— Lei, signor Meis, che ne pensa? — mi domandò il Paleari, a cui il Bernaldez non andava proprio a genio.
— Eh, di sicuro, questo pare, — dissi io.
Ma la Caporale negò recisamente col capo.
— E allora? — riprese il signor Anselmo. — Come si spiega? Max violento! E quando mai? Che ne dici tu, Terenzio?
Non diceva nulla, Terenzio, protetto dalla semioscurità: alzò le spalle, e basta.
— Via, — diss’io allora alla Caporale. — Vogliamo contentare il signor Anselmo, signorina? Domandiamo a Max una spiegazione: che se poi egli si dimostrerà di nuovo spirito… di poco spirito, lasceremo andare. Dico bene, signor Papiano?
— Benissimo! — rispose questi. — Domandiamo, domandiamo pure. Io ci sto.
— Ma non ci sto io, così! — rimbeccò la Caporale, rivolta proprio a lui.
— Lo dice a me? — fece Papiano. — Ma se lei vuol lasciare andare…
— Sì, sarebbe meglio, — arrischiò timidamente Adriana.
Ma subito il signor Anselmo le diede su la voce:
— Ecco la paurosa! Son puerilità, perbacco! Scusi, lo dico anche a lei, Silvia! Lei conosce bene lo spirito che le è familiare, e sa che questa è la prima volta che… Sarebbe un peccato, via! perchè, — spiacevole quanto si voglia quest’incidente — i fenomeni accennavano questa sera a manifestarsi con insolita energia.
— Troppa! — esclamò il Bernaldez, sghignazzando e promovendo il riso degli altri.
— E io, — aggiunsi, — non vorrei buscarmi un pugno su quest’occhio qui…
— Ni tampoco ió! — aggiunse Pepita.
— A sedere! — ordinò allora Papiano, risolutamente. — Seguiamo il consiglio del signor Meis. Proviamoci a domandare una spiegazione. Se i fenomeni si rivelano di nuovo con troppa violenza, smetteremo. A sedere!
E soffiò sul lanternino.
Io cercai al bujo la mano di Adriana, ch’era fredda e tremante. Per rispettare il suo timore, non gliela strinsi in prima; pian piano, gradatamente, gliela premetti, come per infonderle calore, e, col calore, la fiducia che tutto adesso sarebbe proceduto tranquillamente. Non poteva esser dubbio, infatti, che Papiano, forse pentito della violenza a cui s’era lasciato andare, aveva cangiato avviso. A ogni modo avremmo certo avuto un momento di tregua; poi, forse, io e Adriana, nel bujo, saremmo stati il bersaglio di Max. — « Ebbene, — dissi tra me, — se il giuoco diventerà troppo pesante, lo faremo durar poco. Non permetterò che Adriana sia tormentata ».
Intanto il signor Anselmo s’era messo a parlare con Max, proprio come si parla a qualcuno vero e reale, lì presente.
— Ci sei?
Due colpi, lievi, sul tavolino. — C’era!
— E come va, Max, — domandò il Paleari, in tono d’amorevole rimprovero, — che tu, tanto buono, tanto gentile, hai trattato così malamente la signorina Silvia? Ce lo vuoi dire?
Questa volta il tavolino si agitò dapprima un poco, quindi tre colpi secchi e sodi risonarono nel mezzo di esso. Tre colpi: dunque, no: non ce lo voleva dire.
— Non insistiamo! — si rimise il signor Anselmo. — Tu sei forse ancora un po’ alterato, eh, Max? Lo sento, ti conosco… ti conosco… Vorresti dirci almeno se la catena così disposta ti accontenta?
Non aveva il Paleari finito di far questa domanda, ch’io sentii picchiarmi rapidamente due volte su la fronte, quasi con la punta di un dito.
— Sì! — esclamai subito, denunciando il fenomeno; e strinsi la mano d’Adriana.
Debbo confessare che quel « toccamento » inatteso mi fece pure, lì per lì, una strana impressione. Ero sicuro che, se avessi levato a tempo la mano, avrei ghermito quella di Papiano, e tuttavia… La delicata leggerezza del tocco e la precisione erano state, a ogni modo, meravigliose. Poi, ripeto, non me l’aspettavo. Ma perchè intanto Papiano aveva scelto me per manifestar la sua remissione? Aveva voluto con quel segno tranquillarmi, o era esso all’incontro una sfida e significava: — « Adesso vedrai se son contento »?
— Bravo, Max! — esclamò il signor Anselmo.
E io, tra me:
— (Bravo, sì! Che fitta di scapaccioni ti darei!)
— Ora, se non ti dispiace, — riprese il padron di casa, — vorresti darci un segno del tuo buon animo verso di noi?
Cinque colpi sul tavolino intimarono: — Parlate!
— Che significa? — domandò la signora Candida, impaurita.
— Che bisogna parlare, — spiegò Papiano, tranquillamente.
E Pepita:
— A chi?
— Ma a chi vuol lei, signorina! Parli col suo vicino, per esempio.
— Forte?
— Sì, — disse il signor Anselmo. — Questo vuol dire, signor Meis, che Max ci prepara intanto qualche bella manifestazione. Forse una luce… chi sa! Parliamo, parliamo…
E che dire? Io già parlavo da un pezzo con la mano d’Adriana, e non pensavo, ahimè, non pensavo più a nulla! Tenevo a quella manina un lungo discorso intenso, stringente, e pur carezzevole, che essa ascoltava tremante e abbandonata; già l’avevo costretta a cedermi le dita, a intrecciarle con le mie. Un’ardente ebbrezza mi aveva preso, che godeva dello spasimo che le costava lo sforzo di reprimer la sua foga smaniosa per esprimersi invece con le maniere d’una dolce tenerezza, come voleva il candore di quella timida anima soave.
Ora, in tempo che le nostre mani facevano questo discorso fitto fitto, io cominciai ad avvertire come uno strofinìo alla traversa, tra le due gambe posteriori della seggiola; e mi turbai. Papiano non poteva col piede arrivare fin là; e, quand’anche, la traversa fra le gambe anteriori gliel’avrebbe impedito. Che si fosse alzato dal tavolino e fosse venuto dietro alla mia seggiola? Ma, in questo caso, la signora Candida, se non era proprio scema, avrebbe dovuto avvertirlo. Prima di comunicare a gli altri il fenomeno, avrei voluto in qualche modo spiegarmelo; ma poi pensai che, avendo ottenuto ciò che mi premeva, ora, quasi per obbligo, mi conveniva secondar la frode, senz’altro indugio, per non irritare maggiormente Papiano. E arrivai a dire quel che sentivo.
— Davvero? — esclamò Papiano, dal suo posto, con una meraviglia che mi parve sincera.
Nè minor meraviglia dimostrò la signorina Caporale.
Sentii rizzarmi i capelli su la fronte. Dunque, quel fenomeno era vero?
— Strofinìo? — domandò ansiosamente il signor Anselmo. — Come sarebbe? come sarebbe?
— Ma sì! — confermai, quasi stizzito. — E sèguita! Come se ci fosse qua dietro un cagnolino… ecco!
Un alto scoppio di risa accolse questa mia spiegazione.
— Ma è Minerva! è Minerva! — gridò Pepita Pantogada.
— Chi è Minerva? — domandai, mortificato.
— Ma la mia cagneta! — riprese quella, ridendo ancora. — La viechia mia, segnore, che se grata así soto tute le sedie. Con permisso! con permisso!
Il Bernaldez accese un altro fiammifero, e Pepita s’alzò per prendere quella cagnetta, che si chiamava Minerva, e accucciarsela in grembo.
— Ora mi spiego, — disse contrariato il signor Anselmo, — ora mi spiego la irritazione di Max. C’è poca serietà, questa sera, ecco!
Per il signor Anselmo, forse, sì: ma — a dir vero — non ce ne fu molta di più per noi nelle sere successive, rispetto allo spiritismo, s’intende.
Chi potè più badare alle prodezze di Max nel buio? Il tavolino scricchiolava, si moveva, parlava con picchi sodi o lievi; altri picchi s’udivano su le cartelle delle nostre seggiole e, or qua or là, su i mobili della camera, e raspamenti, strascichii e altri rumori; strane luci fosforiche, come fuochi fatui, s’accendevano nell’aria per un tratto, vagolando, e anche il lenzuolo si rischiarava e si gonfiava come una vela; e un tavolinetto porta-sigari si fece parecchie passeggiatine per la camera e una volta finanche balzò sul tavolino intorno al quale sedevamo in catena; e la chitarra come se avesse messo le ali, volò dal cassettone su cui era posata e venne a strimpellar su noi… Mi parve però che Max manifestasse meglio le sue eminenti facoltà musicali coi sonaglioli del collaretto del cane, che a un certo punto fu messo al collo della signorina Caporale; il che parve al signor Anselmo uno scherzo affettuoso e spiritosissimo di Max; ma la signorina Caporale non lo gradì molto.
Era entrato evidentemente in iscena, protetto dal bujo, Scipione, il fratello di Papiano, con istruzioni particolarissime. Costui era davvero epilettico, ma non così idiota come il fratello Terenzio e lui stesso volevano dare a intendere. Con la lunga abitudine dell’oscurità, doveva aver fatto l’occhio a vederci al bujo. In verità, non potrei dire fino a che punto egli si dimostrasse destro in quelle frodi congegnate avanti col fratello e con la Caporale; per noi, cioè per me e per Adriana, per Pepita e il Bernaldez, poteva far quello che gli piaceva e tutto andava bene, comunque lo facesse: lì, egli non doveva contentare che il signor Anselmo e la signora Candida; e pareva vi riuscisse a meraviglia. È vero bensì, che nè l’uno nè l’altra erano di difficile contentatura. Oh, il signor Anselmo gongolava di gioja; pareva in certi momenti un ragazzetto al teatrino delle marionette; e a certe sue esclamazioni puerili io soffrivo, non solo per l’avvilimento che mi cagionava il vedere un uomo, non certamente sciocco, dimostrarsi tale fino all’inverosimile; ma anche perchè Adriana mi faceva comprendere che provava rimorso di godere così, a scàpito della serietà del padre, approfittandosi della ridicola dabbenaggine di lui.
Questo solo turbava di tratto in tratto la nostra gioja. Eppure, conoscendo Papiano, avrebbe dovuto nascermi il sospetto che, se egli si rassegnava a lasciarmi accanto Adriana e, contrariamente a’ miei timori, non ci faceva mai disturbare dallo spirito di Max, anzi pareva che ci favorisse e ci proteggesse, doveva aver fatto qualche altra pensata. Ma era tale in quei momenti la gioja che mi procurava la libertà indisturbata nel bujo, che questo sospetto non mi s’affacciò affatto.
— No! — strillò a un certo punto la signorina Pantogada.
E subito il signor Anselmo:
— Dica, dica, signorina! che è stato? che ha sentito?
Anche il Bernaldez la spinse a dire, premurosamente; e allora Pepita:
— Aquì, su un lado, una careccia…
— Con la mano? — domandò il Paleari. — Delicata, è vero? Fredda, furtiva e delicata… Oh, Max, se vuole, sa esser gentile con le donne! Vediamo un po’, Max, potresti rifar la carezza alla signorina?
— Aquì està! aquì está! — si mise a gridare subito Pepita ridendo.
— Che vuol dire? — domando il signor Anselmo.
— Rifà, rifà… m’acareccia!
— E un bacio, Max? — propose allora il Paleari.
— No! — strillò Pepita, di nuovo.
Ma un bel bacione sonoro le fu scoccato su la guancia.
Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca; poi, non contento, mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato fra noi.
Che seguì? ci volle un pezzo, prima ch’io, smarrito di confusione e di vergogna, potessi riavermi in quell’improvviso disordine. S’erano accorti di quel nostro bacio? Gridavano. Uno, due fiammiferi, accesi; poi anche la candela, quella stessa che stava entro il lanternino dal vetro rosso. E tutti in piedi! Perchè? Perchè? Un gran colpo, un colpo formidabile, come vibrato da un pugno di gigante invisibile, tonò sul tavolino, così, in piena luce. Allibimmo tutti e, più di ogni altro, Papiano e la signorina Caporale.
— Scipione! Scipione! — chiamò Terenzio.
L’epilettico era caduto per terra e rantolava stranamente.
— A sedere! — gridò il signor Anselmo. — È caduto in trance anche lui! Ecco, ecco, il tavolino si muove, si solleva, si solleva… La levitazione! Bravo, Max! Evviva!
E davvero il tavolino, senza che nessuno lo toccasse, si levò alto più d’un palmo dal suolo e poi ricadde pesantemente.
La Caporale, livida, tremante, atterrita, venne a nascondere la faccia sul mio petto. La signorina Pantogada e la governante scapparono via dalla camera, mentre il Paleari gridava irritatissimo:
— No, qua, perbacco! Non rompete la catena! Ora viene il meglio! Max! Max!
— Ma che Max! — esclamò Papiano, scrollandosi alla fine dal terrore che lo teneva inchiodato e accorrendo al fratello per scuoterlo e richiamarlo in sè.
Il ricordo del bacio fu per il momento soffocato in me dallo stupore per quella rivelazione veramente strana e inesplicabile, a cui avevo assistito. Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max: bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro. Chi dunque aveva agito? chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?
Tante cose lette nei libri del Paleari mi balzarono in tumulto alla mente; e, con un brivido, pensai a quello sconosciuto che s’era annegato nella gora del molino alla Stia, a cui io avevo tolto il compianto de’ suoi e degli estranei.
— Se fosse lui! — dissi tra me. — Se fosse venuto a trovarmi, qua, per vendicarsi, svelando ogni cosa…
Il Paleari intanto, che — solo — non aveva provato nè meraviglia nè sgomento, non riusciva ancora a capacitarsi come un fenomeno così semplice e comune, quale la levitazione del tavolino, ci avesse tanto impressionato, dopo quel po’ po’ di meraviglie a cui avevamo precedentemente assistito. Per lui contava ben poco che il fenomeno si fosse manifestato alla luce. Piuttosto non sapeva spiegarsi come mai Scipione si trovasse là, in camera mia, mentr’egli lo credeva a letto.
— Mi fa specie, — diceva — perchè di solito questo poveretto non si cura di nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa curiosità: sarà venuto a spiare, sarà entrato furtivamente, e allora… pàffete, acchiappato! Perchè è innegabile, sa, signor Meis, che i fenomeni straordinarii della medianità traggono in gran parte origine dalla nevrosi epilettica, catalettica e isterica. Max prende da tutti, sottrae anche a noi buona parte d’energia nervosa, e se ne vale per la produzione dei fenomeni. È accertato! Non si sente anche lei, difatti, come se le avessero sottratto qualche cosa?
— Ancora no, per dire la verità.
Quasi fino all’alba mi rivoltai sul letto, fantasticando di quell’infelice, sepolto nel cimitero di Miragno, sotto il mio nome. Chi era egli? Donde veniva? Perchè si era ucciso? Forse voleva che quella sua triste fine si sapesse: era stata forse riparazione, espiazione… e io me n’ero approfittato! Più d’una volta, nel bujo — lo confesso — gelai di paura. Quel pugno, lì, sul tavolino, in camera mia, non lo avevo udito io solo. Lo aveva scagliato lui? E non era egli ancor lì, nel silenzio, presente e invisibile, accanto a me? Stavo in orecchi, se m’avvenisse di cogliere qualche rumore nella camera. Poi m’addormentai e feci sogni paurosi.
Il giorno appresso aprii le finestre alla luce.
Mastrolorenzi non sottolinea il punto essenziale dell’approccio di Pirandello allo spiritismo, sarcastico e irridente alle modalità con cui vengono condotte le sedute medianiche, a differenza di quello credulone di Capuana che addirittura lo rimprovera per questo (cfr. Trascurare questo significa non giustificare il motivo per cui Queryonline se ne occupa e perdere l’occasione di evidenziare come contrastare le false credenze possa essere condotto sia con lo spirito critico e razionale del CICAP che con quello romanzato e scorrevole di Pirandello.
Gentile lettore, la ringrazio per aver letto l’articolo e per il suo intervento. Ma nel testo dell’articolo si specifica anche che quanto resta della seduta spiritica (e quindi quanto Pirandello intende comunicare) è il furto perpetrato ai danni del povero Mattia Pascal (in quel momento Adriano Meis), ovvero l’unica cosa concreta di quanto uscito dall’incontro medianico. Comunque, grazie per la precisazione. Buone cose.
Marco Cappadonia Mastrolorenzi
Egr. Sig. Mastrolorenzi, grazie per il suo cortese riscontro, ma mi è sembrato opportuno sottolineare che la posizione di Pirandello nei confronti dell’esoterismo è stata ben diversa da quella di Capuana. Come lei ha scritto “Pirandello si è interessato anche allo spiritismo e all’occultismo […] al di là del fatto se lo facesse a scopo antropologico-letterario […] o anche perché affascinato e magari incline a credere a possibili dimensioni paranormali”.
Ma è proprio questo il punto: mentre Capuana, come si può evincere da una anche rapida lettura di Mondo occulto di Simona Cigliana, faceva parte a pieno titolo della categoria dei “creduloni” (senza nulla togliere alla sua statura di letterato) Pirandello era su posizioni diametralmente opposte e la sua ironia beffarda nei confronti di chi crede al paranormale è lì a dimostrarlo!
Anche il fatto che lei nota, ossia che “Pirandello non sarà da meno nel tentativo di scrutare l’universo e i suoi misteri da utilizzare come materiale per la sua sterminata produzione letteraria” corretto nella forma, può non dare l’idea ad un lettore frettoloso del suo articolo che ciò in cui Pirandello era maestro consisteva proprio nel mettere alla berlina con siciliana finezza le credenze e superstizioni contadine.
Comunque, grazie per il riscontro e buone cose a lei.
Gentile lettore (o lettrice, non so), concordo pienamente con lei con quanto dice, anche se, visto che siamo in tema, bisogna aggiungere che Luigi Capuana sarà anche stato incline a credere al paranormale (chiamiamolo così), ma nel caso del colera, per esempio, scrive un sonetto nel 1894, dal titolo “Lu colera” (in dialetto siciliano) in cui fotografa la “credulità popolare” in merito alle idee complottiste che serpeggiavano in Sicilia (quando lui era sindaco di Mineo, sua città natale). Per il resto il mio articolo voleva comunicare proprio la finezza di Luigi Pirandello nello screditare le superstizioni e le credenze popolari, a differenza di Capuana (e siamo d’accordo). Tengo comunque a precisare (anche se non ce n’è bisogno) che la rubrica da me tenuta (“Antologia dell’inconsueto”) non vuole e non sarà mai militante o tesa a sbeffeggiare chi crede nel paranormale. Nessuno sbeffeggia nessuno. Attraverso la Letteratura o la Storia si cercheranno episodi o avvenimenti che possono riguardare eventi “inconsueti” e raccontarli come fenomeno sociale e culturale, naturalmente cercando di restare dentro l’ottica del CICAP. Un caro saluto e grazie per le sue osservazioni molto acute e per aver posto l’accento su un punto fondamentale. MCM