9 Ottobre 2024
Giandujotto scettico

Stupefacenti rimedi contro la tosse

Giandujotto scettico n° 135 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (23/03/2023)

Pastiglie pettorali Santa Maria: si chiamava così un rimedio diffuso nella prima metà del Novecento in Piemonte, prodotto dal laboratorio Stenogenol di Saluzzo. Sul retro della scatola, decorata con un’immagine della Madonna con Bambino (forse per rimarcarne le proprietà salvifiche?) è possibile leggere la lista degli ingredienti:

Polvere Dower centigr. 10
Eroina milligr. 1
Mentolo ctg. 1
Terpina centigr. 5,
aromatizzata con Balsamo tulù.

Già, eroina. E non è che con il primo ingrediente, la polvere di Dover, si andasse meglio: si trattava di una polvere a base di oppio.

Le immagini derivano dalla collezione di Giulia Bovone, biologa alessandrina trapiantata a Torino, autrice del libro I farmaci nella letteratura (NOSM, 2016). Dal 2010, Bovone cura il blog La farmacia d’epoca, in cui presenta flaconi e scatole di medicine dei tempi passati. Scorrerlo è un’esperienza interessante: fa capire come ci si curava fino a pochi decenni fa, quanto i rimedi “da banco” erano influenzati da mode e pubblicità al limite della ciarlataneria, e quanta strada si sia fatta nel campo della salute.

Stenogenol, tonici e pastiglie

Si sa poco sul “laboratorio Stenogenol” di Saluzzo, diretto dal cavalier T. De Marchi; probabilmente si trattava di una farmacia con annesso retrobottega, a conduzione familiare (questa pubblicità del 1913 indica come direttrice Eugenia Vilatta De Marchi, che era moglie del titolare). Aveva sede al numero 5 dei portici di piazza Vittorio Emanuele, oggi piazza Risorgimento. Produceva parecchi prodotti salutistici, di quelli che andavano di moda nella prima metà del Novecento: primo fra tutti, lo Stenogenol – “tonico, digestivo, ricostituente” – che tra le altre cose conteneva anche stricnina; nel 1913, questo prodotto era reclamizzato come“testato sui militari reduci dalla guerra di Libia, “convalescenti di malattie esaurienti”; nel 1916, veniva spacciato come toccasana per gli ufficiali e i soldati indeboliti dalle fatiche della Grande guerra. 

A fianco di questo prodotto descritto con toni entusiastici, ecco un liquore alla china peruviana, uno dei tanti “vini medicati” dell’epoca. Lo storico Piero Camporesi, autore di La carne impassibile (Il Saggiatore, 1983), commentava così il prodotto:

Era il tempo dei «ricostituenti nervini», come il popolare «Okasa», e d’unguenti virilizzanti come la non meno nota «Pomata Casanova». Ed è probabile che il liquore alla china peruviana preparato nella distilleria di Saluzzo entrasse anche nel ricostituente per le «persone estenuate dalla fatica del lavoro, talvolta eccessivo». In quel tempo si lavorava tanto duramente che papi e metallurgici, cattolici e non, dovevano fare ricorso a una provinciale acquavite in cui qualche frammento della «divina pianta» degli Incas, entrata nella «china peruviana», ricostituisse la vis languente. Marciare e arrampicarsi verso il tetto della vita non era facile per nessuno, né per i capi né per i peones.

A fianco dei tonici – i prodotti di punta del laboratorio saluzzese, a quanto pare – la Stenogenol produceva anche il Jarsol (“il miglior preparato di iodio ed arsenico”), il Creosojarsol (“efficacissimo contro tossi ostinate, bronchite, polmonite”), il Ricinusol (“ottimo tra i purganti”) e la Magnesia del Cappuccino.

E poi c’erano le “premiate pastiglie pettorali Santa Maria”, utili contro “le tossi ostinate e i catarri”, che stando a questa pubblicità del 4 gennaio 1913 avevano guadagnato le massime onorificenze alle Esposizioni d’igiene di Perugia, Napoli, Londra, Madrid, Buenos Aires… 

Gli ingredienti

Le pastiglie pettorali Santa Maria contenevano tre sostanze aromatizzanti: mentolo (che è anche un blando antisettico), terpina (usata in forma idrata come espettorante, si ricava da piante come l’origano e l’eucalipto) e balsamo del Tolù (una resina ottenuta dall’incisione della corteccia di un albero dell’America del Sud). Le proprietà calmanti delle pastiglie erano invece affidate alla polvere di Dover e all’eroina.

Il primo era uno dei rimedi antifebbrili più in voga nell’Ottocento. Era stato inventato intorno al 1732 da un medico inglese, poi divenuto corsaro: Thomas Dover (1660-1742), soprannominato “doctor Quicksilver” (dottor Argento vivo), perché nel trattato che gli diede gloria consigliava il mercurio per ogni sorta di malattia. Convinto che la cura di febbri e bronchiti dovesse passare per il “metodo del raffreddamento” (consumo di oppio, birra e emetici, seguiti da una convalescenza in una stanza con le finestre aperte), lui stesso affermava di essere guarito dal vaiolo in questo modo. Per meglio venire incontro alle esigenze dei malati, Dover mise a punto la ricetta della polvere di Dover, che conteneva oppio e ipecacuana (una pianta originaria del Brasile): il primo calmava il dolore, il secondo fungeva da emetico e induceva la sudorazione. Il farmaco ebbe successo, e per più di un secolo venne impiegato nella cura di influenze e affezioni simili.

L’uso dell’oppio non deve stupire: nel Settecento si era diffuso dall’estremo Oriente in tutta Europa per le sue proprietà calmanti e antidolorifiche. Prescritto di solito in forma di laudano (una tintura di oppio, vino e sostanze aromatizzanti), come ben noto genera dipendenza in chi lo consuma. Lo stesso vale, naturalmente, per il suo principio attivo, la morfina, estratta a partire dal 1806 e molto più rapida ed efficace (ma per il suo impiego su larga scala occorrerà l’avvento dell’ago ipodermico, nel 1853). 

Nelle pastiglie c’era poi l’eroina, che ai tempi delle Pastiglie pettorali Santa Maria era un’invenzione recente: era stata messa in commercio nel 1898 – ironia della sorte, proprio per combattere la dipendenza da morfina. 

Eroina, mon amour

Dell’eroina si conoscono esattamente data e luogo di nascita: il 21 agosto 1897, nei  laboratori Bayer di Elberfeld, in Germania. A sintetizzarla era stato il chimico Felix Hoffmann, che meno di due settimane prima era riuscito a portare a termine l’acetilazione dell’acido acetilsalicilico, creando così uno dei farmaci di maggior successo del nostro secolo, l’Aspirina. Hoffmann provò a ripetere il procedimento con la morfina, ottenendo la diacetilmorfina. La Bayer si rese subito conto del potenziale commerciale del prodotto: si trattava di un’alternativa alla morfina, di cui erano ormai noti gli effetti collaterali. Per questo, l’azienda decise di commercializzarla con il nome di eroina. Era un riferimento alle sue virtù eroiche e salvifiche. 

Nei tubercolotici era in grado di ridurre l’affanno e la tosse. Ma, attenzione: non era una cura della tubercolosi; semplicemente, l’eroina andava a sedare i centri respiratori (che è proprio quello che avviene in caso di overdose, ed è la ragione per cui può rivelarsi mortale). Detto in altri termini, alleggeriva il sintomo, ma non curava la malattia. Possiamo quindi ipotizzare che anche le “pastiglie pettorali” fossero efficaci: la tosse probabilmente diminuiva, l’oppio dava una sensazione di placido benessere. Ma a che prezzo? 

L’eroina – venduta indiscriminatamente a uomini, bambini, donne incinte e contro una miriade di sintomi, dalle cefalee ai dolori articolari – portò a inizio secolo a una vera e propria epidemia di dipendenza da questa sostanza. Si stima che in Egitto, nel 1930, un abitante su 28 fosse eroinomane. Di fronte alle crescenti evidenze di effetti collaterali, nel 1925 gli Stati Uniti corsero ai ripari, e la misero al bando. Lo stesso anno molti paesi firmarono la Seconda convenzione sull’oppio (una prima era già stata firmata nel 1912), che cercava di regolamentare la vendita di questa sostanza e dei suoi derivati. L’Italia, insoddisfatta del testo, non la firmò. Da lì in avanti, un gran numero di paesi vietò l’eroina e impose limiti all’uso farmaceutico degli oppioidi. La Bayer, peraltro, ne aveva già cessato la produzione oltre dieci anni prima, sulla scorta di un’ondata di ricoveri e di decessi avvenuti sulla costa orientale degli Stati Uniti, nel 1913. L’Italia rese illegale l’eroina soltanto negli anni ‘50. 

Il tempo delle droghe

Le pastiglie pettorali Santa Maria oggi ci provocano meraviglia: ci parlano di un tempo in cui l’approccio alle sostanze stupefacenti era molto più disinvolto rispetto a quello attuale. Famoso è il caso del Vin Mariani, molto apprezzato da papa Leone XIII e da personaggi del calibro di Thomas Edison. Era a base di foglie di coca lasciate a macerare dieci ore nel Bordeaux. 

Ancor più eclatante è il caso di un rimedio usato in modo diffuso negli Stati Uniti per calmare il pianto dei neonati che soffrivano di coliche o per la dentizione: il Mrs. Winslow’s Soothing Syrup, in commercio dal 1845, a base di alcol e di morfina. Il prodotto causò innumerevoli problemi di dipendenza e sovradosaggio, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Baby Killer” grazie a una pubblicazione dell’American Medical Association.

Anche in Italia i rimedi a base di codeina, morfina o altri alcaloidi erano la norma. Il blog La farmacia d’epoca, che citavamo in apertura, ne offre un ricchissimo campionario: le pastiglie pettorali Santa Maria sono solo un esempio tra i tanti possibili. Potremmo forse chiederci se abbiano fatto vittime, ma sarebbe una domanda oziosa: negli anni Venti, semplicemente, nessuno teneva traccia degli effetti collaterali frutto dei prodotti in commercio. 

La farmacovigilanza – quella procedura che impone di valutare gli effetti avversi dei medicinali, e non solo prima dell’immissione in commercio, ma anche in seguito – è un’invenzione relativamente moderna. È frutto di scandali come quello della talidomide, l’anti-nausea prescritto alle donne incinte che però induceva malformazioni ai nascituri: una procedura di sicurezza che ci siamo guadagnati a caro prezzo, e che ci è costata vittime e sofferenza. Storie come quella dello Stenogenol prodotta a Saluzzo oggi possono far sorridere, ma ci fanno capire quanta strada si è fatta – anche nel campo dei farmaci da banco, che oggi consumiamo a iosa, ogni giorno.

Si ringrazia Giulia Bovone per l’autorizzazione all’uso delle immagini delle Pastiglie pettorali. Foto di apertura di National Cancer Institute da Unsplash