28 Aprile 2024
Giandujotto scettico

Metà scimmia, metà pipistrello: una beffa nella Torino dell’Ottocento

Giandujotto scettico n° 37 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (09/05/2019)

Non sapevate, vero, che nell’Ottocento, mentre si scavava un tunnel mai terminato fra Val d’Aosta e Vallese svizzero, fu rinvenuto lo scheletro di un animale mostruoso, forse lascito del diluvio universale? Beh, oggi possiamo raccontarvelo grazie a un giornale torinese dell’epoca!

Si trattava de L’Espero, un quotidiano che non ebbe lunga vita, ma che in Piemonte ebbe una certa influenza negli anni ’50 del XIX secolo, quelli cruciali del Risorgimento. Uscì dal gennaio 1853 alla fine del 1861. Siccome era una testata pomeridiana, recava il sottotitolo “Corriere della sera”. Dopo il 1861, diversi direttori cercheranno di farlo resuscitare sotto vari nomi, ma durerà pochi anni ancora.

I fondatori della testata erano personalità illustri: il giornalista cuneese Vittorio Bersezio (1828-1900) e il torinese Giuseppe Augusto Cesana (1821-1903). Poco tempo dopo l’inizio delle pubblicazioni, però, i due passarono a un settimanale di assai maggior successo, Il Fischietto, lasciando L’Espero nelle mani di Paolo Emilio Nicòli. Costui era un esule dalla Lombardia (all’epoca ancora sotto il dominio austriaco) e prima, a Parigi, aveva lavorato a un altro giornale patriottico importante, L’Ausonio e, a Torino, all’Opinione. Nicòli resse L’Espero sino alla fine del 1861.

Fu sotto la sua direzione che il quotidiano cadde a piè pari in uno scherzo che, a quanto sembra, fece ridere l’intera Torino. Purtroppo non disponiamo della fonte primaria, cioè l’articolo con il quale L’Espero dimostrò di credere alle invenzioni che gli erano state propinate, e nemmeno abbiamo le probabili reazioni irate, quando le sghignazzate dei concittadini diventarono troppo forti.

Conosciamo però la storia per come ci fu raccontata anni dopo, grazie a un lungo articolo sul giornalismo torinese di Dario Carraroli (1849 – m. dopo il 1934), che fu professore liceale di lettere e collaboratore di varie riviste. Fra queste, c’era la prestigiosa Nuova Antologia, allora al massimo della sua diffusione.

Nel numero del 16 settembre 1912 di quella rassegna, alle pagine 255-264 apparve il lavoro di Carraroli che contiene la storia del mostro antidiluviano, cioè “Il giornalismo a Torino intorno al 1860-61”. Raccontava un sacco di aneddoti, alcuni dei quali su equivoci e trappole in cui erano caduti i giornali sabaudi dell’epoca.

Secondo Carraroli, Nicòli, il direttore dell’Espero, era detto Giugurta – come il re della Nubia sconfitto dai romani nel II secolo – sia per il carattere irascibile, sia per il mento pronunciato, in omaggio alla tradizione e iconografia del condottiero. Sarebbero state proprio le asperità caratteriali di Nicòli, afferma Carraroli, a convincere diversi colleghi a migrare verso Il Fischietto.

Una sera non meglio precisata, L’Espero uscì con una notizia da Aosta. Giungeva dal cantiere di scavo di un traforo cui si stava lavorando con fatica, quello che negli intenti del governo sabaudo avrebbe dovuto collegare la Valle d’Aosta alla Svizzera – in particolare al cantone del Vallese – attraverso il colle del Menouve, che oggi si trova esattamente sul confine fra Italia e Confederazione Elvetica. I lavori, iniziati nel 1856 ma troppo costosi e complessi, si protrassero penosamente per nove mesi. Accompagnato da polemiche e da recriminazioni, il piano si arenò e finì nel nulla.

Che cos’era successo al colle del Menouve? Secondo L’Espero i minatori addetti allo scavo avevano rinvenuto lo scheletro di

un animale antidiluviano, metà scimmia e metà pipistrello, che aveva la fronte depressa, segno di tarda intelligenza, i denti lunghi e il mento molto sviluppato.

Non si sa come avrebbero fatto a capirlo, visto che era uno scheletro, ma l’animalaccio “usciva sull’imbrunire”.

La realtà della notizia era stata confermata dal “professor Schiaparelli”, che aveva esaminato le ossa e lo aveva classificato come appartenente ai “Pelonici”. Carraroli fa notare la grossolanità della burla: “Pelonici” era l’anagramma di P. E. Nicòli, il direttore dell’Espero, che aveva ricevuto la notizia-bomba e che a quanto pare l’aveva stampata senza notare nulla di strano…

Secondo Carraroli, quella stessa sera, a teatro, Giuseppe Cesana, l’ex-collega di Nicòli all’Espero, incontrò il direttore del giornale e, essendo forse a conoscenza della trappola tesagli, gli fece capire con educazione come stavano le cose. La verità sullo scoop si sparse in città suscitando l’ilarità dei lettori e l’ira di Nicòli, tanto più che il professor Schiaparelli tirato in ballo nell’articolo aveva inviato lettere di smentita a parecchi quotidiani torinesi: lui al colle del Menouve non c’era stato, e quindi non poteva aver accreditato in nessun modo quella storia.

Circa l’identità esatta del professor Schiaparelli, scartato l’astronomo nativo di Savigliano, ancora poco noto, pensiamo che chi ideò la truffa volesse riferirsi a Luigi Schiaparelli (1815-1897), che dal 1846 insegnava a Torno Storia antica e archeologia e che interveniva spesso su quotidiani e periodici.

Senza conoscere il momento esatto della storia, purtroppo, ci è difficile recuperare gli articoli dell’Espero. Carraroli li riferisce agli scavi per il traforo del Menouve, che risalgono al 1856-57, ma il suo scritto è invece un quadro del giornalismo torinese “intorno al 1860-61”…

Una storia minima, divertente e niente di più, almeno in apparenza. Può diventare significativa se la collochiamo in un quadro più ampio.

Alla metà dell’Ottocento il giornalismo stava assumendo i caratteri del consumo di massa. Da noi, visto il ritardo dell’unità nazionale, il processo fu più lento, ma alla fine anche in Italia sorsero settimanali e fiorirono pagine di cronaca sempre più interessate alla “vita che si vive”, come si chiamava una colonna che pubblicava la Gazzetta Piemontese (poi La Stampa).

I fantasmi la facevano da padrona, ma c’era di tutto. Il fenomeno culminerà nello Yellow journalism americano degli anni ’90 del XIX secolo, ma intanto il gusto per l’occulto e il mistero era dilagato, a partire dall’epopea dei serpenti di mare (espressione che, in Italia – secondo ricerche che stiamo facendo – fu, a cominciare da un po’ prima del 1890, il termine atto ad indicare le bufale della stampa, quelle che oggi vengono chiamate fake news).

Uno degli argomenti su cui si concentrò la stampa popolare in quei decenni fu il rinvenimento di meteoriti contenenti fossili di provenienza extraterrestre, di giganti o addirittura di veri e propri scheletri e corpi attribuiti ad abitanti di altri pianeti.

Diverse sono le storie sulle “rocce dal cielo” che ci arrivano da quegli anni: nel luglio 1882, ad esempio, una serie di articoli raccontò l’impatto di un enorme bolide nei giardini vaticani, con papa Leone XIII che si affacciava alla finestra per vedere che cosa era successo. Nel novembre 1884 ci fu la finta caduta di un meteorite di quasi tre metri di diametro a Sorisole, nel Bergamasco; nel 1885 lo scherzo su un aerolito abbattutosi a Napoli, forse giocato per burlarsi di alcuni studiosi… Voci simili in quegli anni ricorsero più volte anche in Piemonte. I “giganti”, invece, potevano assumere le spoglie di quelli “antidiluviani” scoperti nel 1860 a Giessen, in Germania. I “fossili extraterrestri”, per parte loro, sono ben esemplificati dalla bufala di Orgueil, in Francia, che dal 1864 generò una controversia protrattasi a lungo anche in ambito scientifico.

Ci furono poi veri e propri marziani arrivati sulla Terra dentro meteoriti. Scherzi e dicerie si rincorsero, ad esempio, in Francia, con un lunghissimo articolo del quotidiano parigino Le Pays del 17 giugno 1864: negli Stati Uniti era stata trovata una roccia con dentro un marziano mummificato, accompagnato da un vaso con iscrizioni geroglifiche. In Argentina, il 13 ottobre 1877 La Capital di Rosario annunciò che un marziano con i suoi manufatti era stato scoperto scavando presso le sponde del fiume Carcarañá e che tutto era stato messo in mostra in una taverna della zona.

L’anno dopo (1878), a un quotidiano in inglese pubblicato a Callao, in Perù (The South Pacific Times), giunse la lettera di un preteso chimico che diceva di aver trovato, scavando in una miniera, un meteorite al cui interno c’erano il corpo di un essere alto 135 cm e un disco d’argento con incisioni in una lingua misteriosa. Decifrate, le scritte spiegavano che il meteorite era una nave marziana…

Quest’ultima versione del “marziano del meteorite” è soltanto una del gruppo sudamericano del 1877-1879. Se ne trovano altre simili su El Defensor de la Constitución di Zacatecas (Messico) del 20 luglio 1878 (di nuovo collocata sul Carcarañá) e su El Constitucional (Mendoza, Argentina) del 16 gennaio 1879, ambientata più genericamente in America Centrale.

La storia torinese dei primi anni ’60 dell’Ottocento, quella dei resti dell’animale antidiluviano, per certi versi va letta insieme a questi racconti. In Italia ce ne saranno di sicuro molti altri sepolti nelle pagine dei periodici del tempo.

Ma il nostro scheletro nato per prendere in giro un giornalista, a ben vedere si basa sul concetto di ircocervo, cioè di ibrido impossibile, come sarebbe stato – appunto – quello fra una scimmia e un pipistrello.

Dell’ircocervo si sono date interpretazioni diversissime. Si sono cimentati su quel concetto filosofi del calibro di Platone, Aristotele, Boezio…

Noi vi suggeriamo quello che dell’ircocervo pensava Guglielmo di Ockham, che nel Trecento si era un po’ scocciato di quanto Aristotele aveva scritto sulla questione. Il filosofo greco lo aveva usato in una sua opera (Sull’interpretazione) per discettare su una delle sue idee ricorrenti, quella dell’essenza, ovvero quella cosa che dovrebbe essere così “vera” che più vera non si può.

Nel suo trattato Expositio in librum Perihermenias Aristotelis, il nostro Guglielmo risponde: lasciate perdere l’astratto, come è il pensiero dell’ircocervo, e cercate invece di spiegare la realtà in maniera semplice, immediata, rinunciando a ciò che appesantisce il vostro ragionamento.

Anche per questo, a noi lo scheletro della scimmia-pipistrello non può che stare assai simpatico.

Foto di Nils Bouillard da Unsplash