27 Aprile 2024
Giandujotto scettico

Massimo d’Azeglio e il fantasma che lo ferì

Giandujotto scettico n° 29 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (17/01/2019)

Nel 1855 Massimo d’Azeglio (1798-1866) aveva lasciato l’attività pubblica (era stato primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852) e si era ritirato nel suo palazzo nel centro di Torino dopo aver suggerito a Vittorio Emanuele II di affidare il governo a Camillo Benso di Cavour.

Fu in questo periodo che il celebre politico sabaudo rischiò di morire… a causa di un fantasma!

Mentre sul piano politico imperversavano le polemiche per il sostegno dei piemontesi all’intervento anti-russo nella Guerra di Crimea e alla legge sulla soppressione dei conventi, d’Azeglio incorse in un incidente davvero insolito che ha attirato l’attenzione del Giandujotto scettico.

A raccontare la storia fu lui stesso in una lettera del 20 luglio 1855 indirizzata alla moglie, Luisa Blondel, attraverso la quale era imparentato con Manzoni. La missiva sarebbe stata poi raccolta insieme ad altre, nel 1870, in uno dei primi frammenti del suo copioso epistolario.

Come si svolsero i fatti? In quel periodo d’Azeglio si trovava in provincia di Cuneo, presso la Certosa di Pesio, dov’era andato rinunciando al più consueto viaggio in Toscana, perché in quella regione imperversava un’epidemia di colera. Una lapide commemorativa posta sotto i portici che costeggiano il giardino ricorda ancora adesso l’augusta visita (La sentinella delle Alpi, Cuneo, 6 giugno 1884).

La struttura, costruita dai monaci certosini nel XII secolo e poi caduta in disuso in seguito agli editti napoleonici, nel 1840 era stata acquistata dall’imprenditore locale Giuseppe Avena, che l’aveva ristrutturata e trasformata in uno stabilimento idroterapico. Nel complesso sono tuttora visibili le vasche in cui i pazienti speravano di guarire le più svariate affezioni con l’alternarsi di bagni caldi e freddi. Tra i più importanti frequentatori della Certosa ci furono Cavour, Giolitti e la principessa Maria Clotilde di Savoia.

Insomma, nel Piemonte di metà Ottocento si trattava di un posto alla moda.

Nel luglio 1855 d’Azeglio si trovava a Chiusa di Pesio (Cuneo) per accompagnare un amico di vecchia data, un veneto fuoriuscito da quella regione ancora sotto dominazione austriaca. Si chiamava Giuseppe Miani ed era descritto in uno scambio di lettere fra lo stesso d’Azeglio e la figlia come persona “compiacente e di finissimo gusto”. In quel periodo però l’uomo se la passava maluccio.

Il politico scriveva infatti alla moglie:

Sono alla Certosa di Pesio, stabilimento idropatico, da dieci giorni, col povero Miani, ch’è in pessimo stato. Non può più né digerire, né nutrirsi, se non malamente. Ha continui dolori di stomaco, ed è ridotto un’ombra; pare affezione al midollo spinale. Qualche progresso sembra ci sia, ma non ne siam fuori: son venuto, per non lasciarlo solo, ché non sarebbe il caso; e, poiché son qui, anch’io idropatizzo.

Nella stessa lettera, però, l’uomo raccontava anche ”un’avventura” capitatagli quattro giorni prima, che gli aveva fatto rischiare di finire “come Belisario”. Il riferimento era a Flavio Belisario, generale bizantino del VI secolo che servì sotto l’imperatore d’oriente Giustiniano I il Grande. Nonostante gli storici considerino la storia assolutamente apocrifa, una leggenda medioevale raccontava che l’uomo, dopo aver conseguito innumerevoli vittorie in ogni angolo della terra, sarebbe stato fatto accecare dall’imperatore e costretto a mendicare presso il Palazzo di Lauso al grido di date un obolo al comandante Belisario, che la sorte rese famoso ma che ora è stato accecato per invidia.

Il rischio che d’Azeglio finisse accecato era da attribuirsi ad un altro nobile ospite della certosa, Ernesto Balbo Bertone di Sambuy, all’epoca diciottenne.

Forse per ingannare il tempo, il giovane si travestiva da fantasma e andava in giro per il giardino della struttura a spaventare i pazienti dello stabilimento (“per chiasso”, scriverà d’Azeglio). Adesso la cosa può suonare ridicola, soprattutto se si pensa che la maschera consisteva in un lenzuolo e in una lanterna a base di sali e alcool. Probabilmente se vedessimo una scena del genere in tempi moderni scoppieremmo a ridere. Ma, come abbiamo notato più volte anche in questa rubrica, nell’Ottocento e sino a metà del Ventesimo secolo (quando i fantasmi furono sostituiti in larga misura dai “marziani”), simili “apparizioni” non erano per nulla inusuali, e incutevano terrore.

Pochi anni prima del nostro episodio le sorelle Kate e Margaret Fox avevano fondato lo spiritismo, un’enorme mania collettiva che si era estesa in poco tempo anche all’Europa. I giornali erano pieni di discussioni sul tema, di presunti poltergeist, di relazioni su presunti fenomeni paranormali legate ai fantasmi. La borghesia frequentava in massa i gabinetti medianici, dove gli “ectoplasmi” si manifestavano in forma corporea e tangibile (generalmente si trattava di complici del medium, opportunamente mascherati). In più, il cinema non aveva ancora sostituito le popolarissime fantasmagorie, spettacoli horror, a volte itineranti, a base di scheletri e spiriti messi in scena tramite lanterne magiche.

Insomma, alla figura del defunto con lenzuolo era legato un forte immaginario collettivo che burloni e malintenzionati sfruttavano per gli scopi più vari. Uomini e donne si travestivano da spettri o inscenavano manifestazioni spiritiche per spaventare conoscenti o semplici passanti, per farsi beffe dei credenti nella nuova “religione” delle sorelle Fox, per commettere furti o per molestare le donne. Queste azioni potevano sfociare in risse, cacce al fantasma, assembramenti di centinaia di persone, sgomberi della polizia o perfino in omicidi. La nostra rubrica sta via via documentando parecchie di queste vicende.

Altrettanto gravi avrebbero potuto essere le conseguenze per lo scherzo messo in atto alla Certosa di Pesio. D’Azeglio così raccontava alla moglie:

Il giovane Sambuy […] si mise un gran lenzuolo, salì sui trampoli, e si mise al collo un recipiente d’acquavite e sale accesi: a un tratto gli prese fuoco il lenzuolo: mi gettai per ispegnerlo, e invece mi versò sul viso il suo recipiente, e fu il caso di dire “Je n’y vis que du feu” (Non ho visto che fuoco, N.d.R.). Gli occhi son salvi, ch’è l’essenziale. Sono stato undici ore di seguito a lavarmi d’acqua, poi mi venne la febbre, ma dopo un giorno è passata, e ora sto bene salvo capelli, ciglia, baffi, pelle d’una metà del viso, che ebbero la sorte di Troia. L’ho avuta per un tozzo di pane, ché, certo, per un otto secondi ho avuto tutto il capo acceso. Ci vorrà ora una settimana, per far cader l’èscara, e poi sarà finito.

Sì, l’ossessione collettiva per i fantasmi avrebbe potuto costare cara al politico piemontese. Ma tutto sommato andò bene. In una lettera successiva, il 14 agosto 1855, l’ex primo ministro scriveva alla moglie:

Mi rincresce che stii in pena ancora per la mia pelle. Ti dirò che son guarito, molto più presto di quel che credeva il medico: c’è rimasto i segni, è certo se c’era des beaux restes, (delle bellezze residue, N.d.R.) ho paura che non ci siano più. Ma pazienza; l’essenziale è che ci vedo, e che non mi duole niente; a poco a poco la pelle tornerà come prima. Ti ringrazio tuttavia del pensiero, e del balsamo; ma non occorre per questa volta.

Anche al “fantasma”, l’adolescente Ernesto di Sambuy, comunque non andò male. Dimenticate le intemperanze giovanili, frequentò il Collège Saint Michel di Bruxelles e successivamente fece carriera, arrivando nel 1900 alla carica di vicepresidente del Senato del Regno. Aveva iniziato con la politica locale: fu dapprima sovrintendente ai giardini pubblici di Torino, poi consigliere comunale a Chieri e a Torino, poi in quest’ultima città assessore ai lavori pubblici. Infine sindaco della città, tra il 1883 e 1886. A lui è intitolato il giardino di piazza Carlo Felice, che contiene anche una statua alla sua memoria.

Non molti ex-fantasmi possono vantare un tale onore.

Immagine: Ritratto di Massimo d’Azeglio, dipinto di Francesco Hayez (1791–1882), da Wikimedia Commons, pubblico dominio