25 Aprile 2024
Il terzo occhio

La televisione, il 5G e le nuove tecnologie

Sta circolando in queste ore un ritaglio di giornale intitolato La TV a colori è pericolosa? – Pretore sequestra 300 apparecchi. L’immagine è diventata immediatamente virale ed è stata accostata alle recenti polemiche sul 5G. Il discorso sottinteso è: guardate, anche un tempo dilagavano le paure irrazionali per le nuove tecnologie. 

Le domande che, da curiosi, ci vengono in mente su questa storia sono tre: il ritaglio è autentico? Come andò a finire la vicenda? E la situazione era davvero paragonabile a quella attuale? Proviamo ad azzardare qualche risposta.

1. Il ritaglio è autentico?

Sì, l’articolo è disponibile sull’archivio del Corriere della Sera. Venne pubblicato sul Corriere d’Informazione (l’edizione pomeridiana del quotidiano) il 25 gennaio 1977. Nell’articolo ci si chiedeva se gli apparecchi televisivi a colori potevano essere pericolosi per chi li costruiva, li installava o ne usufruiva. La questione era stata sollevata da un ingegnere dell’Ispettorato del Lavoro di La Spezia, e su ordine del pretore Michele Marchesiello erano stati sequestrati 300 apparecchi facenti capo a ventisei marchi italiani e stranieri. Intanto, però, già nelle stesse ore, sul torinese Stampa Sera, un ingegnere che aveva collaborato con l’inventore del sistema PAL per la televisione a colori, quello che avevamo adottato anche noi, si diceva “stupito” per quelle polemiche: la possibilità di emissioni di raggi X, con le tecnologie allo stato solido proprie dei transistor, era zero. Il giorno dopo, il 26 gennaio, il Corriere d’Informazione riportava le dichiarazioni della RAI e di un fisico (che sostanzialmente invitavano ad attendere i risultati dell’inchiesta) e raccontava come era nata la denuncia. 

L’ingegner De Luca – spiega il giudice – si è mosso dopo le segnalazioni di commissioni di fabbriche di televisori di Milano e di La Spezia. Ha fatto esperimenti su alcuni apparecchi a colori, risultati non conformi alle norme ed è stato colpito soprattutto dalla mancanza di elementi precisi in base ai quali poter stabilire la conformità. 

Insomma, i cinescopi dei televisori (come allora venivano chiamati i tubi catodici) andavano schermati, ma non esisteva una legge che indicasse come farlo. Lo stesso funzionario dell’Ispettorato del Lavoro precisava che conformità e effettiva pericolosità erano questioni diverse. 

Lo stesso giorno, il Corriere della Sera si affidava pure al direttore generale dell’Istituto Gaslini di Genova, che rassicurava i proprietari delle prime tv a colori: quelli prodotti dai cinescopi – diceva – erano “raggi molli”, cioè a lunghezza d’onda elevata e a frequenza bassa, che quindi poco penetranti. Era sufficiente uno schermo, presente già nei televisori in bianco e nero, per fermarli. Per conto suo l’ANIE (l’associazione che raggruppava i principali industrie italiane di elettronica) auspicava che la situazione fosse chiarita in tempi brevi. Anche perché era girata la voce – infondata – che i televisori tedeschi, a differenza di quelli italiani, fossero muniti di “uno speciale certificato di garanzia”. Insomma, c’era il rischio di un danno economico grave, e quindi si annunciava una controperizia. 

Due giorni dopo, il 27 gennaio, il Corriere della Sera comunicò che i televisori erano stati portati a Bologna, presso il laboratorio di fisica sanitaria del CNEN (Comitato Nazionale Energia Nucleare), mentre il 28 gennaio chiariva, finalmente, che il problema principale era la mancanza di una regolamentazione chiara e univoca. L’Italia non aveva infatti ancora adottato la direttiva Euratom del 1° giugno 1976, che fissava le norme sulla protezione della popolazione e dei lavoratori sottoposti a radiazioni ionizzanti. Insomma, il problema principale era la mancanza di regolamentazione.

2. In che contesto nasceva questa vicenda? E come andò a finire?

Quando scoppiò il caso i televisori a colori in Italia erano già circa 800.000. La RAI trasmetteva alcuni programmi a colori e altri in bianco e nero, e si avviava a far iniziare le trasmissioni a colori su scala generale Gli abbonati pagavano un canone diverso a seconda del servizio di cui usufruivano.

Detto questo, però, il dubbio del pretore non era così campato in aria: i cinescopi dei televisori a colori lavoravano con una tensione di 20.000-25.000 volt, contro al massimo 15.000 volt di quelli in bianco/nero. I tubi catodici, in quelle condizioni, emettevano effettivamente raggi X, che venivano poi schermati da un vetro al piombo posto davanti allo schermo TV. Ovvio che, in caso di errata o di insufficiente schermatura, lo spettatore avrebbe finito per essere sottoposto a un fascio di raggi X, con le conseguenze che ben conosciamo. È ciò che accadde, ad esempio, negli Stati Uniti, dove nel 1960 la General Electric ritirò dal commercio 80.000 apparecchi sospettati di emettere radiazioni eccessive. Insomma, se oggi ci siamo abituati a pensare alla televisione come a un elettrodomestico assolutamente innocuo, nel 1977 questo non era automatico.

La vicenda italiana del sequestro dei 300 televisori si concluse circa sette mesi dopo. Il 22 agosto 1977 il Corriere d’Informazione titolava: Assolta la TV a colori (notizie analoghe dava il giorno dopo La Stampa). La perizia del Centro elettronico dell’Università di Bologna e del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare aveva stabilito che gli spettatori non correvano alcun rischio, dal momento che già a 5 centimetri di distanza dallo schermo le radiazioni erano inferiori al valore stabilito per legge. Il problema sussisteva invece per i lavoratori addetti al montaggio, che collaudavano i tubi catodici non ancora schermati. Secondo il pretore, almeno una trentina di ditte si trovavano in una posizione irregolare. Concludeva il giornale milanese:

Le fabbriche ora – ammesso che non lo abbiano già fatto, subito dopo che è stata avviata l’inchiesta giudiziaria – dovranno trovare il modo di proteggere i lavoratori o schermando i tubi catodici nelle linee di montaggio, o comunque isolandoli con una serie di automatismi, affinché il lavoratore non venga a contatto con la macchina radiogena in funzione.

Dunque, l’inchiesta del 1977 portò effettivamente alla luce alcune irregolarità e ad una maggior protezione degli addetti alla costruzione degli apparecchi. Ma possiamo davvero bollare quella del pretore come una preoccupazione inutile e irrazionale?

3. La situazione del 1977 è paragonabile a quella attuale? Quali sono le somiglianze e quali le differenze?

Le nuove tecnologie attirano da sempre dubbi e perplessità sui loro potenziali pericoli – alcuni giustificati, altri molto meno. Esiste un simpatico podcast/sito (The Pessimist Archive) che raccoglie proprio queste iniziali resistenze alle innovazioni del passato, e che di solito ai nostri occhi moderni appaiono di un’ingenuità estrema. Tanto per fare qualche esempio: a fine Ottocento molti benpensanti se la prendevano con gli orsacchiotti, che non permettevano alle bambine di sviluppare l’istinto materno delle bambine, a differenza delle tradizionali bambole. Oppure con le biciclette, colpevoli di indurre il gentil sesso verso la masturbazione (eh, sì). Ma anche i nuovi sistemi per la comunicazione hanno avuto i loro detrattori (le onde radio, ad esempio, vennero accusate di far stragi di uccellini). Se queste opposizioni ora ci fanno sorridere, i dubbi sui raggi X emessi dagli schermi televisivi avevano quanto meno un razionale.

Il caso del 1977 è emblematico: non si trattò di un movimento “popolare”, ma di un dubbio tecnico espresso da un addetto ai lavori e poi vagliato tramite una perizia (che, come abbiamo visto, confutò il timore di un pericolo per gli spettatori, ma stabilì che le preoccupazioni per la salute degli operai erano effettivamente giustificate). Certo, la notizia provocò qualche paura ingiustificata anche nei proprietari degli apparecchi. Il Corriere della Sera del 27 gennaio, ad esempio, riportava che

fra gli utenti c’è già chi vuole far controllare se il proprio Tv color emana raggi X in quantità pericolosa.

Eseguite le analisi, però, i giornali smisero di parlarne e non si registrarono preoccupazioni particolari da parte del pubblico. La perizia non venne contestata, non ci furono manifestazioni da parte di associazioni di consumatori, il verdetto venne giudicato sufficientemente autorevole e la cosa finì lì.

La situazione attuale del 5G è un po’ diversa: qui abbiamo delle ricerche che hanno stabilito l’innocuità della nuova tecnologia, ma i cui risultati vengono messi in discussione (a torto) da parte di associazioni e gruppi che le ritengono errate o che giudicano gli autori corrotti e di parte. La somiglianza tra il caso del 1977 e la situazione attuale del 5G sembra, tutto sommato, un po’ forzata. Ogni nuova tecnologia ha avuto sostenitori e detrattori. I dubbi sulla loro introduzione sono stati a volte giustificati, altre volte eccessivi, altre ancora totalmente pseudoscientifici. Ogni storia è un caso a sé. Ragionare per analogie può fare impressione o strappare un sorriso, ma rimane – a ben guardare – una fallacia logica. 

Sofia Lincos

Sofia Lincos collabora col CICAP dal 2005 ed è caporedattrice di Queryonline. Fa parte del CeRaVoLC (Centro per la Raccolta delle Voci e Leggende Contemporanee) e si interessa da anni di leggende metropolitane, creepypasta, bufale e storia della scienza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *