27 Luglio 2024
Giandujotto scettico

Fulmini globulari piemontesi, fra natura e cultura

Giandujotto scettico n° 56 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (30/01/2020)

I fulmini globulari. Un fenomeno elettrico dell’atmosfera oggetto di controversie scientifiche sin dalla seconda metà del Settecento, e la cui natura non è ancora del tutto chiara neanche ad oggi – figuriamoci un secolo fa.

Sulla casistica italiana, ci limitiamo a segnalare due raccolte moderne che senza dubbio potranno interessare i cultori dell’anomalistica. Sono state create da Paolo Toselli, del Centro Italiano Studi Ufologici, (catalogo BLITA) e dell’astronomo Albino Carbognani, che ha raccolto da zero un altro campione di osservazioni e ha pubblicato sul tema un intero libro.

I fulmini globulari però continuano a riservare sorprese anche a noi del Giandujotto scettico.

Si tratta di racconti dai toni assai diversi fra loro: il primo viene da un austero insegnante di provincia dell’Italia post-unitaria, il secondo da un gruppo di ufficiali del Regio Esercito degli anni della belle époque – questi due in una certa misura si somigliano – e il terzo da ambienti giornalistici, eco dei fasti dell’alta borghesia e del clero cattolico sotto la dittatura fascista. Come vedremo, quest’ultimo resoconto si distacca per modi e per contenuti dagli altri due.

Andiamo per ordine. Il caso più vecchio fu presentato nel suo numero del 4 giugno 1872 da un bisettimanale di Casale Monferrato, Il Monferrato, tuttora in attività. Nel darne notizia l’autore non lasciava particolare spazio a voli pindarici. Il titolo del pezzo era, laconicamente, “Fenomeni osservati nella caduta di un fulmine a Casale Monferrato”.

Domenica sera, [dovrebbe trattarsi del 2 giugno, N. d. A.] due fulmini cadevano a piccolo intervallo di tempo fuori di porta Castello, il primo in un prato a medica, il secondo in casa del signor Giuseppe Cerrano. La scarica di questo secondo fulmine, che fortunatamente non arrecò danno grave ad alcuno fu accompagnato da fenomeni interessanti la scienza. Presentatosi prima su di un ballatoio, munito di una ringhiera in ferro, sotto forma di globo di fuoco a due tinte, cioè metà rosso e metà bleu, passò vicino alla guancia di una donna alla quale sfiorò la faccia, persistendole il bruciore per alcune ore; produsse lungo i ferri della ringhiera il fuoco di S. Elmo, indi entrò, rasentando il suolo, per un uscio a vetri chiuso ed in forma di striscia in una camera ove erano raccolte otto persone, che attendevano ad un bimbo malato.

Il fulmine appena entrato nella camera si alzò dal suolo e prese la forma di globo grosso come un pugno, e toccando la mano d’un giovinetto, che accidentalmente si trovava vicino a quell’ingresso, lo sfiorò leggermente, ma per il movimento istintivo di scuotere la mano per allontanare il globo, questo si divise in cinque sfere minori, grosse, a quanto dissero, come noci.

Due di queste si diressero verso una signorina munita di abito e di grembiale di lana, e mentre dessa si recava verso la culla nell’interno della camera per salvare il bimbo, le due piccole sfere stettero per la durata di qualche passo innanzi al grembiale della stessa a pochi centimetri, e potè distinguere non solo un movimento di oscillazione delle stesse, ma anche che l’una era rossa e l’altra bleu, ed a distanza pure di quattro o cinque centimetri l’una dall’altra. Indi avendo fatto un mezzo giro per liberarsi da questa spaventosa apparizione, le due piccole sfere retrocedettero e si diressero verso una camera da letto, dove vi era un doppio letto in ferro e verso cui si erano dirette subito le altre tre piccole sfere.

Portandosi verso quella camera si allungarono, raggiunsero le prime e comparve di nuovo un unico globo sulla cornice dorata di un quadro posto a capo del letto. Il globo percorse la cornice, staccandone in parte, e in parte volatilizzandone la doratura, che vidi a bricciolo sparsa sul letto e depositata sul vetro sotto forma di polvere bruna. Indi venne ai piedi del doppio letto e là, proprio fra un letto e l’altro, forò la volta, seguì il tubo del gas d’una fiamma posta nel mezzo d’una sala sottostante, e ne lo divise scaricandosi. La detonazione avvenne tosto che forò il pavimento. Una signorina che era ai piedi del letto, fu la spettatrice e aggiunse che nello scoppio vide un’infinità di scintille di fuoco caderle davanti. Essa era vestita di percalle, [un tessuto di filati di cotone, piuttosto ruvido, N. d. A.] ma aveva un grembiale di lana. Nessuna persona provò scossa alcuna.

Questi fatti furono da me raccolti la sera stessa nella casa del sig. Cerrano, che gentilmente mi vi invitò, e dove, per accertare ed ordinare i fatti, non tralasciai di incomodare quella gentilissima famiglia con un’infinità di domande.

Prof. A. Bertolio

Notiamo i toni: a parlare è un borghese che lo fa con modi e parole signorili, forse anche perché interloquisce con suoi pari sul piano sociale. Giuseppe Cerrano, nella cui abitazione si svolse il fenomeno, era il presidente della Camera di Commercio di Casale Monferrato. Chi scriveva, per di più, era una persona che godeva di generale stima e rispetto: si trattava del professor Antonio Bertolio, insegnante di chimica presso l’Istituto Tecnico Municipale di Casale. Fu uno studioso di meteorologia e di astronomia. A lui, ad esempio, si deve un contributo decisivo alle analisi del meteorite di Motta de’ Conti, sul versante vercellese del Po, una condrite caduta il 29 febbraio 1868 e che rimane tuttora uno dei più grossi sassi celesti (un po’ meno di dieci chili) recuperati in Italia nei secoli recenti.

Spostiamoci verso ovest, sulle Alpi. Sono passati vent’anni dall’episodio di Casale e siamo al confine francese. Ci troviamo al Passo del Moncenisio, che ai primi del XX secolo, dopo il trasferimento della Savoia alla Francia, aveva assunto un’importanza strategica fondamentale in caso di guerra fra Roma e Parigi. Di fatto, costituiva – com’era già dai tempi di Napoleone I – la porta d’accesso verso Torino e da lì verso la pianura padana.

È in quel contesto che dobbiamo collocare il secondo fulmine globulare di oggi. In realtà, la sola fonte che conosciamo al riguardo è assai posteriore al fatto. Si tratta di un lungo articolo sui “fulmini sferici” uscito su La Provincia di Cremona il 16 gennaio 1951 ad opera di un giornalista che si nascondeva dietro la firma “Leocos” e di cui in quello stesso periodo sui giornali si incontrano altri pezzi su “misteri” quali i dischi volanti e il meteoroide di Tunguska.

Spiegava “Leocos”:

Una delle prime descrizioni di testimoni oculari di un fulmine sferico osservato simultaneamente da numerose persone è contenuta nel rapporto di un gruppo di ufficiali appartenenti ad una divisione alpina: “…verso la fine di maggio del 1902 stavamo risalendo la strada militare, avvicinandoci faticosamente al valico di Moncenisio. Per circa un’ora dovemmo attraversare una zona coperta di fitte formazioni temporalesche, tra continue scariche elettriche e l’imperversare della pioggia e della grandine, finché, nei pressi del valico, qualche raggio del sole che tramontava ci illuminò attraverso squarci di nubi. Poco dopo, attorno a noi l’aria si era rasserenata, mentre le nubi scivolavano in basso, verso precipizi e profondi burroni, ai due lati della strada”.

“Nel momento in cui il sole calò definitivamente dietro le cime montuose, la nostra attenzione fu attratta da una sfera di fuoco, dalle dimensioni di una luna piena e di color ferro rovente, circondata da un’aureola azzurro viola: nella parte centrali notammo miriadi di scintille luminosissime e ne avvertimmo il leggero crepitio”.

“La sfera sembrava rotolare sul ciglio del burrone, poco discosto sulla strada, senza toccare il suolo; anzi, mano a mano che si spostava verso il fondo, come sospinta dalle correnti d’aria, si sollevava gradualmente. Passò a 10-12 metri dal punto in cui trovavamo, allorché uno di noi pensò di sparare un colpo di pistola, ma l’aiutante maggiore fece in tempo a impedirglielo, nel timore che un’eventuale esplosione o scarica facesse imbizzarrire i muli che trasportavano la cassa divisionale. Intanto, la sfera si allontanava, ondeggiando – sembrava quasi che navigasse – scivolando sulla parete del burrone: penetrò ben presto nelle nubi che vi si addensavano, trasparendo come una macchia chiara, ancora per qualche tempo, nella loro massa opaca”…

Non sappiamo da dove “Leocos” ricavasse le notizie sul rapporto fatto dagli ufficiali degli alpini, ma come per il racconto fatto da Antonio Bertolio nel 1872 anche questo era, a suo modo, di impronta razionale. A Casale Monferrato, il docente di chimica di provincia, autorità del luogo, era cortesemente ricevuto dalla famiglia di un maggiorente locale che aveva osservato un fenomeno meraviglioso come quello del globo diviso in cinque palline; nell’episodio del colle del Moncenisio, si trattava della relazione del gruppo degli ufficiali alle prese con la durezza e le sorprese che la natura aveva loro riservato durante l’addestramento necessario in caso di guerra con i cugini-avversari francesi.

Non a caso, mentre il globo si avvicinava al gruppo dei militari, uno di loro fu bloccato dai superiori mentre cercava di estrarre la pistola e aprire il fuoco contro il “mostro”. L’autorità gerarchica detta i confini entro i quali farsi carico di quella strana, inquietante novità.

Ma coi fulmini globulari del passato piemontese abbiamo anche narrazioni d’intento completamente differente. Almeno in un caso, i giornali quasi riuscirono ad assimilare un ball lightning… a un miracolo e a una leggenda.

Accadde agli inizi dell’estate del 1941 a Zumaglia, sulla collina del Biellese.

La fonte principale stavolta è costituita da un lungo articolo uscito su Stampa Sera del 17 giugno di quell’anno.

Soltanto ora si ha notizia della strana corsa di un fulmine, caduto, durante il violento nubifragio di venerdì scorso [il 13 giugno], sul Castello di Zumaglia. Il grosso globo di fuoco, rovinando per la torre del castello, che ha così collaudata la sua resistenza, ha percorso le diverse ali del fabbricato, abbattendo quattro pinnacoli, distruggendo tutti gli impianti elettrici, i vetri delle finestre e danneggiando anche parte del mobilio. Entrato, quindi, nella cucina, sfiorava il custode Enrico Serra.

Questa prima parte del resoconto, seppur la descrizione sia assai più succinta di quelli che vi abbiamo presentato prima, si manteneva in un quadro naturalistico. Descriveva una bizzarria della natura, il fulmine globulare, sul quale a quel tempo davvero si brancolava nel buio, ma niente di più. In realtà il peso della storia stava per riversarsi tutto su un versante quasi magico – un “meraviglioso” nel vero senso del termine. Ecco il racconto.

Ma ciò che vi è di più curioso in questa passeggiata del fulmine è il fatto che la scarica elettrica si è abbattuta sopra l’urna dove sono conservati i resti mortali del vescovo Lombardo della Torre, senza cagionarle danno alcuno.

Ora, attorno a tale vescovo, è da notare che esiste tuttora una lunga e drammatica storia. Lombardo della Torre, vescovo e signore di Biella nella prima metà del Trecento, venuto a mancare nel 1343, era stato sepolto in una località a tutti ignota, Scoperta la località della sepoltura dopo alcuni secoli, la salma era stata rimossa ed ancora una volta sepolta all’insaputa di tutti presso il Duomo della nostra città. Soltanto due anni or sono, in seguito alla scoperta di una pergamena da parte dello storiografo biellese Pietro Torrione, la tomba venne rinvenuta ed i resti, pietosamente raccolti, vennero trasportati al Castello di Zumaglia, che già fu feudo dell’antico vescovo.

Accanto ai resti mortali di Lombardo della Torre era stata rinvenuta una pietra bianca, che era stata colà collocata per dar modo ai posteri, qualora la località della sepoltura si fosse venuta a scoprire, di procedere all’identificazione del morto. Anche su tale pietra corre una leggenda, poiché si fa risalire ad essa un miracolo. Durante la prima traslazione del cadavere, quella piccola pietra assunse a un tratto un peso enorme, di diversi quintali, tanto da impedire il sollevamento della bara da parte di quattordici uomini.

La stessa pietra si trovava sopra l’urna, quando il fulmine scorazzò, giorni sono, per il Castello di Zumaglia. Investita in pieno dal globo di fuoco, si arroventò ed acquistò un colore rosso accesissimo che restò tale per quarantott’ore: la pietra si era trasformata in un incandescente blocco a toccare il quale si sarebbe dovuto presumere di scottarsi, Viceversa la temperatura della pietra non aveva subito alterazione alcuna. Il fatto ha suscitato in mezzo al popolino vivissimi commenti.

Il racconto fu ripreso da La Stampa e dal Corriere della sera del giorno dopo, 18 giugno 1941.

In realtà, a ben vedere la pubblicistica locale, per precisione Il Popolo biellese, nel suo numero del 16 aveva già riportato la sostanza della storia poi ristampata il giorno dopo da Stampa Sera. Il quotidiano torinese aveva usato, ampliandolo, lo stesso testo del Popolo biellese: sola omissione, il fatto che per il settimanale locale alla fine il fulmine si era scaricato, esplodendo, nella valle dinanzi al castello.

In un cenno successivo fatto nell’edizione del 26 luglio, il periodico biellese si limitò a ricordare che il fulmine aveva colpito l’urna, ma del “miracolo” della pietra bianca diventata incandescente – pare curioso – non v’era più traccia.

Forse questa curiosa trasformazione del “globo di fuoco” del temporale nel messaggero di qualche divinità dell’Europa antica diventerà meno incomprensibile dopo aver spiegato qualcosa di storicamente documentabile su Lombardo della Torre e sul suo castello.

Lombardo fu un vescovo e un feudatario importante. Probabile che – se non l’edificazione – un importante ampliamento del castello che ci interessa sia stato dovuto a lui. Una figura di rilievo, certo, quella di Lombardo: ma perché quando il fulmine globulare gironzolò nell’edificio, nel 1941, in zona c’era tanto entusiasmo per un ecclesiastico morto quasi seicento anni prima?

Beh, ce lo spiega bene lo storico ed erudito biellese Pietro Torrione con un articolo apparso sul Popolo biellese il 16 settembre 1938, poco meno di tre anni prima dell’episodio assurto a “miracolo”.

Cominciamo col dire che la storia del piccolo comune di Zumaglia è davvero segnata dalla presenza su un colle del castello, di originario impianto medievale.

Coinvolto nelle atrocità tra fazione guelfe e ghibelline dei primi decenni del XIV secolo, Lombardo della Torre morì, forse avvelenato da alcuni familiari, il 19 aprile 1343. Le (vere) peripezie della salma di quest’uomo, unite alle convinzioni religiose sull’incorruttibilità dei cadaveri dei santi, alla caduta nel dimenticatoio e poi alla rinascita del castello di Zumaglia sono probabilmente all’origine della narrazione del 1941 sul fulmine globulare considerato come “segno del cielo”.

Dapprima, infatti, il vescovo Lombardo era stato seppellito in un sontuoso sarcofago in pietra bianca posto sopra l’altare maggiore della collegiata della chiesa di Santo Stefano in Biella. Lì rimase sino al 1544: rifatta la chiesa di Santo Stefano, si ritenne necessario spostarne il feretro. Qui sorse probabilmente la leggenda della bara diventata pesantissima e che, aperta, mostrava la salma incorrotta dopo duecento anni dalla morte e, al contempo, quella dell’impossibilità di spostarla per il peso se non dopo aver recitato una preghiera che era stata trovata nel feretro lapideo.

Nel 1718, nuovo rifacimento della chiesa e nuova constatazione della conservazione della salma, ma, stavolta, con spostamento del corpo senza il prezioso sarcofago bianco che, a quanto pare, andò poi disperso, e ulteriore sepoltura assai più modesta, nel 1788, in un punto del tutto anonimo del Duomo di Biella.

Poi, l’oblio e la successiva riscoperta grazie a un documento ritrovato presso l’Archivio capitolare dallo storico Pietro Torrione che permise, nel 1937, la scoperta dei poveri resti (non più incorrotti, per la cronaca!) e, poco dopo, la loro definitiva collocazione nel “castello”.

Già, il castello del nostro fulmine globulare.

Che fine aveva fatto, l’edificio sorto forse in un primo nucleo agli inizi del secondo millennio? Distrutto dai francesi nel 1556, nei primi decenni del XX secolo ne restava il ricordo e qualche modesta maceria. Sarebbe rimasto tutto così, e noi non avremmo avuto il nostro fulmine celeste del castello, se di quella storia non si fosse innamorato il nobile e ricchissimo imprenditore dei filati, conte Vittorio Buratti (1888-1949), appena nominato da Mussolini presidente dell’Ente Tessile Nazionale. Fu lui nel 1937 a far ricostruire a tempo di record il nuovo castello, che in realtà non era altro che una bella villa ispirata ai criteri dell’architettura neo-medievale ancora di moda in quegli anni. Influente com’era, l’anno dopo, quando avvenne il recupero dei resti del vescovo Lombardo, Buratti ottenne di farli depositare nel “suo” castello, con grandi onori e pubblicità

A torto o a ragione, sulla piccola urna fu posta una pietra bianca, ritenuta un ultimo resto del magnifico sarcofago protagonista del miracolo dell’impossibilità dello spostamento della salma.

Ed ecco che a suggello della leggenda giunsero il fulmine globulare e l’articolo pubblicato su di esso da Il Popolo biellese del 16 giugno 1941. Sulla stessa testata lo storico Pietro Torrione aveva scritto più volte della “rinascita” della storia di Lombardo della Torre grazie alla munificenza di Buratti.

Fu un omaggio forse più indirizzato dal giornale locale al nobile e padrone delle filature, all’alto funzionario di regime, il conte Vittorio Buratti, e non tanto al vescovo feudatario del XIV secolo.

Buratti fu anche l’ultimo proprietario del “castello”. Dal 1989 la villa è di proprietà pubblica ed ospita eventi e turisti. Sulla home page del suo sito, figura una ricca messa di leggende antiche o presunte tali in cui, ahinoi, si direbbe però mancare quella del fulmine globulare “mirato” del giugno 1941. Di Lombardo, della pietra bianca posta da Buratti a far da bersaglio per il fulmine globulare, non resta gran ricordo.

Sic transit gloria mundi.

Immagine: “Globe of Fire Descending into a Room” in “The Aerial World,” G. Hartwig, 1886. Da Wikimedia Commons, pubblico dominio