2 Novembre 2024
ApprofondimentiIl terzo occhio

Di traffici di esseri umani e di presunti traffici d’organi

Articolo di Roberto Labanti e Sofia Lincos

Mattina di lunedì 4 luglio: sui principali siti di informazione italiani è pubblicata la notizia di un’operazione, Glauco 3, del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, insieme alle Squadre mobili delle Questure di Palermo e di altre località italiane, disposta dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Palermo, che aveva emesso trentotto provvedimenti di fermo, per la maggior parte diretti verso cittadini eritrei ed etiopi residenti nel capoluogo siciliano. I magistrati ritengono che si tratti della la “cellula” palermitana di un network illegale implicato nella gestione dell’immigrazione irregolare su cui stanno indagando ormai da due anni (e che aveva portato alle precedenti operazioni Glauco e Glauco 2).

Con i fermi annunciati quel lunedì, l’autorità giudiziaria propone una ricostruzione drammatica di quanto avviene ai migranti una volta giunti in Italia: fatti sfuggire dai centri di accoglienza, verrebbero “presi in carico” dai referenti locali del network che, dopo il pagamento dell’ultima tranche della somma prevista per il viaggio, si occuperebbero del loro trasferimento verso il luogo di destinazione. I reati contestati nei provvedimenti alla base di Glauco 3 sono diversi e variano da fermato a fermato; Marco Vaccarella (sul Giornale di Sicilia del giorno successivo) ne fa un elenco generale:

associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria, associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti. Reati aggravati tutti dal carattere transnazionale del sodalizio criminale

Una lista in cui però non si rintraccerà l’aspetto che ha più attirato l’attenzione, prima dei media online (dopo un lancio ANSA delle 10:38), poi, il giorno seguente, di diversi quotidiani cartacei: in edicola, il 5 luglio, si potevano trovare dei titoli di questo tenore: “«Chi non ha i soldi per il viaggio ucciso per prenderne gli organi»” (La Sicilia); “«A chi non paga tolgono gli organi»” (Corriere della Sera), o anche, su un altro quotidiano milanese “Scafisti-macellai: venduto a pezzi chi non paga”.

Che cosa si può davvero dire su quanto è trapelato dall’inchiesta su questo specifico aspetto? E’ necessario prima di tutto chiarire che per l’operazione appena svolta sono state determinanti le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, il poco più che trentenne cittadino eritreo Nuredin (o Noureddin) Atta Wehabrebi, arrestato nel 2014. Secondo quanto riporta Alessandra Ziniti sull’edizione palermitana de La Repubblica di martedì scorso, agli atti dell’inchiesta ci sarebbero affermazioni dell’eritreo di questo tenore:

Talvolta i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio che hanno effettuato via terra, né a chi rivolgersi per pagare il viaggio in mare e allora mi è stato raccontato che queste persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani per una somma di circa 15 mila dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare gli organi e trasportarli in borse termiche.

Lo stesso giorno, sul Corriere della Sera l’inviato Giovanni Bianconi, fornisce una diversa  versione del passaggio che abbiamo appena riportato, con uno specifico riferimento all’uccisione dei migranti (già in realtà presente nel lancio ANSA):

Talvolta i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio effettuato via terra né a chi rivolgersi per pagare il viaggio in mare, e allora queste persone vengono consegnate a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare, questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche

Bianconi aggiunge un’ulteriore particolare che è in linea con il “mi è stato raccontato” della versione dell’ANSA e di Repubblica:

[…] su questo punto particolare si tratta di confidenze ricevute da altri, che lui non ha verificato personalmente: «Me lo hanno detto Ermias e Abdurazak [che il giornalista specifica essere i capi dell’organizzazione per cui ha lavorato in Libia fino all’arresto del 2014, il primo dei quali latitante mentre il secondo mai identificato], nonché alcuni migranti sopravvissuti»

Infine, è il Giornale di Sicilia ad informare i lettori di un altro brandello di informazioni: tra le vittime ci sarebbero stati “anche gli uomini e le donne, oltre bambini, non più in grado di proseguire la migrazione attraverso il Canale di Sicilia perché ormai troppo deboli, sfiancati dai viaggi nel deserto”.

Abbiamo già visto che non sono state contestate fattispecie di reato compatibili con quanto descritto. Su questa questione, in realtà, è lo stesso Procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Lo Voi, a suggerire cautela: secondo Ziniti quest’ultimo avrebbe infatti sottolineato che “queste indicazioni allo stato non possono essere confermate da nessun dato concreto”. Riccardo Arena, su La Stampa, aggiunge che il procuratore “non si sbilancia, spiegando che sono in corso verifiche quanto mai proibitive, visto che i reati sarebbero stati commessi in un Paese in guerra come la Libia.”

La Libia, appunto. Pare essere sfuggito a coloro che nei giorni scorsi si sono occupati di queste dichiarazioni che non è la prima volta che in atti giudiziari italiani si menziona lo stato nordafricano in relazione ad un traffico d’organi che coinvolgerebbe migranti. Il 18 settembre del 2014, sull’edizione di Roma del Corriere della Sera, Ilaria Sacchettoni raccontava di un’altra inchiesta, questa volta romana, nei confronti di un diverso gruppo di eritrei che sarebbe stato implicato nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In quell’occasione gli atti giudiziari citati dal quotidiano suggerivano che i migranti potevano essere utilizzati “come donatori d’organi a seconda di come intendano saldare il debito con l’organizzazione”: non quindi omicidi, ma, pare di capire, espianti “forzati” di organi pari come i reni per pagare il viaggio da Tripoli: non si capisce se in Libia oppure in Italia, come pare suggerire il Daily Mail tre settimane dopo, basandosi peraltro su quanto pubblicato dal Corriere.

Per cercare di capire qualcosa di più, spostiamoci in Egitto dove la penisola del Sinai è un diverso punto di passaggio dei migranti verso l’Europa. Negli ultimi anni, diverse organizzazioni non governative hanno documentato le tragedie cui vanno incontro questi mentre sono in attesa di poter proseguire il viaggio della speranza. Il rapporto di Van Reisen et al. “Human Trafficking in the Sinai: Refugees between Life and Death” (Tilburg University/EEPA, 2012) riporta testimonianze drammatiche:

Di fronte a noi, usando coltelli. Usano coltelli per rimuovere i loro reni e ucciderli in questo modo. Siamo costantemente minacciati, ci viene detto che se non presentiamo i soldi richiesti in tre giorni, verremo uccisi e i nostri reni venduti

Un altro migrante:

Ci dicono che prenderanno i nostri reni e li venderanno. Ci dicono che se non consegneremo i soldi richiesti per almeno 26 persone, ci porteranno da un dottore che sa come rimuovere i reni. Poi venderanno i pezzi dei nostri corpi

E ancora:

Noi abbiamo bisogno di soldi come voi della vita e se voi morite, nessun problema, vendiamo il vostro rene. […]. Ci spaventavano parlando in questo modo

Quella che segue, invece, pubbicata dall’organizzazione Physicians for Human Rights–Israel in “I am alive, but dead inside” (2016), è la testimonianza di una giovane donna torturata più volte di fronte alla figlia:

Hanno minacciato di uccidermi […] e hanno minacciato di prendere i miei organi – facevano questo spesso con me e con l’intero gruppo

Commentando su Facebook le notizie palermitane, Salvo di Grazia le ha giudicate non plausibili dal punto di vista medico con parole che crediamo si possano applicare anche a queste testimonianze:

[…] Per espiantare e trapiantare organi, il “donatore” (in questo caso involontario) non può essere ucciso, gli organi possono essere espiantati solo con corpo ancora in vita (tranne le cornee). Quindi già così la notizia è una falsità. Ma immaginiamo si potesse verificare una cosa del genere. Ovviamente dovrebbe esserci una sala operatoria (con chirurghi esperti) adatta all’uso, organi espiantati, trasportati velocemente con adeguati strumenti, poi trapiantati in altra sala operatoria su persone già pronte e questo puoi farlo in ospedali o cliniche attrezzate, non certo in una baracca. […]

Analoghe considerazioni sono proposte dal Direttore generale del Centro Nazionale Trapianti Alessandro Nanni Costa in una dichiarazione raccolta da AdnKronos Salute e da Giuseppe Quintaliani della Società Italiana di Nefrologia in un’intervista apparsa su Galileo.  Anche volendo ipotizzare situazioni meno estreme rispetto a quelle di cui darebbe notizia Atta, simili cioè a quanto invece suggeriva l’inchiesta romana del 2014, è bene ricordare che quello libico era un paese sull’orlo di una guerra civile (ancora oggi in corso) e che proprio nel settembre 2014 fu costretto a chiudere il proprio programma di trapianti di organi per mancanza di forniture mediche e per la riassegnazione del personale ad altri più urgenti compiti. Risulta particolarmente inverosimile che organizzazioni criminali siano riuscite a mettere in piedi strutture alternative per allestire trapianti d’organi, incluse le complesse cure richieste dalle persone trapiantate che, anche in Italia, solo alcune strutture d’eccellenza sono in grado di fornire. Anche dal punto di vista di un freddo calcolo costi/benefici, non avrebbe senso mantenere strutture illegali così complesse in funzione di un numero forzatamente piccolo di ricchi destinatari dei trapianti, rispetto al grande numero di esseri umani che passano nelle mani dei trafficanti di uomini, su ognuno dei quali è purtroppo possibile lucrare.

Sembra più ragionevole piuttosto pensare che fra le minacce che accompagnavano maltrattamenti e torture – per instillare la paura nelle vittime e per costringerle a trovare i soldi che ne permettessero la liberazione – ci fosse quella di espiantare gli organi. Secondo alcune testimonianze relative al Sinai, le torture potrebbero essere giunte in alcuni casi all’uccisione di migranti con orribili “messe in scena” di prelievi di organi. Il complesso leggendario dei “corpi violati”, come titola il relativo capitolo Paolo Toselli, pioniere negli anni ‘90 insieme a Cesare Bermani nello studio italiano di questo tipo di leggende (mentre l’opera di riferimento internazionale è “La légende des vols d’organes” pubblicato nel 1997 da Véronique Campion-Vincent), nel suo “Storie di ordinaria falsità” (Rizzoli, 2004), è infatti assai diffuso anche in paesi non occidentali, con misteriose organizzazioni clandestine, solitamente di stranieri (come gli “egiziani” che abbiamo incontrato nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia), che organizzerebbero “furti d’organo” a danno delle persone economicamente o socialmente svantaggiate. Un complesso narrativo probabilmente già noto ai migranti e che quindi può essere terribilmente sfruttato come efficace minaccia da coloro che gestiscono i gateway e il trasporto per ottenere il pagamento delle somme estorte.

Tornando all’inchiesta palermitana (che, ricordiamolo, riguarda una serie di reati non relativi al traffico d’organi) e al caso libico, c’è da chiedersi allora se la testimonianza indiretta (“me lo hanno detto”, “mi è stato raccontato” scrivono i giornali) del “pentito”, più che a implausibili eventi reali, non si riferisca piuttosto ad un tragico “sistema di controllo” utilizzato a danno dei migranti, una delle tante forme agghiaccianti di abuso di cui rimangono vittima mentre sono alla ricerca di un vita migliore. Il fatto che l’inchiesta romana del 2014 sia di poco successiva all’arresto di Atta può suggerire che anche quest’ultima faccia riferimento allo stesso nucleo narrativo, declinato diversamente.

E, allora, il concentrarsi sull’uomo nero del traffico d’organi (che la stessa Procura non ha ritenuto allo stato confermato da dati concreti) come hanno fatto almeno certi titoli, distrae forse da tutto quello che queste persone sono costrette tragicamente a subire. E di cui dovremmo invece essere consapevoli.

Gli autori desiderano ringraziare per la collaborazione: Claudio Casonato, Salvo Di Grazia, Andrea Ferrero e Ermenegildo Personé

Immagine: Principali rotte di migranti nel Mediterraneo e persone che vi hanno perso la vita, di Giorgia.vo, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0.

2 pensieri riguardo “Di traffici di esseri umani e di presunti traffici d’organi

  • Articolo interessantissimo. Mi sono occupato di questi aspetti nel mio libro 101 falsi miti sulla criminalità, Stampa Alternativa. Vorrei ricordare qui le parole della studiosa Schepes-Hughes:

    “l’attuale generazione di dicerie [sul traffico di organi] è nata e si è diffusa negli anni ’80 nell’ambito di specifici contesti politici, seguendo la storia recente di regimi militari, stati di polizia, guerre civili e «guerre sporche», in cui rapimenti, scomparse, mutilazioni
    e morti in prigione e in strane circostanze erano all’ordine del giorno. […]
    In Argentina, Brasile, Guatemala queste dicerie sono […] apparse quando la
    gente comune si è resa conto della gravità delle atrocità praticate dallo Stato e
    dai suoi ufficiali medici e militari. Poiché i poveri delle baraccopoli raramente
    vengono chiamati a parlare di fronte alle commissioni d’inchiesta, le voci di furti
    d’organi possono essere viste come una forma surrogata di testimonianza politica.
    Le voci di furti d’organi e corpi negli anni ’80 e ’90 […] parlavano dell’insicurezza ontologica della povera gente a cui poteva esser fatto quasi di tutto, e riflettevano le minacce quotidiane alla sicurezza individuale, la violenza urbana, il terrore di polizia, l’anarchia sociale, il furto, la perdita e la frammentazione”.

    Penso che contestualizzare queste dicerie sia la chiave di volta per comprenderne la genesi.

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  • Grazie davvero per il commento. Sarebbe in effetti certamente interessante applicare le riflessioni dell’antropologa statunitense Nancy Scheper-Hughes, che erano relative all’America Latina (dove ha svolto ricerca sul campo), anche al contesto africano. E ovviamente d’accordo sulla necessità di contestualizzare.

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