La misteriosa “pietra di Gudiris” di Savigliano
Giandujotto scettico n° 168 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Una pietra ritrovata in maniera casuale, su cui fioriscono fin da subito le più strane leggende; una pietra insolita, con un’iscrizione che nessuno riesce più a leggere; una croce miracolosa, ritenuta in grado di guarire ogni malattia… C’è tutto questo nella storia della pietra di Gudiris, una lastra sepolcrale scoperta in un campo vicino a Savigliano (Cuneo), un giorno imprecisato a cavallo tra il Quattordicesimo e il Quindicesimo secolo.
La leggenda del ritrovamento
La storia del ritrovamento è avvolta dalla leggenda. La croce miracolosa viene menzionata dalle cronache saviglianesi a partire dalla prima metà del Quattrocento, quando era già considerata dispensatrice di grazie e guarigioni. La tradizione popolare, sulla cui antichità non ci sono dubbi, ha voluto legarla a misteriosi prodigi, che l’avrebbero coinvolta fin dal suo dissotterramento. Così ne raccontano la storia i pannelli del Museo civico di Savigliano “Antonino Olmo”, dove oggi si può ammirare il reperto:
Un contadino arando scoprì la lapide e sollevandola provocò l’affioramento di una sorgente le cui acque risultarono avere proprietà miracolose. Egli decise quindi di portare a casa la lastra; tuttavia, giunta a destinazione, per due volte essa tornò miracolosamente nel luogo del ritrovamento. Il proprietario del fondo, il nobile Oggeri, decise allora di portarla in città. Durante il terzo trasporto, in prossimità del torrente Mellea, che il contadino doveva guadare, la lapide si mosse come per tornare nel punto di partenza. Il nobile Oggeri sdegnato la percosse con la spada causando una ferita che prese a sanguinare tingendo di rosso le acque del torrente (che divennero temporaneamente miracolose), mentre egli rimase col capo rivolto al contrario per l’empietà del gesto. Per questa profanazione molti discendenti del nobile Oggeri sarebbero poi stati afflitti da deformità fisiche. Infine la croce venne trasportata con solenne processione nella chiesa parrocchiale della Pieve, in una cappella affrescata per l’occasione.
Una fonte miracolosa, pietre che si muovono da sole, acque rosso sangue, punizioni fisiche per una profanazione… Nella leggenda della pietra di Gudiris c’è davvero un po’ di tutto, e non stupisce che la gente del posto la considerasse prodigiosa. Anche perché alla leggenda si sommava un elemento di mistero: nessuno era in grado di leggere ciò che era scritto sulla lapide. C’erano delle lettere, sì, ma sembravano non formare parole di senso compiuto. Per molti anni nessuno provò nemmeno a decifrarle.
Il culto
Sul luogo dove era stata disseppellita la pietra, in località Cascina Croce (il nome deriva proprio da quello), sorse una chiesa, oggi sconsacrata. La zona, in aperta campagna, è ricca di ritrovamenti archeologici, ed è possibile che vi sorgesse fin dall’alto Medioevo un oratorio paleocristiano. Il reperto potrebbe arrivare da lì. La pietra però, data la sua importanza, venne collocata fin dal 1403 in una posizione più centrale rispetto alla cittadina di Savigliano, nella chiesa di Santa Maria della Pieve.
Qui veniva baciata dai fedeli che pregavano su di essa e chiedevano grazie alla “croce miracolosa”. Anzi, pare che alcuni devoti avessero preso l’abitudine di raschiare la lastra per ricavarne la polvere, che veniva poi mescolata ad acqua e data da bere agli ammalati. Un vizietto abbastanza diffuso all’epoca; come scriveva il nobile Domenico Fiora in una cronaca ormai andata perduta, sempre a Savigliano era presente nel Diciassettesimo secolo un’altra lastra, murata nella chiesa di Santa Croce, che era
tuta rasata con coltelli per bever l’aqua dove se meteva detta rasatura di pietra e tuti queli bevevano di detta acqua guarivano dalle febbri.
Anche il ciclo pittorico che fin dal 1439 adornava la nicchia in cui era custodita la croce, a Santa Maria della Pieve, e che ne illustrava la leggenda non esiste più; ne rimangono le copie fatte dal pittore Giovanni Angelo Dolce nel 1586. Sono quelle che vedete qui di seguito.
Alla ricerca di un significato
Fino al Diciannovesimo secolo la pietra rimase lì, esposta alla venerazione dei fedeli saviglianesi. Solo nell’Ottocento, con l’accresciuto interesse per la storia locale e con una mentalità filologica ormai moderna, qualcuno provò a decifrarne l’iscrizione. I primi che si cimentarono nell’impresa furono Casimiro Turletti (1826-1898) e Carlo Agostino Novellis (1803-1851).
Il primo fu il medico militare saviglianese Carlo Novellis, che si occupò della pietra nel suo Storia di Savigliano e dell’Abbazia di San Pietro pubblicata a Torino nel 1844. Fu lui a intuire che la tanto venerata “croce miracolosa” probabilmente non era altro che una lapide sepolcrale, che ricopriva la tomba di un misterioso “Gudiris”. Nel volume si trova anche una bella illustrazione che mostra le condizioni in cui il reperto si trovava, nella prima metà dell’Ottocento.
Casimiro Turletti fu invece una figura illustre di prete e storico locale, noto per la sua monumentale Storia di Savigliano, pubblicata in quattro volumi fra il 1879 e il 1896. Della nostra vicenda Turletti si occupa alle pagine 223-240 del terzo volume, uscito nel 1888, come gli altri, presso la Tipografia Bressa della cittadina piemontese. Il volume è interamente dedicato alle biografie dei saviglianesi illustri e, fra questi, Turletti fa senz’altro rientrare anche il misterioso Gudiris (o Gudir: il genitivo –is per lui non faceva parte del nome).
Per Turletti, pur fra diversi dubbi, Gudir doveva essere stato un sacerdote della zona, morto a suo avviso intorno al 607; la sua tomba, sulla base dei registri catastali e di altri atti notarili, doveva essere stata scoperta tra il 1399 e il 1403. La leggenda del trasferimento “miracoloso” della pietra dal luogo del ritrovamento era narrata da Turletti in ogni dettaglio, sulla base di una relazione fatta nel 1555 nelle sue Cronache dal monaco saviglianese Giovanni Battista Nazari (pp. 230-231 del volume). Ma soprattutto, Turletti si concentrava su quello che tanto a lungo, e per motivi facilmente intuibili, aveva attirato l’attenzione sorpresa di tanti: il latino maccheronico che costituiva l’iscrizione.
La fine di una devozione
Le interpretazioni di Novellis e Turletti erano parzialmente divergenti; fu necessario arrivare al 1949 per avere una lettura più affidabile dell’iscrizione, grazie al canonico Alfonso Maria Riberi (1876-1952).
La lastra risale probabilmente alla fine del VI secolo, ed è un’ottima testimonianza della presenza longobarda nel Piemonte centro-meridionale. È soprattutto per la sua collocazione temporale così tarda rispetto alla romanità che il testo risulta così sgrammaticato: l’uso del latino, fuori dalle cancellerie nobiliari e dall’uso ecclesiastico, si stava ormai perdendo.
Il testo risulta quindi assai precario, con un’errata spaziatura tra le parole, abbreviazioni epigrafiche non standard e veri e propri strafalcioni. Con buona approssimazione, però, potrebbe essere letto così:
In nomine Domini. Hic requiescit venerabilis vir Gudiris presbyter in somno pacis. Et qui posuerit alium in meum hunc sepulcrum, esto a beata requie reiectus: sit ei anathema. Ego Gennarius feci, qui in eo tempore fui magister marmorarius.
[Nel nome del Signore. Qui riposa il venerabile uomo Gudiris prete nel sonno di pace. E chi avrà posto un altro in questo mio sepolcro venga escluso dalla beata requie: sia a lui l’anatema. Io Gennario ho fatto, che in quei tempi fui maestro marmorario].
Una maledizione, dunque, contro chiunque avesse violato il sepolcro del venerabile Gudiris: il “riciclaggio” delle tombe, all’epoca, era un problema assai sentito. Paradossalmente, fu proprio la decifrazione del testo a far cessare il culto verso la pietra, che nel 1913 venne donata senza troppi clamori al locale museo civico: senza l’alone di mistero dato dall’incomprensibilità, la reliquia tornava ad essere una lapide come tante.
La pietra, oggi
Noi del Giandujotto scettico abbiamo esaminato di persona la lastra attribuita alla tomba di Gudiris. Si tratta di una grande pietra calcarea grigio-azzurra, lavorata a rilievo su un fondo ribassato e attualmente custodita nel Museo civico “Antonino Olmo”, in una saletta interamente dedicata al reperto. Il grosso solco al centro potrebbe derivare dal danno apportato da qualche attrezzo agricolo al momento della scoperta, poi reinterpretata nel folklore locale come l’azione rabbiosa del nobile Oggeri (punito fisicamente e simbolicamente, dallo scaturire impossibile del sangue proprio dal centro della croce).
Eccone alcuni dettagli nelle foto fatte durante una visita, guidati dal dottor Marco Cerrina Cordero di Montezemolo.
A parte la scritta dall’interpretazione tuttora incerta e la derivazione di stile bizantino-ravennate della croce, se ne possono ammirare le decorazioni a spirale dalle quali sembra scaturire il simbolo cristiano per eccellenza. Sono particolarmente interessanti, perché quel tipo di spirale è un motivo ornamentale e simbolico arrivato sino ad oggi, ma documentato in Europa perlomeno dall’Antica Età del bronzo (2300-1700 a.C.). Un esempio impressionante è rappresentato dall’uso fatto nei portelli tombali della civiltà di Castelluccio, nel Siracusano, dove starebbero a rappresentare il ciclo costante vita/morte. Qualcuno ha invece voluto leggere, nelle decorazioni della pietra di Gudiris, un riferimento all’albero della vita, da cui scaturirebbe la croce.
La pessima grammatica dell’iscrizione e la presenza delle spirali contribuirono probabilmente ad accrescere nella zona la fama della lapide, scoperta del resto al sorgere della mentalità umanistica, con la sua smisurata ammirazione per gli antichi. Nei secoli successivi, la collocazione della pietra all’interno di una chiesa e la devozione dei saviglianesi fecero il resto. La fama di “pietra miracolosa”, così, permase di sicuro fino all’Ottocento.
Ma, anche se il pietrone di Gudiris non si mise sul serio a volare dal carro trainato dai buoi (le traslazioni miracolose sono un motivo ricorrente dell’agiografia cattolica), credeteci, da sola la pietra di Gudiris vale una visita al Museo civico di Savigliano.
Si ringrazia il personale del Museo “Antonino Olmo” per il permesso di fotografare la lapide e le appassionate spiegazioni