19 Aprile 2024
I segreti dei Serial Killer

I segreti dei Serial Killer: il mostro di Roma

Se un serial killer non viene mai identificato e catturato, come nel caso del Fantasma di Texarkana o del nostrano Mostro di Firenze, si tratta sempre di una tragedia: ci sono vittime che non ricevono giustizia, famiglie straziate che non trovano pace, inquirenti che passano anni della propria vita a cercare la verità e, talvolta, persone innocenti che vengono macchiate dall’ombra del dubbio e del sospetto. Infine, il colpevole mai trovato può liberamente agire, facendo ancora del male senza essere punito per i suoi crimini. Ciascuno di questi scenari da incubo si è avverato nel caso del cosiddetto Mostro di Roma, una scia di delitti irrisolti che ha colpito la Capitale, nei primi anni del Ventennio fascista.

Il 31 marzo 1924 avviene un episodio inquietante nei giardini di Piazza Cavour, a Roma: una bambina, Emma Giacobini, di appena quattro anni, subisce un rapimento da parte di un uomo sconosciuto che approfitta della distrazione della sua bambinaia, mentre la piccola giocava in piazza col fratellino. Emma scompare, viene presumibilmente vista insieme a un uomo distinto ed elegante che le compra dei dolci, che si comporta con lei come fosse un parente. Alcune ore dopo il rapimento viene ritrovata in zona Monte Mario, davanti a una trattoria, in lacrime e con i vestiti a brandelli. Ha un fazzoletto colorato non suo legato strettamente intorno al collo. In ospedale vengono riscontrati segni di abusi sessuali e lesioni, non si trova traccia di sperma.[1]

Questo episodio è solo il preludio di un orrore inimmaginabile.

La sera del 4 giugno, in via del Gonfalone, Bianca Carlieri, di quattro anni, scompare nel nulla.

Verrà trovata la mattina dopo: la piccola è stata uccisa per strangolamento e violentata. Roma è sconvolta da un crimine così atroce, ma le indagini non trovano nessun possibile colpevole.

Il 25 novembre Rosina Pelli, di quattro anni, subisce la stessa sorte di Bianca; viene ritrovato il suo corpo martoriato vicino a una fornace sempre in zona Monte Mario. Rosina ha subito lacerazioni ai genitali e al retto, anche se non vengono trovate tracce di sperma. Accanto al corpo viene ritrovato un asciugamano (o un fazzoletto) con le iniziali ricamate, come era in uso allora: R.L.

Raccogliendo diverse descrizioni di testimoni che hanno visto un uomo insieme a Rosina, emerge una sorta di identikit: il rapitore sarebbe un uomo pallido, alto e distinto, un po’ anziano, con dei baffetti bianchi o biondo chiaro piuttosto fini, magro e con le guance infossate, scarne. Avrebbe inoltre un accento straniero. Le autorità scatenano una caccia all’uomo, senza trovare nulla di concreto. Per alcuni mesi non ci sono nuovi delitti, ma la calma è solo apparente.

Il 30 maggio 1925 scompare Elsa Berni, di sei anni, mentre si sta recando in via Porta Castello a prendere acqua da una fontana. Anche Elsa viene ritrovata strangolata e stuprata dopo la morte. Una piccola amica di Elsa, Anna, ha assistito al rapimento e fornisce la consueta descrizione dell’uomo: alto, coi baffetti chiari, occhiali sottili e metallici, cappello nero floscio.

La tensione è alle stelle, i giornali invitano a fornire quante più informazioni possibili:

“L’orrenda fine di Elsa Berni- Un avviso alla cittadinanza. […] Si tratta di scovare un mostro nefando che può commettere altri atroci delitti, per cui tutti indistintamente debbono sentire il dovere di coadiuvare ed agevolare l’opera della polizia.”[2]

Il 26 agosto dello stesso anno, Roma piange ancora una piccola vittima, Celeste Tagliaferri, di un anno e mezzo. Per questo delitto, l’uomo che ormai la stampa descrive come Il Mostro, sceglie di cambiare metodo di cattura: ha rischiato il linciaggio eseguendo i rapimenti in strada, e rischia ancora di più decidendo di rapire Celeste nel sonno, direttamente da casa sua, un’abitazione popolare. Le ricerche iniziano immediatamente, si pensa subito al peggio. La piccola viene trovata poche ore dopo, ancora viva ma mortalmente ferita. Attorno al collo ha stretto un fazzoletto, ha alcune ferite sul ventre, vicino ai genitali, molto gravi. Secondo alcune fonti, Celeste sarebbe morta poche ore dopo il ritrovamento mentre, secondo altre, sarebbe sopravvissuta all’aggressione.[3]

Il 12 febbraio 1926 Elvira Coletti, sei anni, viene rapita vicino casa da un uomo alto ed elegante, che abusa di lei, ma Elvira riesce a scappare.

Il 12 marzo 1927 Armanda Leonardi, sei anni, viene rapita mentre sta giocando appena fuori casa. L’uomo che la porta via è alto, elegante, vestito di nero, compreso il suo ombrello. Il giorno dopo Armanda viene trovata nei pressi dell’Aventino, con le consuete ferite, violentata e uccisa. Secondo alcune fonti, il Mostro avrebbe già tentato di rapirla il 4 giugno 1924, lo stesso giorno del sequestro e omicidio di Bianca. La piccola Armanda, allora di appena due anni, si sarebbe difesa con tutte le sue forze riuscendo a fuggire. Se fosse così, significherebbe che il suo mancato rapitore non si sarebbe dimenticato di lei, avrebbe ritrovato in qualche modo la coraggiosa Armanda sfuggita anni prima.[4]

Dopo l’omicidio di Armanda viene istituita da Mussolini una ricompensa di cinquantamila lire per chiunque possa portare alla cattura del responsabile; vengono inoltre promesse promozioni per merito straordinario agli agenti che avessero arrestato l’omicida.[5]

Il Mostro sta diventando sempre più audace, pianificatore e sfacciato, non fallisce più e non teme di correre grossi rischi.

Roma sembra impazzita, le forze dell’ordine lavorano senza sosta: molti uomini vengono arrestati, interrogati, ma non si approda a nulla; diverse persone considerate in qualche modo “sospette” rischiano il linciaggio. Un uomo, il vetturino Amedeo Sterbini, arriva al suicidio per la vergogna di essere sospettato dei delitti da parte delle persone del suo quartiere.[6]

La fine dell’incubo?

Finalmente giunge agli inquirenti una pista che non sembra priva di fondamento: il proprietario di una trattoria, Giovanni Massacesi, afferma di aver visto un uomo in compagnia di una bambina che secondo lui somigliava ad Armanda. L’uomo aveva una ferita sul collo; il signor Massacesi ne fornisce una sommaria descrizione e lo sconosciuto viene identificato come Gino Girolimoni, uno scapolo quarantenne, nato nell’ottobre del 1889, di bell’aspetto, che si guadagna un discreto stipendio procurando clienti a compagnie di assicurazioni e studi legali. Ha un’auto di proprietà e diversi appartamenti. Le sue origini sono tuttavia umili, ed è un figlio illegittimo. Ha un passato come bersagliere, decorato in Libia. Viene descritto come un uomo che ama piacere agli altri, in particolare alle donne.

Gli indizi contro di lui, o meglio, gli elementi sospetti iniziano ad emergere uno dopo l’altro: è stato visto nell’atto di regalare una caramella a una ragazzina dodicenne, mentre le accarezzava la testa. Un ex commilitone racconta di averlo visto coi propri occhi abusare di una bambina.

Ha dimorato in un quartiere vicino alle zone dei delitti. È descritto come scaltro nel seminare i pedinamenti, abile nel travestimento e nella menzogna. Un “vero tipo di degenerato”, definito dai giornali “martirizzatore di bimbe”, viene catturato in pompa magna dalle forze dell’ordine del neonato regime fascista, ponendo fine all’incubo del Mostro di Roma:

“Le incessanti indagini per la scoperta dell’autore degli assassinii di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente, ma tenacemente, sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo.”[7]

Caso chiuso quindi. Non ci sono nuovi delitti, a riprova della legittimità dell’arresto di Girolimoni. L’uomo però non assomiglia affatto ai numerosi e coerenti identikit, ma in fondo la sua machiavellica abilità nel travestimento potrebbe aver confuso i testimoni. Si mormora che perfino in Vaticano ci sia soddisfazione per questo arresto, poiché tra i nomi dei sospettati erano comparsi quelli di alcune guardie svizzere.

Passa un anno e l’otto marzo 1928 Girolimoni viene assolto con formula piena e scarcerato, notizia che non verrà sbandierata dalla stampa, a differenza del momento della cattura. Gino viene dichiarato estraneo ai fatti. Ma le prove, le testimonianze, i pedinamenti?

Un castello di carte

La testimonianza del proprietario dell’osteria, la prima che ha portato all’arresto di Girolimoni, era stata riportata molte volte dalla stampa, e questo ha fatto sì che il signor Domenico Marinutti la leggesse e si riconoscesse nel misterioso uomo che girava sospettosamente con una bambina. Domenico era nell’osteria con la figlia quella sera e aveva la ferita sul collo descritta da Massacesi. Il commilitone che aveva accusato Gino dello stupro di una bambina ammette che l’episodio non era mai avvenuto, ma che aveva mentito per via di vecchi rancori nei confronti dell’uomo.

La ragazzina dodicenne a cui Gino aveva regalato una caramella lavorava come servetta presso una donna sposata che Girolimoni corteggiava. L’uomo voleva, attraverso la bambina, far avere dei messaggi a questa donna: Gino non ne ha parlato subito per non metterla in imbarazzo.

Infine, al momento del delitto di Armanda, il “grande sospettato” era fuori Roma.

Le “prove irrefragabili” trovate dagli inquirenti crollano una dopo l’altra. È evidente che molti testimoni non stanno riferendo fatti attendibili, che le autorità hanno forzato alcuni elementi per farli combaciare, escludendo quelli incompatibili con la colpevolezza, che il regime fa pressioni enormi per la conclusione delle indagini.

La psicologia sociale ha raccontato con molti esperimenti il meccanismo del capro espiatorio, e il caso Girolimoni ne è un perfetto e tragico esempio nella vita reale.

L’uomo è finalmente libero, ma la sua vita benestante e spensierata di prima non sarebbe più tornata. Gino morirà nel 1961, in povertà e perseguitato dal sospetto e dal dubbio. Egli stesso ha raccontato che il suo solo desiderio sarebbe stato essere dimenticato, ma che con un processo così infamante e con un nome così insolito come Girolimoni sarebbe stata una difficile impresa.

Ma davvero non c’è mai stato nessun altro possibile indiziato? In realtà c’è eccome. Il caso del Mostro di Roma è stato sviscerato, con animo libero da pregiudizi e un fiuto da profiler moderno, dal commissario Giuseppe Dosi, nato nel 1891, con una lunga esperienza nell’investigazione: cerca di usare il metodo scientifico, non sopporta le pressioni mediatiche e politiche. Per Dosi è evidente che Girolimoni sia innocente e lo pensa anche dopo il suo arresto.

Riesce invece a identificare un sospettato assai più compatibile con le descrizioni del responsabile dei delitti: il reverendo anglicano Ralph Lyonel Brydges, nato nel Regno Unito nel 1856. L’aspetto descritto coerentemente da tanti testimoni diversi corrisponde, così come l’età piuttosto avanzata, l’accento straniero e le iniziali trovate sull’asciugamano rinvenuto accanto a Rosina Pelli. Anche altri oggetti trovati accanto ai piccoli cadaveri potrebbero essere riconducibili a lui, come dei frammenti di riviste straniere.

Brydges, che ha passato diversi anni in Italia, ha vissuto a Capri, dove ha collezionato diversi arresti per molestie e violenze ai danni di bambine, da cui era stato assolto per una non meglio specificata “demenza senile”. La moglie del pastore riferisce che era abitudine dell’uomo allontanarsi per passeggiate di molte ore, senza poi dire dove fosse andato. Dosi racconta che sarebbe riuscito ad arrestare di persona Ralph Lyonel Brydges, facendolo scendere da una nave da crociera a Genova. In seguito, il pastore avrebbe subito un internamento di alcuni mesi. Appena possibile, abbandona l’Italia in gran fretta, recandosi in Sudafrica.

Dosi raccoglie e classifica quasi 90 indizi a carico del pastore, che vengono però del tutto ignorati; lo stesso Dosi subisce una sorta di ostracismo per via della sua ostinata ricerca di risposte. Le pressioni del regime, la paura di sbagliare nuovamente indiziato e il timore di accusare un uomo rispettabile, reverendo del clero anglicano, sono fra gli elementi principali che spiegano questa resistenza. Esiste poi una controversia in merito alla correttezza della tesi di Dosi: secondo altri poliziotti il fatto che Brydges non parlasse bene l’italiano e che non avesse un’automobile di proprietà avrebbe reso impossibile eseguire gli omicidi. Il commissario, che verrà trasferito più volte per allontanarlo dalla Capitale, e “messo in pensione” nel 1956, dedicherà tutto il resto della sua vita a indagare ossessivamente sul caso, inviando perfino a Mussolini la sua tesi in Giurisprudenza, dove scrive delle indagini sul Mostro.

Sarà anche a causa di questo clamoroso errore giudiziario che il regime deciderà di imporre pesanti censure alla cronaca nera italiana, che perdureranno fino alla fine della guerra.

Chi è il vero mostro?

Ma chi è Ralph Lyonel Brydges, probabilmente il vero Mostro di Roma?

Alcune informazioni le abbiamo proprio dal lavoro di ricerca di Dosi:

Brydges giunge in Italia nel 1922 con la moglie dopo un soggiorno in Canada e poi a New York, per conto della Chiesa Anglicana. Ricopre il ruolo di cappellano, vive soprattutto tra Capri e Roma. Anche negli Stati Uniti ha avuto guai con la giustizia per via di molestie sessuali su bambine. Quando la Chiesa Anglicana riceve proteste sul suo comportamento provvede, come è stato fatto tante volte anche in ambito cattolico, a spostarlo in un’altra città. Dopo i delitti di Roma ha passato alcuni anni in Sudafrica, dove secondo Dosi avrebbe ucciso altre bambine, così come sarebbe avvenuto anni prima in Svizzera e in Germania.

Pur non essendoci una condanna, se Brydges fosse colpevole sarebbe un esempio di serial killer itinerante, solo parzialmente organizzato, dalla facciata sociale estremamente rispettabile e prestigiosa, con buoni studi alle spalle, ma piuttosto disordinato nell’esecuzione dei delitti: è brutale nei rapimenti che sono sempre violenti, senza una componente “seduttiva” nei confronti delle bambine, lascia indizi sulla sua identità, agisce spesso in pubblico facendosi vedere e identificare da diversi testimoni, si fa scappare alcune vittime. Inoltre, la sua tendenza pedofila è molto nota a chiunque lo abbia conosciuto, avendo molestato bambine in luoghi affollati.[8]

Nonostante tutto ciò, Brydges è morto (probabilmente nel 1946) da uomo libero, senza condanne formali e senza subire indagini accurate, sfruttando in modo abile la sua posizione privilegiata. Girolimoni, invece, non ha avuto possibilità di fuggire all’estero e rifarsi una vita. La sua storia tragica ha ispirato un film del 1972, Girolimoni-il Mostro di Roma, interpretato da Nino Manfredi.

Nemmeno la lingua italiana ha creduto innocente il povero Gino: per molti anni, a Roma e dintorni,

si è usato un modo di dire per definire un uomo perverso, con tendenze pedofile o con una sessualità deviata: “Quello è un Girolimoni!”.

Note:

[1] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2006, pp. 393-402.

[2] “Il Messaggero”, 3 giugno 1925, p. 6.

[3] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2006, pp. 393-402.

[4] C. Wilson, D. Seaman, Il libro nero dei serial killer, Newton Compton, Roma, 2005, pp. 190-194.

[5] “Il Messaggero”, 15 marzo 1927, p. 5.

[6] A.Accorsi, M. Centini, I serial killer, Newton Compton, Roma 2008, pp. 42-47.

[7] Ibidem.

[8] P. De Pasquali, Serial killer in Italia, Franco Angeli, Milano, 2015.

Marianna Cuccuru

Laureata in scienze dell' Educazione, studia da molti anni il fenomeno dei serial killer. Ha tenuto lezioni sul tema presso l'università dell'Insubria e per l'associazione Fidapa di Varese.

8 pensieri riguardo “I segreti dei Serial Killer: il mostro di Roma

  • Si potrebbe dire che il verificarsi di certe nefandezze giustifichi l’ateismo, specie considerando che vengono commesse persino da chi si arroga il diritto di parlare in nome di Dio.
    Naturalmente la questione è più complicata di così, ma a mio avviso l’esistenza del Male viene liquidata spesso troppo semplicisticamente dai credenti.

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  • Caro Paolo,
    io sono atea per cui mi è difficile dare un giudizio obiettivo sulla teodicea cattolica e cristiana in generale. Anche se mi interessa molto la teologia cristiana, la posso studiare solo da semplice spettatrice e in effetti le risposte del Cattolicesimo (sofferenza da vivere come “offerta” al Signore, per condividere la Passione di Cristo, detto in due parole) o dell’Anglicanesimo protestante (Male come segno di predestinazione all’inferno, e anche qui mi esprimo un po’ brutalmente) mi lasciano molto insoddisfatta. Nei casi in cui un religioso approfitta della sua carica per fare del male nel modo più atroce, come gli abusi su minori, ho una teoria strettamente personale, che vorrei condividere con te: chi è un pedofilo sente queste pulsioni fin dall’adolescenza; chi sceglie di metterle in pratica sa che la carriera in un’organizzazione religiosa può rappresentare un’ottima scelta per avere le spalle coperte nel caso si venisse scoperti. Penso che la fede autentica c’entri ben poco.

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    • Certo è plausibile la tua ipotesi, Marianna, poi naturalmente bisognerebbe valutare caso per caso.

      Per quanto riguarda le questioni “metafisiche”, il discorso sarebbe lungo e temo annoierebbe i tuoi lettori; io per primo non mi sento particolarmente in vena per svilupparlo, in questo periodo. Puoi tirare un sospiro di sollievo. 🙂

      Alla prossima.

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      • Ti ringrazio, non temo le discussioni metafisiche, anche se non ne sono all’altezza mi affascinano molto. Spero ci sia occasione di averle dal vivo in una serata Cicap.
        Un saluto,
        Marianna

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    • Mi permetto solo di precisare che la risposta Cattolica alla Teodicea non è quella di offrire la sofferenza a Dio, ma è più legata al libero arbitrio dell’uomo e di Dio. L’offerta della sofferenza a Dio è il modo di dare senso (direzione, finalità) a una sofferenza che c’è, ma che non si cerca…

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  • Cara Marianna, il caso di Girolimoni e del lupo pastore Bridges è uno di quelli emblematici non solo in Criminologia: sconfina nel ruolo stesso della Scienza… quando viene sottomessa alla Politica, non può scoprire la verità. Il caso più “mostruoso” in Criminologia è quello di Andrei Cikatilo. Probabilmente anche Tu, nel Tuo articolo, sei diventata più tifosa che seria analista, omettendo sia le “prove” a discolpa di Bridges (non aveva auto e non parlava l’ Italiano) sia le pressioni che il Governo Inglese fece a suo favore: nessuno stato, allora, voleva questa bolla infamante su un suo cittadino. Anche io comunque, sono ammiratore di Dosi e avrei incarcerato Bridges, col ragionamento, non valido né scientificamente, e tanto meno giuridicamente, che male non avrebbe fatto né a lui né alla Società. Anche un “semplice” pedofilo è un grave pericolo pubblico.

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  • Bene Marianna, aspetto il Tuo inevitabile articolo sul Mostro di Firenze, visto che, (del resto è logico per un membro del CICAP) Ti schieri dalla parte di Massimo Polidoro sull’ innocenza di Pacciani. Se mi porterai delle prove cambierò opinione io, che sono colpevolista. Ma attenzione: non è una prova l’ insufficienza di prove, che avrebbe scagionato anche Bridges. Anzi, l’ averlo bloccato e messo in galera nonostante l’ insufficienza di prove è stato per me il capolavoro di Pier Luigi Vigna.

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  • Caro Aldo,
    mi spiace di aver dato l’idea di essere “tifosa”, non era assolutamente mia intenzione. Il lavoro di Dosi è abbastanza rigoroso, a tratti un po’ ossessivo, ma comunque il caso del Mostro di Roma va considerato un caso ufficialmente irrisolto, anche se non mancano testi scientifici che designano il reverendo come colpevole. Le prove che citi tu, a discolpa di Brydges, le ho riportate, ma sono poco significative secondo me: l’italiano lo parlava, anche se piuttosto male, ma non sarebbe stata necessaria un’ottima dialettica per rapire le bambine, con cui l’assassino al massimo ha scambiato qualche parola. La macchina poi la avevano davvero in pochi all’epoca. Innegabile è comunque l’ostracismo nei confronti di Dosi, come è innegabile il fatto che Bridges fosse un pedofilo recidivo, protetto dalla Chiesa Anglicana. Infine, su Pacciani: non sono affatto innocentista, anzi, era sicuramente coinvolto, ma non penso sia possibile considerare il MDF un caso del tutto chiaro, in cui sia stata fatta giustizia, come dimostra ad esempio la vita drammatica del signor Rontini, dopo l’omicidio della figlia Pia e Claudio Stefanacci. E ti stupirò: non penso che riuscirò mai a scrivere del Mostro di Firenze: un caso così lungo e complesso da perderci la testa.

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