22 Aprile 2024
Approfondimenti

La Sindrome di Stoccolma: cosa ne sappiamo davvero

Articolo di Livia Galluzzi

Quando tutto è cominciato

Stoccolma, 23 Agosto 1973. Nella Kreditbanken in piazza Norrmalmstorg irrompe un uomo armato di pistola mitragliatrice che inizia a sparare contro la guardia di turno e prende in ostaggio quattro persone. L’uomo si chiama Jan-Erik Olson, ha 32 anni ed è appena evaso dal carcere della città, dove era detenuto per furto. Qualche ora dopo viene raggiunto da un compagno di prigione, di cui aveva ottenuto la liberazione. Le trattative con i negoziatori dureranno fino al 28 agosto, giorno in cui le forze dell’ordine riusciranno ad irrompere nel vano di circa 43 m2 in cui gli ostaggi erano rinchiusi. Durante gli interrogatori, le vittime esprimeranno vicinanza verso i rapitori e diffidenza nei confronti della polizia, destabilizzando così i media, la cittadinanza e numerosi esperti in ambito forense. Per definire questa inaspettata reazione, lo psichiatra e criminologo Nils Bejerot conia il termine «sindrome di Norrmalmstorg», poi modificato in «sindrome di Stoccolma»1. Il concetto viene poi ampliato dallo psichiatra Frank Ochberg, secondo il quale può essere caratterizzato da tre «atteggiamenti» nei rapporti interpersonali: «sentimenti positivi da parte di un ostaggio verso un rapitore, sentimenti positivi reciproci da parte del rapitore verso l’ostaggio, e sentimenti negativi da parte di entrambi nei confronti delle autorità esterne». (trad. it).

A partire dalla rapina di piazza Norrmalmstorg, la sindrome di Stoccolma è stata studiata da molti autori ed è stata riscontrata, secondo i media, in molti altri casi di rapimento, ostaggio e violenza.
Considerati i ricorrenti riferimenti mediatici a questa sindrome ed i numerosi esperti che se ne sono occupati, verrebbe da pensare che la sindrome di Stoccolma sia un fenomeno certo e che la comunità scientifica abbia unanimemente riconosciuto questo quadro clinico. Ma le cose stanno veramente così? In realtà, la questione è più complicata.

Sindrome o artefatto?

Innanzitutto, la sindrome di Stoccolma non figura in nessun sistema di classificazione internazionale, come il DSM-5 dell’American Psychiatric Association e l’ICD-11 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Al momento, quindi, non esistono criteri diagnostici scientificamente riconosciuti per questo quadro. Inoltre, non vi sono strumenti diagnostici validati per la valutazione della sindrome di Stoccolma nelle vittime di rapimento. Nonostante ciò, la sola assenza di criteri validati non è sufficiente a concludere che una condizione clinica non esista, perché potrebbe essere comunque riscontrata nella letteratura scientifica.

In una review sistematica del 2008, gli autori evidenziano una carenza di ricerche su questo fenomeno: la maggior parte della letteratura disponibile, infatti, si occupa di casi singoli in cui vengono fornite poche informazioni sulle diagnosi e sui trattamenti effettuati. In particolare, scarseggiano le ricerche peer-reviewed, ossia quegli studi che, prima della pubblicazione, sono stati revisionati da esperti del settore per attestarne la rilevanza e la qualità metodologica. Tale mancanza di studi adeguati può essere dovuta alla rarità degli eventi di rapimento ed ostaggio, all’impossibilità di realizzare studi sistematici ed alla difficoltà di monitorare le vittime dopo la liberazione. Inoltre, le valutazioni dei pazienti risultano non standardizzate, ovvero non sono state attuate procedure basate su parametri comuni, chiari e costanti. Ciò contribuisce a rendere la sindrome di Stoccolma un fenomeno ambiguo e poco chiaro.

Lo scenario fin qui descritto potrebbe far insorgere un interrogativo: se la sindrome di Stoccolma non è un fenomeno riconosciuto, è quindi semplicemente un «artefatto» che permette alla società di semplificare i comportamenti di rapitore ed ostaggio trasformandoli in un’«entità maneggevole» (Namnyak et al., 2008, p. 9, trad. it.)? Per rispondere a questa domanda, gli autori hanno preso in esame diversi articoli di cronaca in cui si è parlato della sindrome di Stoccolma, riscontrando un’assenza di fonti primarie (come, ad esempio, valutazioni cliniche) che giustificassero una simile “diagnosi”. Inoltre, il termine è stato utilizzato per descrivere situazioni anche molto diverse da quelle definite dai criteri di Ochberg. Gli autori della review sottolineano che la società è affascinata dal mistero delle origini delle malattie mentali e, poiché le definizioni della psichiatria possono essere precisate e modificate nel corso del tempo, i media hanno carta bianca su termini non ancora validati come «sindrome di Stoccolma».

Parlando più in generale delle relazioni tra ostaggi e rapitori, risulta difficile raccogliere evidenze scientifiche perché i casi di rapimento sono relativamente rari e possono avvenire in circostanze molto diverse tra loro. E in effetti, alla nostra domanda sulla natura di tali relazioni, Ochberg ha chiaramente evidenziato che: «Sappiamo che possono verificarsi “legami traumatici”. Non sappiamo precisamente perché o quando. Gli studi giungono a diverse conclusioni in merito ai fattori causali ed ai rimedi» (trad. it.).

Nel manuale del 2019 «Kidnapping and Violence – New Research and Clinical Perspectives», il ricercatore Stephen Morewitz sottolinea che le situazioni di rapimento possono differire in molteplici aspetti (periodo storico, contesto culturale, caratteristiche e background delle persone coinvolte, modalità del rapimento e della liberazione, durata della prigionia, interventi ricevuti, follow-up., ecc.)2. In generale, in diverse ricerche viene osservato che i casi di rapimento maggiormente pubblicizzati a livello mediatico differiscono in maniera considerevole dai casi più frequenti: ad esempio, le situazioni più comuni di rapimento sono quelle in cui rapitore ed ostaggio già si conoscevano, come nel caso di familiari o partner3.

Gli effetti psicologici noti del trauma

Sebbene la sindrome di Stoccolma non sia un fenomeno riconosciuto dalla comunità scientifica, vi sono comunque delle evidenze sugli effetti psicologici di situazioni stressanti come il rapimento e l’essere in ostaggio? Anche in questo caso, la letteratura risulta limitata. Nonostante ciò, in una review di Alexander e Klein del 2009, emerge che l’impatto psicologico di queste esperienze potrebbe essere simile a quello di altri eventi traumatici4. L’American Psychiatric Association definisce gli eventi traumatici come l’«esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale»5 (p. 314) attraverso una o più modalità come l’esperienza diretta, l’assistere direttamente ad un evento traumatico accaduto a terzi, il venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto ad una persona vicina e/o l’esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi di un evento traumatico.

I disturbi che nel DSM-5 vengono espressamente associati ad eventi traumatici, come il rapimento e l’essere presi in ostaggio, sono il disturbo da stress acuto ed il disturbo da stress post-traumatico. Entrambi i quadri possono manifestarsi a qualsiasi età e possono presentare costellazioni di sintomi molto diverse tra loro, tutte comunque accomunate da un disagio significativo o da una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita quotidiana.

I sintomi che possono manifestarsi sono: l’evitamento persistente di stimoli associati all’evento traumatico, come ricordi o situazioni sgradevoli; sintomi intrusivi legati all’evento, come flashback, marcate reazioni fisiologiche o intensa sofferenza psicologica, ricordi, pensieri e sogni spiacevoli ricorrenti; alterazioni dei pensieri o delle emozioni associati all’esperienza traumatica, come l’incapacità di ricordare qualche aspetto dell’evento, pensieri distorti persistenti sulla sua causa o sulle sue conseguenze, stato emotivo negativo e/o incapacità di provare emozioni positive, marcata riduzione dell’interesse o della partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco dagli altri, convinzioni negative continue ed esagerate su se stessi, gli altri o il mondo; alterazioni della reattività a stimoli associati all’evento, come irritabilità, esplosioni di rabbia, comportamento spericolato, ipervigilanza, risposte di allarme esagerate, difficoltà di concentrazione e disturbi del sonno. Il disturbo da stress acuto si può diagnosticare in caso di sintomi che durano da tre giorni ad un mese dall’esposizione all’evento traumatico. Quando i sintomi durano più di un mese, si può parlare di disturbo post-traumatico da stress. Queste condizioni possono associarsi ad altri disturbi, come quelli d’ansia e dissociativi.

Il problema delle diagnosi a distanza

Per diagnosticare i disturbi correlati ad esperienze stressanti e traumatiche esistono diversi strumenti validati6, mentre non vi sono scale riconosciute per la sindrome di Stoccolma.

Ma se gli organi di stampa volessero riportare delle rappresentazioni più fedeli delle persone coinvolte in certi casi di cronaca, non potrebbero semplicemente chiedere a degli esperti di fare delle diagnosi ad hoc? Per effettuare una valutazione psichiatrica o psicologica basata sulle evidenze (ossia che integri le ricerche più recenti con le caratteristiche del paziente) è essenziale che il professionista raccolga numerose informazioni sulla storia e sulle esperienze di vita della persona, anche attraverso strumenti validati ed attentamente selezionati, somministrati e valutati7. Vi è inoltre una questione deontologica. La sezione 7.3 del codice etico dell’American Psychiatric Association, ad esempio, impedisce agli psichiatri di effettuare diagnosi non basate sulla conoscenza diretta del paziente8. In Italia, l’articolo 7 del codice deontologico degli psicologi sottolinea che «lo psicologo […] esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione adeguata ed attendibile»9 – documentazione che, come abbiamo visto, non è sufficiente se ci si limita a considerare solo le narrazioni proposte dai media.

Su questo tema, Ochberg esprime una posizione diversa da quella dei suoi colleghi; quando lo abbiamo sollecitato sul punto, ha infatti affermato: «Molti considerano [l’effettuare diagnosi psicologiche senza parlare direttamente con la persona] non etico e non professionale. […] Nonostante ciò, ho offerto una prospettiva diversa» (trad. it.). Ochberg ritiene infatti che gli psichiatri abbiano il dovere prioritario di aiutare la comunità a comprendere quei comportamenti pubblici che violano le aspettative sociali (come crimini ed atti violenti), e che per fare ciò sia necessario anche esprimere giudizi clinici su notizie di cronaca. In ogni caso, anche se volessimo fare una “diagnosi” di sindrome di Stoccolma basata solo sulle definizioni esistenti (come quella di Ochberg), le informazioni diffuse dalla stampa non sarebbero comunque sufficienti ad effettuare una valutazione.

In conclusione, la sindrome di Stoccolma è un tema ricorrente nei casi di rapimento e di ostaggio presentati dai media. Nonostante ciò, ad oggi questa condizione non è riconosciuta dalla comunità scientifica. Vi sono diversi ostacoli alla raccolta di informazioni attendibili su rapitori e vittime. In assenza di valide fonti primarie – che è possibile raccogliere solo attraverso valutazioni specialistiche adeguate, approfondite e dirette – i media non possono disporre degli elementi necessari ad una rappresentazione fedele dell’esperienza e delle condizioni delle persone coinvolte. Ne consegue, quindi, il rischio di descrivere le vittime di rapimento ed ostaggio in modo fuorviante e parziale.

Nell’immagine in evidenza: gli ostaggi e uno dei rapitori protagonisti del caso fondatore della controversia scientifica sulla Sindrome di Stoccolma, quello verificatosi nella capitale svedese nel 1973.

Note:

1 Namnyak, M., Tufton, N., Szekely, R., Toal, M., Worboys, S., & Sampson, E. L. (2008). Stockholm syndrome: Psychiatric Diagnosis or Urban Myth? Acta Psychiatrica Scandinavica, 117(1), 4–11.

2 Morewitz, S. (2019). Kidnapping and Violence: New Research and Clinical Perspectives. Berlin: Springer.

3 Tillyer, M. S., Tillyer, R., & Kelsay, J. (2015). The nature and influence of the victim-offender relationship in kidnapping incidents. Journal of Criminal Justice, 43(5), 377–385.

4 Alexander, D. A., & Klein, S. (2009). Kidnapping and hostage-taking: a review of effects, coping and resilience. Journal of the Royal Society of Medicine, 102(1), 16–21.

5 American Psychiatric Association. (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (5a ed.). Milano:Raffaello Cortina Editore

6 American Psychological Association. (2020). PTSD Assessment Instruments. Leggibile qui: https://www.apa.org/ptsd-guideline/assessment/

7 Bornstein, R. F. (2017). Evidence-Based Psychological Assessment. Journal of Personality Assessment, 99(4), 435–445.

8 American Psychiatric Association. (2009). The Principles of Medical Ethics with Annotations Especially Applicable to Psychiatry. Washington, DC: American Psychiatric Association.

9 Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi. (2020). Codice deontologico degli psicologi italiani. Leggibile qui: https://www.psy.it/codice-deontologico-degli-psicologi-italiani

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