28 Aprile 2024
Giandujotto scettico

Treiso, 1903: l’ultimo stregone

Giandujotto scettico n° 53 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (19/12/2019)

Il Giandujotto scettico oggi vi porta a Treiso, nelle Langhe cuneesi: poco meno di ottocento anime, un campanile che svetta tra i tetti rossi, e filari e filari di viti che ricoprono completamente la collina. Meno famosa della vicina Barbaresco, di cui fu frazione sino al 1957, Treiso è nota al grande pubblico per lo più grazie a Beppe Fenoglio, che qui ha ambientato Una questione privata, storia di intrighi e amori sullo sfondo di una Resistenza del tutto priva di toni agiografici.

Tra questi paesaggi apparentemente tranquilli, il 2 febbraio 1903 si svolse un terribile delitto che spinse i giornali a rievocare gli spettri – secondo la retorica del tempo – del mai troppo vituperato Medioevo: un certo Carlo Bianco fu ucciso perché era un Mascon, uno “stregone”.

La vicenda fu seguita da vicino da La Sentinella delle Alpi, quotidiano cuneese, che ne parlò la prima volta il 7 febbraio. A quella testata va il merito di aver ricostruito il contesto e le superstizioni in mezzo alle quali maturò l’omicidio. Queste, in particolare, furono le circostanze:

Da circa un mese, in territorio di Barbaresco, regione Valgrande, prese a divulgarsi fra quella rurale popolazione la leggenda delle fate le quali manifestavano la loro presenza con urli e grida nelle ore notturne, accompagnate da apparizioni di lumi vaganti, per modo che alla sera nessuno osava più uscire all’aperto.

Il quadro è quello dei racconti popolari, delle masche (tradotte qui, per il pubblico della città, come “fate”, ma sotto il cui nome in realtà era inclusa una serie di manifestazioni più o meno “magiche” che andavano dalle streghe, ai fantasmi, ai fuochi fatui). Presenze che incutevano ancora timore all’epoca, risvegliati nelle tradizionali veglie intorno al fuoco e che potevano giustificare tutto quello che di anomalo capitava nella vita di campagna, dalla malattia della mucca alle grida degli animali notturni.

In questa situazione di timore diffuso e di “urli” sentiti fuori dalle cascine, la colpa fu data a Carlo Bianco, un “servo di campagna” cinquantaduenne: così venivano chiamati, all’epoca, i braccianti agricoli che non avevano proprietà e che si spostavano di cascina in cascina per prestare servizio a seconda delle necessità, molte volte in cambio soltanto di vitto e alloggio. Questo Bianco, però, non era un uomo qualsiasi: si diceva avesse la capacità di richiamare le masche con il suo trombone: stava preparandosi, a quanto pare, ad entrare in nuova banda musicale che si stava costituendo nella vicina Neive.

A questo punto, però, la vicenda raccontata da La Sentinella delle Alpi si faceva poco chiara. Secondo il giornale, una brigata di abitanti della Val Grande, ubriachi, stava tornando da Alba, presso la cui Pretura alcuni di loro erano stati assolti per mancanza di prove in un processo per porto abusivo d’armi e spari all’aperto. Sarebbero passanti davanti alla casa di Bianco, evidentemente a loro noto, “invitandolo a invocar le streghe”. E poi lo bastonarono: il cronista supponeva “o per essersi il medesimo rifiutato di eseguire gli ordini ricevuti, o per la mancata sua potenza nel chiamare gli spiriti stessi”. Alle 15, Bianco, senza pronunciare altre parole, spirava. Quello che stupiva il giornalista, però, era la reazione dei paesani: al posto di condannare l’omicidio, ne sembravano sollevati.

Il cronista non riusciva a capacitarsene:

L’atto di brutale malvagità che desta raccapriccio in tutti i ben pensanti, viene magnificato da’ quelle paurose popolazioni come la loro liberazione dagli spiriti infernali, e come meritato castigo del presunto stregone!

Ma la giustizia non condivideva le idee dei paesani: il giudice istruttore Pietro Ferrua condusse le prime indagini, ordinando l’arresto di quattro persone per quell’omicidio che ricordava “i fasti medioevali”.

Da quel 7 febbraio trascorsero alcuni mesi. La Sentinella delle Alpi tornò a parlare del fatto soltanto il 3 luglio, in occasione dell’apertura del processo (in un articolo intitolato, a indicare un certo sdegno, In pieno Medio Evo). Imputati erano tali Giovanni Abrigo e Giuseppe Vola, mentre un terzo, Giovanni Oberti, si era dato alla latitanza, e su di lui pendeva un mandato di cattura. Non si hanno notizie del quarto uomo inizialmente indicato dal quotidiano come ulteriore parte in causa.

In sede processuale la vicenda fu ricostruita con maggiori dettagli. Il 2 febbraio 1903 la famiglia Grasso festeggiava l’assoluzione di uno dei suoi membri, Luigi Grasso, accusato di minacce a mano armata. Il Pretore di Alba lo aveva rimesso in libertà, e l’occasione era stata motivo di gioia. La famiglia aveva invitato nella sua casa in Val Grande un buon numero di contadini, amici e testimoni, per bere e festeggiare. Quando già la compagnia si stava per sciogliere, si sentirono grida lamentose dall’esterno della casa: “Carlo… Carlo…”. Per gli abitanti della zona erano le masche.

Non era la prima volta: succedeva da almeno una ventina di giorni. Raccontava il giornale:

Alle menti ignoranti e superstiziose di quella gente, tali voci suonavano come segno indubbio della presenza in quelle contrade di esseri diabolici; grande perciò era lo spavento di tutti, delle donne e dei fanciulli in specie.

Quelle grida, dicevamo, si sentivano da settimane, da quando era arrivato in paese Carlo Bianco, che in realtà era originario di Montegrosso d’Asti. Il giornale lo definiva “mediatore e suonatore ambulante, senza fissa dimora”; aveva chiesto ospitalità nella cascina dei Grasso, che gli avevano permesso di dormire nella stalla. È probabile che ripagasse l’ospitalità con la musica e piccoli lavoretti, magari come bracciante. Con il passare dei giorni e con il ripetersi delle voci, gli abitanti si erano fatti sempre più inquieti:

da prima una paurosa avversione e quindi l’odio, ritenendolo animato da spirito maligno e causa perciò di strani fenomeni diabolici che venivano avvertiti.

Il tono del giornale era quasi paternalistico, rassegnato: “era naturale, in un ambiente di contadini”.

Si giunse quindi al 2 febbraio, il giorno del delitto: qualcuno nella cascina “credette […] di sentire” le solite spaventose voci. Si andò a cercare il Bianco, che in quel momento si trovava nella stalla, dove stava conversando con i contadini Giuseppe Ferrero e Giuseppe Doglio. A quanto punto, secondo il cronista, l’uomo avrebbe commesso un tremendo errore, forse “animato da sciocca audacia”: al posto di protestare la sua estraneità ai fatti, aveva spavaldamente ribadito “la sua potenza di fronte alle masche (spiriti o streghe)”.

Ad interrogarlo sulle sue presunte capacità fu Giovanni Oberti, ma è assai probabile che l’uomo avesse già in mente la risposta, e che la conferma o la smentita di Bianco sarebbero state ininfluenti. Pare infatti che prima di cercarlo Oberti avesse detto ad altri due, Giovanni Abrigo e Giuseppe Vola:

Stassera battiamo le masche, se finora nessuno le percosse, le battiamo noi.

Contadini bellicosi, forse già ubriachi per la festa. La scena fu così ricostruita da La Sentinella delle Alpi:

Nella sua ignoranza non parve fosse vero al Bianco in quel momento, di poter dar prova della sua misteriosa potenza; uscito all’aperto, ad una lamentevole voce, che molti dei testimoni asseriscono d’aver udito e ritennero proveniente da una delle colline di levante di quella regione, dicente: All’armi Carlo, cà del Diavolo, rispose con le parole: Tellinoun (?), vieni qui che aggiustiamo i conti.

Tutti trasalirono. Gli chiesero se conosceva quella voce. E lui, “obbedendo all’impulso della sua malata fantasia”:

Non solo la conosco, ma sono capace di farla gridare o non, secondo che voglio.

Furono le ultime parole di Bianco. Si sentì un Ah sì pronunciato dall’intero gruppo. Oberti, Abrigo e Vola si lanciarono contro l’uomo, prendendolo a bastonate. Bianco stramazzò al suolo. I tre aggressori si allontanarono e il ferito venne soccorso, ma ormai non c’era più nulla da fare. La scena doveva essere avvenuta in pochi, concitati, istanti: quando dalla cascina si sentirono i colpi e accorse la gente per cercare di capire cosa fosse successo, tutto era già terminato. Bianco giaceva al suolo. Fu trasportato nella stalla, morì poche ore dopo.

Questi gli esiti dell’autopsia:

Sul suo corpo furono riscontrate varie ferite, prodotte da arma contundente, delle quali mortale quella alla regione parietale sinistra; ferita che, a dire dei periti medici, produsse la frattura delle ossa dello stesso lato, per contraccolpo la frattura delle ossa occipitale e temporale del lato opposto (destro).

Gli avevano spaccato la testa a bastonate. Lo stregone era morto. Le masche non sarebbero più ricomparse.

Iniziò quindi il processo a Abrigo e Vola, rinviati a giudizio della Corte d’Assise di Cuneo, ma non durò che un giorno. “In seguito ad un abile servizio, disposto dai carabinieri”, scriveva il 3 luglio 1903 La Sentinella delle Alpi, anche Oberto era stato arrestato. Il dibattimento venne quindi rinviato a data da determinarsi, “pel completamento della relativa istruttoria”.

La “data da destinarsi” fu poi determinata nel 19 novembre dello stesso anno. La Sentinella delle Alpi mandò un cronista ad assistere. Il giorno seguente il giornalista fornì una cronaca dettagliatissima.

Una trentina i testimoni coinvolti. Oberti, “con animo tranquillo”, confessò di aver dato una bastonata allo stregone: Carlo Bianco era detto Mascon, dalla sua virtù di “far cantare le masche”. Si era vantato della sua potenza non solo di conoscere, ma anche di farle gridare o tacere a piacimento. Pare avesse cominciato a salmodiare:

Anime del diau, anime del diau vieni an mia compagnia, anime del diau!
[Anime del diavolo, anime del diavolo venite in mia compagnia, anime del diavolo!]

Qualcuno tra i presenti aveva risposto Ah sì!, e si era alzato un viraburich (“bastona-somari”, si intende un grosso randello). Bianco era caduto sulla paglia ed era morto per la rottura dell’osso parietale sinistro, trovato dai medici più sottile del solito.

Paolo Abrigo, al contrario di Oberti, negò di aver dato i colpi: anzi, negò proprio di essere stato presente alla scena. Disse che si trovava con altri giovanotti a una sessantina di metri, e che non aveva tenuto in mano nessun bastone. La stessa linea di difesa venne tenuta da Giuseppe Vola: al momento del delitto, spiegò, lui si era recato in cantina a chiamare “due della casa che ragionavano” (sul fatto che ragionassero in cantina, il cronista commentava maliziosamente: “Dobbiamo ricordarci che siamo a Barbaresco”).

Al processo testimoniò anche Rosa Bianco, figlia della vittima: raccontò che il padre faceva il mediatore, l’agente ambulante, il bracciante e il “padron delle masche”; andava anche in giro per le cascine dove si “stava allegri”, per far ballare la gente al suono del trombone.

Dopo la figlia, altri testimoni intervennero per spiegare il clima in cui era maturato il delitto. Molti avevano sentito “le voci”, e raccontavano che il paese era tutto un sussurr d’ paura.

Ma lasciamo di nuovo la parola al cronista de La Sentinella:

Vengono altri testimoni di varia oratoria: alcuni facili di parola, ricchi di gesti e di mimica; altri tranquilli e per nulla loquaci, seduti là sulla sedia come su una pietra a godere il sole. Dicono che voci strane, maipi viste! [mai più viste, N.d.A.] si udivano di qua, di là, da terra, dal cielo; altri confessano di aver provato timore e paura; altri, spavaldi… all’udienza, attestano lo spavento degli altri.

Un testimonio confessa, guardando paurosamente innanzi a sè e mettendosi una mano sul costato, di aver preso un… spaventevol malan per dire una malattia di spavento. Scusate se è poco! Cottino Giovanni dice che persino i bambini avevano paura di uscire e non… andavano più a scuola. Offen Giuseppe, un tedesco trapiantato a Barbaresco, pare, descrive con vivezza le voci misteriose, profonde, cupe, lunghe come ululati chiamanti lamentosamente, Carlo; e allungando il collo rifà queste voci: – Carlo… Carlo… anima del diau? Na meravia! conchiude e guarda stupito che tutt’intorno si ride.

Un’altra testimone fu Teresa Roga, descritta dal quotidiano come “una vecchietta segaligna e allegra”. Raccontò “molte cose stupefacenti” sul Mascon (avvisando, però, che a queste storie non credeva). Per lei il Bianco si vantava “buono a tutto e invece non faceva mai niente”; non riusciva più a toglierselo dai piedi. E anche con lei si era vantato della sua “dimestichezza con gli spiriti”: raccontava, ad esempio, che con una farfalla bianca che teneva in tasca (e che fu poi effettivamente rinvenuta dai carabinieri) avrebbe potuto diventar ricco a milioni.

Commentava la donna:

Bonom, le lire i conossia gnanca d’ vista… le lire!
[Poveraccio, le lire non le conosceva neanche di vista]

Al processo intervennero anche i cittadini più in vista di Treiso-Barbaresco; persone che, data la loro cultura, avrebbero dovuto fermamente condannare il delitto. E invece non lo fecero. L’”egregio dottor cav. Dogliotti di Alba” (il medico Luigi Dogliotti, morto nel 1914, consigliere comunale di Barbaresco e sindaco di Alba), raccontò che i maggiorenti locali erano felici per l’epilogo della storia e che guardavano con soddisfazione alla “lezione che oltrepassò poi disgraziatamente i limiti, che fu data al Mascon”. Infatti non solo a Barbaresco, ma pure a Neive, a Neviglie e nelle borgate vicine si parlava con paura del Mascon. Secondo La Sentinella della Alpi tutto il circondario vedeva di buon occhio la sua morte:

E perciò non deve stupire che tra tutta quella gente, superstiziosa e portata per ignoranza a ingrandire cose d’origine ignota e impressionata vivamente dalla realtà dei fatti misteriosi, sorgessero tre, quattro, dieci validi garzoni col proposito di bastonar le masche.

L’esito del processo è, ai nostri occhi di persone del 2020, piuttosto sorprendente. Così lo riassunse, senza aggiungere troppe spiegazioni, il Corriere della sera del 22 novembre 1903:

L’Oberti, l’Abrigo e il Vola nel loro interrogatorio furono negativi, ed i giurati conclusero col mandarli assolti tutti e tre.

Qualche parola in più fu detta da La Sentinella delle Alpi il 19 novembre:

Portato così il fatto nel suo vero ambiente e nella luce giusta, la assolutoria, che venne completa per i tre imputati, fu vera opera di giustizia.

Gli imputati, insomma, vennero ritenuti non colpevoli perché il delitto era maturato in un ambiente di forte credenza nel soprannaturale. Come visto, Bianco era considerato da tutti un Mascon che spaventava la gente e che asseriva di richiamare esseri diabolici. Era quindi comprensibile e quasi naturale che qualcuno gli desse una lezione. Che sì, aveva superato i limiti, ma che tutto sommato “ci stava”.

Non saremo noi a discutere il verdetto. Ci spiace però che la cronaca non ci abbia lasciato qualche parola in più sulla vittima, su chi fosse davvero e in cosa credesse. La caccia alle streghe nell’Europa dei secoli XVI-XVII fu una grande guerra al diverso, a uomini e donne relegati ai margini della società: poveri, mendicanti, prostitute; a gente che si arrangiava, in un modo o nell’altro, proprio come il nostro suonatore-servo di campagna giunto nella Bassa Cuneese – addirittura – dall’Astigiano. Contro di lui si erano levati i pregiudizi e le manie persecutorie di un paese intero, dai contadini che perpetrarono materialmente il delitto ai maggiorenti che tacitamente approvarono – forse per confermare il proprio prestigio sociale, a scapito della morte di un uomo.

Una caccia alle streghe del 1903, in piena belle époque, al clou del positivismo e del mito del progresso. Un linciaggio per superstizione, all’alba del Ventesimo secolo.

Foto di Mario da Pixabay