19 Aprile 2024
I segreti dei Serial Killer

I Segreti dei Serial Killer: i semi del male (1/2)

Il concetto di parafilia, ovvero ogni forma di perversione sessuale, può essere definita come una incapacità di incanalare le pulsioni sessuali nel rapporto genitale tra adulti consenzienti. Quando, in altre parole, l’oggetto del desiderio è, in modo stabile e continuativo, qualcosa di inadeguato, come i cadaveri o gli animali (necrofilia, zoofilia) o se esistono circostanze particolari necessarie al raggiungimento del piacere, ad esempio l’esibizionismo, il frotteurismo (piacere ricavato da sfregarsi contro persone non consensuali, di solito in luoghi pubblici) o il masochismo.

Alcune parafilie sono tendenzialmente innocue, come nel caso del feticismo, che sia nei confronti di una parte del corpo delle persone desiderate, oppure della biancheria intima. Talvolta, se l’oggetto della parafilia diventa un’ossessione, può tuttavia portare a condotte illegali, come l’esibizionismo in luoghi pubblici dinanzi a persone non consenzienti, il furto di biancheria o il fatto di spiare persone in momenti di intimità (voyeurismo). [1]

Moltissimi serial killer manifestano, fin da giovani, diverse parafilie. Ad esempio, Jerry Brudos era ossessionato dalle calzature femminili usate, a cui fin da bambino aveva associato un senso di proibito e di eccitazione sessuale, soprattutto per via della repressione attuata dalla madre.

Un altro esempio è il caso di Albert Fish, che ha manifestato un immenso campionario di perversioni, tra cui esibizionismo, cannibalismo a sfondo sessuale, masochismo. Altre parafilie molto frequenti nei seriali sono la necrofilia, il sadismo, il voyeurismo o la pnigofilia, ovvero l’eccitazione legata a un partner che viene soffocato, come nel caso di Jeanne Weber.

Una caratteristica comune a chi ha perversioni anche molto diverse tra loro è una condizione percepita di solitudine e incomunicabilità con l’altro, un timore di essere annientati, inghiottiti dall’altro se venisse vissuto nella sua interezza di essere umano, per cui è necessario “frammentare” l’oggetto desiderato, amandone solo una parte, oppure dedicarsi a oggetti inanimati o a soggetti che non possono opporre resistenza, condizione che vivono anche molti seriali.

In alcuni casi, le parafilie hanno come oggetto persone che non possono essere consenzienti in alcun modo, come nel caso della necrofilia, del voyeurismo e, ovviamente, nel caso della pedofilia, l’attrazione sessuale nei confronti dei bambini.

Questa attrazione può essere provata nei confronti di bambini molto piccoli (infantofilia) o anche nei confronti di ragazzini preadolescenti o appena adolescenti (efebofilia).

Diversi studiosi avallano la “teoria del superamento del trauma”: le parafilie più gravi sono la conseguenza di uno o più eventi traumatici avvenuti durante l’infanzia e trovare un modo per replicare l’evento negativo è necessario alla persona che lo ha subito per proteggersi e depotenziare l’evento stesso, rendendolo controllabile.

Questo meccanismo è alla base del cosiddetto “ciclo di abuso”: in alcuni casi, una persona con desideri pedofili ha subito abusi a sua volta da bambino; replicandoli da adulto assume il controllo del trauma subito, ora nel ruolo dell’abusante e non più della vittima.

Esistono pedofili convinti di amare i bambini, e che la loro violenza sia una forma di amore. Alcuni di essi utilizzano un comportamento gentile e seducente per attirare i minori, facendoli sentire al sicuro, ascoltati e considerati, guadagnando la loro fiducia e in seguito approfittare di loro, mentre altri, dotati di una forte componente sadica, tendono a rapire e a spaventare i bambini, mostrando fin da subito intenzioni violente.[2]

IL BAMBINO TRISTE

Un caso poco noto e profondamente drammatico è quello di Giulio Collalto, che ha avuto un’infanzia estremamente infelice e piena di abusi. Collalto nasce nel 1953 a Roma, da padre ignoto e da una madre sola che lo lascia ben presto in orfanotrofio, dove rimane fino al quattordicesimo anno di età.

L’istituto dove viene abbandonato sarà in futuro al centro di un famigerato caso giudiziario: si tratta del Santa Rita di Grottaferrata, la cui direttrice Maria Diletta Pagliuca, ex madre superiora, verrà condannata, nel 1972, a poco più di quattro anni di galera per gli atroci abusi perpetrati verso i piccoli ospiti dell’istituto. Bastonate, ustioni, privazioni di cibo, umiliazioni di ogni tipo sono all’ordine del giorno in quel posto infernale. Per undici anni Collalto sopporta le torture del Santa Rita, e ne porterà i segni per tutta la vita. Giulio subisce ripetuti traumi psicologici e fisici, e probabilmente sono questi ultimi a far emergere in lui un focolaio epilettico.

Una volta fuori dal Santa Rita per limiti di età, passa da un istituto all’altro, dal manicomio di Mombello al Paolo Pini di Milano. Non è in grado di vivere autonomamente, percepisce una invalidità civile, ha un ritardo mentale importante, ha frequenti crisi epilettiche, ed ha profondi traumi mai affrontati.[3]

Nel 1971 incontra la prima persona positiva nella sua vita, un uomo di nome Amedeo Cervini, che lo prende con sé e gli fa da padre. Giulio gli vuole molto bene, inizia a chiamarlo “zio”. Amedeo comprende che Giulio ha gravi problemi, e provvede a farlo ricoverare diverse volte.

UNA STRANA AMICIZIA

In ospedale, nel 1976, conosce un bambino ricoverato per un intervento, con cui stringe subito un legame, Roberto Auglia. Robertino ha solo dieci anni, Giulio ventitré, ma per quest’ultimo non c’è nulla di morboso in quella amicizia. Anzi, sente il piccolo vicino alle sue sofferenze, poiché anche Robertino è visto dai suoi compagni come strano e diverso, esuberante all’apparenza, ma in realtà introverso e problematico, spesso si sente trascurato e solo.

Si vedono sotto casa del bambino, parlano per ore dei rispettivi problemi, finché l’atteggiamento di Giulio passa da quello di un surrogato di fratello maggiore, tenero e comprensivo, a quello di un vero e proprio molestatore. Inizia a palesare interessi sessuali nei confronti di Robertino, e il bambino reagisce in modo inaspettato per Giulio, ovvero opponendo una forte resistenza alla violenza sessuale. Collalto si arrabbia, perde il controllo, e lo soffoca con un cuscino. [4]

Non è certo se il movente che lo ha portato al delitto sia la mera paura di una possibile denuncia o una immensa rabbia per essere stato rifiutato dalla sola persona che pensava potesse capirlo, amarlo, che sentiva come un suo pari.

Pur avendo un modus operandi piuttosto disorganizzato, subito dopo il delitto Giulio è in grado di mettere in atto una sorta di staging, cioè una messa in scena per simulare un incidente o un suicidio: ripulisce come può, sistema il corpo di Robertino con la testa dentro il forno a gas e apre i fornelli. Inizialmente, gli inquirenti prendono in considerazione non tanto l’ipotesi del suicidio, data la giovane età della vittima, ma quella dell’incidente domestico, ipotesi che regge finché non viene fatta l’autopsia, che naturalmente non rileva alcuna traccia di gas nei polmoni del piccolo, ma che trova invece inequivocabili segni di soffocamento.

Collalto, subito dopo la morte di Roberto, aveva partecipato, mostrandosi prostrato dal dolore, al suo funerale e gli aveva portato dei fiori bianchi, “per un piccolo morto innocente”. Dopo l’autopsia, viene immediatamente arrestato. Si professa estraneo al delitto, tenta il suicidio e viene per questo piantonato in ospedale. Cerca l’aiuto dello “zio” Amedeo, oltre che di un vicino di casa a cui si era molto legato, che chiama “nonno”, per avere assistenza legale.

Viene processato per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza sessuale su minore. La condanna è estremamente lieve, poiché vengono considerate le sue menomazioni mentali che fanno valutare la sua capacità di intendere e di volere come grandemente scemata: sei anni di prigione e tre anni di casa di cura, per omicidio preterintenzionale, con vizio parziale di mente, e viene valutato non socialmente pericoloso.

UNA SECONDA OCCASIONE

Viene fatto un ricorso contro la sentenza, che gli garantisce la scarcerazione dopo poco più di un anno di detenzione. Ricomincia la sua vita sbandata e senza pace: passa dall’ennesimo istituto a una famiglia affidataria di Cremona, a cui si affeziona subito, chiamando “mamma” e “papà” i coniugi che lo accolgono, che lo descrivono “come un bambino”, e spendono parole gentili per lui:

“non sopporta di veder piangere un bambino. In tutti cerca un padre e una madre. […] Gli piace lavorare, rendersi utile”. [5]

I genitori affidatari riferiscono inoltre di un uomo che avrebbe stuprato più volte Giulio nei suoi periodi di vagabondaggio, ma non si hanno notizie più dettagliate di questo fatto.

Collalto inizia a frequentare l’oratorio di Sant’Abbondio, aiuta anche don Spoldi nella gestione dei bambini e sembra andare d’accordo con loro, ma il parroco, senza ulteriori spiegazioni, chiede alla famiglia affidataria di non mandarlo più in oratorio, affermando laconicamente che “non poteva legare con l’ambiente”.

Collalto trova lavoro con una troupe televisiva che deve girare in città uno sceneggiato su Giuseppe Verdi. Giulio è un tuttofare: fa la comparsa, cura il magazzino e fa da custode del materiale di scena. La sartoria della troupe si trova in un sotterraneo di un ospedale dismesso, il “Giovanni XXIII”.

È proprio in questo ambiente che aggredisce la sua seconda vittima, Luca Antoniazzi, di sette anni. Nell’agosto del 1979, attira il bambino, che conosceva di vista per via della sua attività in oratorio, proprio in quel sotterraneo. Si ripete il medesimo schema dell’omicidio di Roberto: Giulio tenta di violentare Luca, il bambino si ribella e viene in seguito soffocato. Anche dopo questo secondo delitto, Collalto cerca di depistare le indagini, occultando molto accuratamente il piccolo cadavere sotto un montacarichi. Due giorni dopo sarà tuttavia ritrovato, grazie al fiuto dei cani poliziotto. Collalto, inchiodato anche grazie alla testimonianza di due costumiste che lo hanno visto aggirarsi in mutande nei sotterranei con aria sconvolta, stavolta non si professa innocente, ma ammette subito le sue responsabilità.

Il procuratore Righi di Cremona denuncia le gravissime conseguenze di una pena così mite per il delitto Auglia, oltre alla superficiale valutazione della non pericolosità sociale di un soggetto come Collalto.

Nel dicembre del 1981 viene condannato dalla Corte d’Assise all’ergastolo per omicidio volontario, ignorando le perizie che lo descrivono come seminfermo di mente, considerandolo quindi completamente padrone delle sue azioni e in grado di distinguere il bene dal male. [6]

PREDESTINATI?

Di questa storia colpisce molto la continua sequenza di eventi drammatici, in una vita estremamente sfortunata, in cui solo raramente intervengono figure positive e generose, che però non bastano a cambiare le sorti della vita di Giulio.

Per quanto sia chiaro che esista il “vizio parziale di mente” riscontrato da diversi psichiatri che hanno stilato le varie perizie su Collalto, ci sono altresì diversi indizi che mostrano una certa abilità di Giulio nell’attirare i bambini in luoghi isolati, nello stringere un rapporto con loro, guadagnando la loro fiducia e una discreta capacità di depistare le indagini, occultando il corpo o alterando la scena del crimine. Si potrebbe pensare che una vita come quella di Giulio porti inevitabilmente al delitto, ma in realtà esistono moltissime testimonianze di persone incredibilmente sventurate, apparentemente con esistenze senza speranza, vittime di abusi sessuali o psicologici, che riescono a trasformare il loro dolore e gli orrori subiti in qualcosa di positivo, cercando ad esempio di aiutare altre vittime, facendo nascere dalla sofferenza una speranza per il futuro, poiché il determinismo non fa parte delle vicende umane.

Senza dubbio le facoltà di scelta di una vita diversa sono state, per Giulio Collalto, estremamente ridotte, anche se non è mai semplice giudicare un elemento del genere dall’esterno.

Giulio evidentemente non ha mai avuto un adeguato supporto psichiatrico, cercava la famiglia felice che non aveva mai avuto in tutte le persone di buon cuore che mostrassero un po’ di umanità, ma non è mai riuscito a “rinascere” grazie a queste ultime, non è riuscito a scegliere di non fare del male, facendosi vincere dai suoi demoni.

NOTE:
[1] V. Mastronardi, R. De Luca, I serial killer, Newton Compton, Roma, 2006, pp. 220-222.
[2] Ibidem, p. 223.
[3] C. Lucarelli, M. Picozzi, Sex crimes, Mondadori, Milano, 2011, pp. 153-156.
[4] A. Accorsi, M. Centini, I serial killer, Newton Compton, Roma, 2005, pp. 138-142.
[5] Ibidem.
[6] C. Lucarelli, M. Picozzi, Sex crimes, Mondadori, Milano 2011, pp. 153-156.

Nel prossimo articolo verrà descritto il caso di Luigi Chiatti, il “Mostro di Foligno”.

Marianna Cuccuru

Laureata in scienze dell' Educazione, studia da molti anni il fenomeno dei serial killer. Ha tenuto lezioni sul tema presso l'università dell'Insubria e per l'associazione Fidapa di Varese.

8 pensieri riguardo “I Segreti dei Serial Killer: i semi del male (1/2)

  • “Giulio evidentemente non ha mai avuto un adeguato supporto psichiatrico” . C’è, per caso, qualcuno che lo ha avuto, nella nostra Italia, senza doverlo pagare di tasca propria? Scusa, Marianna, è un bell’articolo, pieno, forse troppo, di spunti interessanti da discutere. Vediamo con Ciatti Se ci si riesce.

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    • @Aldo Grano, il vero problema è che anche chi vuole pagarlo di tasca propria, spesso non trova alcun supporto (almeno non quello evidence based).
      Senza dimenticare che l’ostacolo principale è dato da una legge anacronistica (la 180/78) perché in contrasto con le scoperte delle moderne neuroscienze (sintomi egosintonici; anosognosia; etc. etc.) che non permette di curare chi ritiene di non averne bisogno di alcun aiuto… Con tutto ciò che ne consegue!

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  • Ciao Aldo, sappi che il più grande complimento che tu mi possa fare è dire che i miei articoli siano fonte di spunti di discussione o riflessione, altrimenti sarebbero racconti sterili. Spero che avvenga lo stesso per l’articolo su Luigi Chiatti.
    Un saluto,
    Marianna

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  • In questa serie di articoli apprezzo molto il tentativo di capire sempre cosa si cela dietro l’apparenza del “mostro” (per usare una comune etichetta giornalistica), come un essere umano può arrivare a commettere certi atti.
    Mi chiedevo se da parte tua, Marianna, c’è un invito a riflettere su ciò che ciascuno di noi può diventare, date determinate condizioni; e, anche senza giungere agli estremi che racconti, quali caratteristiche psicologiche possono comunque essere presenti in noi, più o meno latenti.

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    • Caro Paolo,
      in effetti mi ha sempre affascinato cercare di andare oltre alle banali e riduttive spiegazioni che spesso si sentono per spiegare delitti estremamente complessi (ad es. la suora di Chiavenna uccisa “per noia” o Maso che avrebbe ucciso solo per soldi) e scavare nel profondo nella mente umana, comprese le menti più perverse ed estreme. L’uomo è capace di azioni sublimi, eroiche, ma anche di atti atroci, e trovo la natura umana (non solo criminale) affascinante proprio per queste contraddizioni. Non ho ancora trovato le risposte che cerco e penso che non smetterò mai di cercarle.
      Un saluto,
      Marianna

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  • Trovo il tuo modo di scrivere veloce ma privo di affanno, senza fronzoli ma ricco di particolari sostanziosi… “Vivaldiano” direi! Sempre documentato e sempre volto a scoprire le mille chiavi di lettura delle voragini dell’animo umano, cercando di capirle e spiegarle.
    Attendo il tuo prossimo lavoro!

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    • Ti ringrazio tanto Paolo!
      Un abbraccio,
      Marianna

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