22 Aprile 2024
Approfondimenti

Scienziato, scrivi semplice: ti conviene

Ci eravamo già occupati di uno studio che aveva cercato di capire i legami, davvero complicati, fra l’interesse dei media per gli articoli scientifici e il successo che queste pubblicazioni ottengono su altre pubblicazioni dello stesso genere, e si era intuito che la questione non è di facile interpretazione. Certo è che l’attenzione dei media può dimostrarsi a volte molto importante: un’istituzione di ricerca, un’università, un’impresa non possono trascurarli, quando pubblicano i loro risultati. 

L’uso eccessivo e inadatto del linguaggio specialistico fa male alla scienza. Lo sostengono in un loro lavoro, certo in modo meno secco di come l’ho detta, il biologo Stefano Mammola, che si occupa soprattutto di biologia sotterranea, e il suo collega Alejandro Martínez, che lavorano presso il Molecular Energy Group (MEG) dell’Istituto di Ricerca sulle Acque del CNR di Verbania-Pallanza, in un lavoro (1) pubblicato in aprile dalla rivista Proceedings of the Royal Society B

Gli autori aprono il loro articolo riprendendo un’asserzione famosa di Ludwig Wittgenstein: i limiti delle nostre parole sono i limiti del nostro mondo. Non possiamo fare altro che attraversare la realtà usando le parole. Alle parole gli scienziati fanno ricorso di continuo, e – cosa in certa misura inevitabile – di norma lo fanno usando parole che suonano chiare solo ai loro colleghi. Soltanto grazie ai tecnicismi, espressioni incomprensibili ai più, riescono a condensare anni di lavoro in immagini mentali assai precise. 

In questo senso, il linguaggio specialistico funziona come una matrioska, cioè la bambolina russa. Ogni termine nuovo aggiunto arricchisce il messaggio dato all’inizio e struttura e colloca i concetti nell’ambito di una o più discipline (2). Come esempio di questo processo, gli autori citano una definizione usata dagli zoologi: una certa salamandra è un metazoo neotenico anoftalmo – e sfido la maggior parte di noi a rappresentarsela visivamente, qui ed ora, senza googlare. 

Ma tutto ciò ha comunque dei limiti. Il fisico Richard Feynman, ricordano Martínez e Mammola, era scettico sul fatto che le parole ci possano dire qualcosa sulla natura in quanto tale. Più che altro, pensava, le parole sono in grado di raccontarci i limiti della nostra immaginazione. Peggio ancora è per il linguaggio gergale degli specialisti: in quel caso, i concetti mentali sono possibili ad un alto grado di precisione soltanto a chi condivide un background comune. In altri termini, serve solo a chi si muove nella stessa comfort zone. Il linguaggio specialistico, insomma, funziona un po’ come le battute e le barzellette: comunicano rapidamente idee potenti e pervasive, ma, dopo un po’, stancano (3).

Tutte queste sono cose ben note da tempo. Di recente, una vasta ricerca su 700.000 abstract di pubblicazioni sulle scienze della vita e di quelle mediche ha confermato che più termini gergali si usano, meno i testi risultano leggibili (4). Però, per Martínez e Mammola quel lavoro ed altri paragonabili hanno dei limiti: da essi è difficile capire quali difficoltà il gergo crea alla comunicazione fra scienziati con formazione diversa, e, in più, comparare fra loro i linguaggi specialistici è un’impresa non da poco, perché ormai le differenze e i fattori confondenti sono innumerevoli e seri. E inoltre, anche se il dibattito qualitativo su come il gergo rallenta la circolazione della ricerca scientifica è ampio, i due studiosi erano insoddisfatti perché poco è stato fatto al riguardo sul piano quantitativo.

Per provare a rimediare, Martínez e Mammola hanno individuato una disciplina, la speleologia, in cui si ritrovano allo stesso tempo due caratteristiche: una gran quantità di argomenti sui quali le definizioni divergono – a volte in modo netto – e la presenza di un’enorme quantità di termini altamente tecnici, in molte occasioni presi a prestito nel passato remoto da altre aree disciplinari ma reinterpretati dalla speleologia. 

I due hanno dunque preso circa 21.500 articoli scientifici di speleologia usciti negli ultimi trent’anni e ne hanno analizzato titoli ed abstract cercando di misurare quanto fossero presenti espressioni gergali proprie di quel settore. Per costruire i loro dati hanno impiegato una metodologia alla cui base sta la costruzione di un elenco di 1500 termini specialistici tratti da glossari di libri accademici, da trattati e da altre fonti, per poi valutare quanto questi termini pesassero rispetto al complesso delle parole usate. 

Il fatto di essersi concentrati su titoli ed abstract non è stata soltanto una questione di economia degli sforzi: esiste infatti una letteratura che indica come i lettori (sia le persone comuni, sia gli scienziati) usino titoli e riassunti iniziali dei lavori come “uncini” cui agganciarsi per decidere se proseguire oltre (5). Inoltre, questi due elementi riflettono lo stile di scrittura degli articoli (3), il che rafforza l’idea che siano fondamentali perché la pubblicazione riesca a “bucare”.

Il risultato dell’analisi dei dati è che il gergo produce un effetto negativo e nonlineare sulle citazioni. Le citazioni diminuiscono di molto all’aumentare della presenza di termini gergali sia nell’abstract sia nel titolo. Quando la proporzione del gergo è superiore all’1% delle parole, le citazioni diminuiscono in modo drastico. Se si rovescia il punto di vista, salta fuori che nessuno fra i lavori più citati usava gergo nei titoli e che, di questi, quasi tutti negli abstract ne presentava una proporzione inferiore all’1%. 

Gli autori hanno comunque tenuto ad avvertire che questi risultati non dicono granché sui motivi epistemologici che spingono gli scienziati a usare il gergo in maniera più o meno intensa (e non è chiaro nemmeno se dall’ambito della speleologia gli esiti siano estendibili ad altri settori in cui il disaccordo terminologico è meno forte), ma è senz’altro ragionevole dire che ci raccontano che usare tanto gergo non aiuta a far leggere i propri lavori e a farli usare da altri. 

Spingendo oltre il ragionamento, si può pensare che anche gli effetti su ciò che giunge al pubblico attraverso i comunicatori della scienza siano, in qualche misura, indotti dal peso più o meno eccessivo del linguaggio esoterico di titoli e abstract, visto che l’impiego di troppi termini incomprensibili persino per molti altri scienziati spinge a menzionare poco i lavori che si presentano “ermetici” in quegli “agganci” che sono riassunti iniziali e titoli. 

Consiglio di Martínez e Mammola: scienziato, scrivi semplice, almeno nelle parti dei tuoi lavori in cui l’impiego di parole che condividi a malapena  con i tuoi colleghi di sotto-specialità non è necessario. Conviene a te, alla circolazione dei tuoi risultati, e, forse, persino alla presa in carico di essi da parte della società e alla loro trasformazione in scelte concrete: economiche, politiche, culturali.

I due studiosi hanno inteso richiamare l’attenzione su quanto sia necessario misurare in modo rigoroso le conseguenze del linguaggio iper-tecnico usato negli articoli che escono sulle riviste scientifiche. In questo modo, hanno dato una mano a considerare la scienza come attività linguistica e la ricerca come impresa sociale. I rapporti fra laboratorio e lettori di quanto presenta ciò che vi si produce sono mediati da fattori che, sempre di più, appaiono impossibili da trascurare. 

Note

1) Martínez, A, Mammola, S (2021) Specialized terminology reduces the number of citations of scientific papers. Proceedings of the Royal Society B. 288: 20202581. doi: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rspb.2020.2581.

2) Hoyningen-Huene, P (2013) Systematicity: the nature of science. Oxford University Press, New York.

3) Pennisi, E (2016.) How to (seriously) read a scientific paper. Science. https://doi.org/10.1126/science.caredit.a1600047.

4) Plavén-Sigray, P, Matheson, GJ, Schiffler, BC, Thompson, WH (2017). The readability of scientific texts is decreasing over time. Elife 6:e27725.

5) Mabe, MA, Amin, M (2002) Dr Jekyll and Dr Hyde: author‐reader asymmetries in scholarly publishing. ASLIB Proceedings. 54(3): 149-157. https://doi.org/10.1108/00012530210441692.

Immagine in evidenza: Karolspacja, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons

Giuseppe Stilo

Giuseppe Stilo (Firenze, 1965) si occupa di pseudoscienze, in particolare di ufologia, privilegiando il metodo storiografico. Fra gli altri suoi lavori, "Alieni ma non troppo. Guida scettica all'ufologia" (Cicap, Padova, 2022). Insieme a Sofia Lincos è titolare delle rubriche "Misteri Vintage" (su Query Online), "Il Giandujotto scettico" (sul sito del Cicap Piemonte) e "Divergenti" (sul trimestrale Query).

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