25 Aprile 2024
E leggiti 'sto paper

Come reinterpretare scavi archeologici grazie alle mummie portoghesi…

Ormai è stato detto diverse volte sulle pagine di questa rubrica: l’archeologia è un scienza in veloce evoluzione e le nuove tecniche di analisi rendono spesso obsolete ricerche fatte quaranta o cinquant’anni fa. In parte, questo accade perché siamo in grado di applicare ai resti umani metodologie più precise e dunque possiamo recepire informazioni che erano inimmaginabili. Penso all’analisi del DNA, di quella dei denti o dei sedimenti. In parte,  il nuovo quadro che si sta formando riguardo al passato porta gli studiosi a modificare interpretazioni prima ritenute molto probabili. E più si va indietro nel tempo, più abbiamo bisogno di questo tipo di analisi per sopperire, ad esempio, alla mancanza di fonti scritte.

Partendo dalla scoperta di nuove fotografie prima sconosciute, un nuovo studio, dal titolo Mummification in the Mesolithic: New Approaches to old photo documentation reveal previously unknown mortuary practices in the Sado Valley, Portugal, pubblicato il 3 marzo sull’European Journal of Archaeology ha riesaminato la documentazione di scavo riguardante due siti, Poças de S. Bento e Arapouco, arrivando a conclusioni inaspettate.

I due siti mesolitici furono scavati negli anni ‘60 da un team di archeologi sotto la direzione del Museo Archeologico Nazionale di Lisbona. Furono scoperti più di cento scheletri, due dei quali sono stati datati nel 2021 con il radiocabonio ad una data compresa tra 8150 e 7000 anni fa, e dunque al Mesolitico. La documentazione contenuta in archivio, però, era molto lacunosa. Ad esempio, per il sito di Arapouco non era presente una mappa che indicasse la distribuzione spaziale delle sepolture. Recentemente, uno degli scienziati firmatari dello studio, Joao Luis Cardoso, ha rinvenuto nell’archivio privato dell’archeologo Manuel Farinha dos Santos, morto nel 2001, due rullini fotografici non ancora sviluppati contenenti le foto appartenenti alle campagne di scavo di Arapouco del 1962 e di Poças de S. Bento del 1960. Farinha dos Santos non aveva partecipato direttamente alle ricerche sul campo, ma aveva curato le indagini archeologiche in altri siti della zona nello stesso periodo.

Una volta sviluppate le fotografie, i ricercatori hanno realizzato indagini archeotanatologiche sui resti umani lì ritratti. L’archeotanatologia è un approccio tafonomico (lo studio dei processi che avvengono dopo la morte di un organismo, in particolare quelli relativi alla sua decomposizione) volto a documentare e analizzare i resti umani in contesti archeologici. In particolare viene osservata la posizione spaziale delle ossa con il fine di ricostruire le modalità di deposizione e di decomposizione di un corpo. In base a queste osservazioni si può ad esempio capire se un corpo è stato sepolto in una fossa poi subito riempita di terra, oppure in una cassa o in una camera, se era avvolto in un sudario o meno, in che posizione era il corpo al momento della sepoltura, e così via. In questa occasione l’analisi archeotanatologica è stata effettuata sulle foto di tredici sepolture, otto appartenenti al sito di Arapouco e cinque a quello di Poças de S. Bento.

Purtroppo l’impossibilità di osservare i corpi direttamente, nella loro posizione originale, ha rappresentato un grosso ostacolo per i ricercatori, che non hanno potuto svolgere le indagini in una condizione ottimale. Le fotografie presentano infatti diversi limiti. Molte sono state scattate da una posizione obliqua, elemento che falsa le proporzioni tra gli elementi, alcune parti sono in parziale oscurità, sovraesposte o con un forte contrasto. Inoltre le fotografie sono in bianco e nero, dunque non è possibile ricostruire correttamente i colori originali. In alcuni casi i ricercatori non sono riusciti a compensare questi difetti e le analisi si sono rivelate impossibili. In ogni caso i dati sono stati integrati con la documentazione presente negli archivi del museo, compresi i resti umani conservati in due blocchi di paraffina provenienti da Arapouco.

Per prima cosa, analizzando la posizione nella quale i defunti erano stati deposti, i ricercatori hanno evidenziato alcune differenze tra i due siti. Ad Arapouco erano stati posizionati prevalentemente sulla schiena, mentre a Poças de S. Bento erano stati messi sul fianco. In entrambi i siti le sepolture erano deposizioni primarie (cioè, il corpo era stato sepolto qui per la prima volta e non più spostato) caratterizzate da una posizione rannicchiata del corpo, avvolto forse in un sudario e posizionato in uno stretto pozzetto poi riempito di terra subito dopo la deposizione. Questi dati sono simili a quelli riscontrati in altri siti della regione per lo stesso periodo di tempo.

Due corpi hanno però attirato l’attenzione degli studiosi. Si tratta dell’individuo sconosciuto 3 ARA1962 (da Arapouco) e dell’individuo XII PSB1960 (di Poças de S. Bento). Nel primo caso si sono riscontrate alcune caratteristiche particolari. Durante il periodo nel quale il corpo è rimasto sepolto nella terra non ci sono stati movimenti delle ossa al di fuori del volume occupato originariamente dal corpo, cosa che indica uno spazio pieno. Quando in una tomba scavata nella terra semplice la carne si decompone, i tessuti lasciano uno spazio vuoto, che viene man mano riempito di sedimenti. Al momento della scoperta, dunque, tra un osso e un altro gli archeologi di solito trovano uno strato di terreno là dove prima c’era la carne del defunto. In questo caso lo strato di sedimento era molto sottile, caratteristica che sta ad indicare che la carne presente era già molto ridotta. In più, alcune delle articolazioni più labili, come quelle delle ossa dei piedi, erano intatte, mentre altre, di norma più resistenti, come quelle delle gambe, erano iperflesse.

Tutte queste caratteristiche, secondo gli autori dello studio, sarebbero compatibili con un disseccamento del corpo, fino alla mummificazione, prima della deposizione nella fossa. Il secondo individuo presenta caratteristiche simili e inquadrabili nello stesso scenario, anche se meno chiare.

Il disseccamento naturale di un corpo non è sconosciuto sia in contesti archeologici sia in quelli etnografici, ma perché si verifichi occorre un clima secco, caldo e ventilato, in modo che la perdita di acqua del corpo superi in velocità l’azione dei batteri che lo decompongono. Nel caso del Portogallo, queste condizioni climatiche non potevano essere interamente soddisfatte, dunque i ricercatori hanno proposto l’ipotesi che la mummificazione fosse intenzionale, cioè frutto del lavoro di più individui nell’arco di diverso tempo.

I corpi dei defunti che si intendeva così trattare avrebbero dovuto essere curati per diversi mesi, anche tramite il trattamento con specifiche sostanze e con l’esposizione al vento, preferibilmente su piattaforme che permettessero il drenaggio dei liquidi e avvolti di tessuti in modo da mitigare l’azione degli insetti. Si tenga conto pure che i corpi così trattati sono anche più facili da trasportare, elemento che ha portato all’ipotesi che i diversi gruppi umani della zona utilizzassero alcune aree preferenziali per il seppellimento dei propri defunti. Questo dato sarebbe suffragato dal fatto che in diverse necropoli le tombe più recenti avevano intaccato quelle più antiche, dimostrando l’importanza di uno specifico luogo nelle pratiche funerarie.

Queste sarebbero quindi le prime evidenze della pratica intenzionale della mummificazione ad oggi note per un periodo così antico.

I ricercatori hanno comunque notato che molte delle caratteristiche da loro attribuite alla manipolazione pre-deposizionale del corpo si riscontrano anche in altri contesti attribuiti al Mesolitico europeo, e che, anzi, sono piuttosto comuni. Ulteriori studi sulle vecchie documentazioni di scavo di altri siti e su nuovi contesti che man mano verranno alla luce serviranno per capire se si tratta di casi isolati o di una pratica comune ad altre aree europee.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *